Cosa Nostra, 'ndrangheta, camorra. Sempre più spesso collaborano tra loro: per gestire affari, riciclare denaro, influenzare la politica. E' la nuova tattica della criminalità organizzata. Che passa per Roma e arriva al nord

Mafie, la grande alleanza

Larghe intese criminali per gestire traffici globali. Nel terzo millennio la grosse koalition è diventata la regola delle mafie italiane. Cosche di regioni diverse si mettono d'accordo per aprire insieme singoli business o condividere professionalità. Un modo per ottimizzare i profitti e ridurre le liti, quelle che richiedono il piombo e alzano l'attenzione delle istituzioni. Così boss campani e siciliani, calabresi e pugliesi trovano intese per rilevare negozi, eliminare avversari, costruire aziende, corrompere autorità. Nuovi assetti flessibili, liberi da cerimonie ufficiali e affiliazioni impregnate di sacralità.

Oggi gli affari e i target da raggiungere hanno soppiantato i principi dell'onore e della fedeltà eterna. Si moltiplicano le joint venture, consorzi temporanei tra holding criminali, che permettono agli spregiudicati padrini versione 2.0 di dominare il mercato. «Le alleanze servono a ridurre i rischi e permettono di adattarsi alle circostanze», osserva Federico Varese, professore di criminologia a Oxford e tra i più importanti studiosi di mafie globalizzate.

I clan collaborano per importare tonnellate di coca, per nascondere casse di Kalashnikov, per ripulire milioni di euro in contanti. Oppure lo scambio può riguardare figure particolari: un killer prestato per un'azione di fuoco o un cantante neomelodico da far esibire al party del capo bastone. Sì, anche la musica entra nei patti. Lo ha raccontato un pentito della famiglia Birra di Ercolano: i suoi capi avrebbero speso migliaia di euro per ingaggiare quattro artisti neomelodici napoletani da inviare nei feudi della ‘ndrangheta. L'evento da festeggiare? La scarcerazione del padrino calabrese.

MASTER CRIMINALE
Anche in questo caso, mammasantissima campani e calabresi si sono conosciuti in prigione. Non in un penitenziario qualunque, ma nel rigore del carcere duro. Le regole del 41bis impongono che i detenuti più pericolosi stiano in cella con criminali di territori differenti: Totò Riina per anni ha potuto parlare solo con un malavitoso napoletano e oggi Antonio Iovine, l'ultimo leader casalese catturato, passa il tempo con un pregiudicato pugliese. Così per alcuni dei 709 mafiosi reclusi nelle aree speciali del 41bis, il carcere duro sta diventando un master di alto livello, dove conoscersi e stabilire le basi per le iniziative congiunte. «Il penitenziario può trasformarsi in un istituto criminogeno, luogo di nuove alleanze, in cui si decidono le sorti delle organizzazioni sul piano nazionale e locale», spiega a "l'Espresso" Antonello Ardituro, magistrato della Procura antimafia di Napoli in prima linea contro il clan dei Casalesi. «Negli ultimi anni i 41 bis aumentano perché è cresciuto il numero di capi arrestati mentre i posti nel carcere duro stanno finendo»

GRANDE SUMMIT
C'è un mistero irrisolto da tre anni. Nasce dalle immagini riprese dalle telecamere del carcere milanese di Opera: i colloqui nell'ora d'aria tra Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio condannato per le stragi del 1992-93, e Francesco Schiavone, il "Sandokan" padrone di Gomorra. I due parlano sottovoce camminando durante i summit, ripetuti per giorni. L'allarme per investigatori e procure è stato immediato. L'oggetto delle conversazioni è ancora al vaglio degli inquirenti. Una chiave potrebbe nascondersi nella lettera mandata dal grande capo dei casalesi ai familiari subito dopo la sentenza di Cassazione, in cui li invitava ad andarsene poiché sarebbe arrivata «una valanga». Di cosa? Arresti? Ritorsioni? Pentimenti? Qualche mese dopo quei colloqui, la Direzione investigativa ha svelato che Cosa nostra e casalesi avevano già prodotto una società a capitale mafioso, che assieme ai calabresi gestiva il trasporto di frutta e verdura dai centri di produzione meridionali fino ai ricchi ortomercati del Centro e del Nord.

ROMA DOCET
Il grande laboratorio delle alleanze flessibili è Roma. Accade dai tempi della Magliana: nessuno si sente così forte da occupare la capitale e quindi tutti cercano di mettersi d'accordo. A partire dal traffico di cocaina. L'ultimo consorzio è stato smantellato due settimane fa: un gruppo misto di settanta malavitosi - calabresi, napoletani, romani, albanesi, boliviani, colombiani e venezuelani - che hanno inondato il Lazio di polvere bianca. Tra i fornitori c'era "Bebé", ossia il manager della droga Roberto Pannunzi, considerato il grossista della ‘ndrangheta nelle Americhe. Già nel 2006 l'indagine Ibisco ha svelato l'intreccio tra banditi capitolini, ndrangheta, famiglie siciliane e narcos venezuelani e spagnoli per distribuire tonnellate di neve sui sette colli. Dove poi investivano i guadagni nel settore immobiliare grazie a colletti bianchi ricchi di entrature. Tre settimane fa il copione si è ripetuto. È stata smantellata la collaborazione tra la cosca calabrese dei Gallace e il clan romano dei Romagnoli: smistavano centinaia di chili di coca, contando sulla complicità di personale dell'aeroporto di Fiumicino. «Possono essere anche gruppi diversi di una stessa mafia a investire risorse per comprare droga. Esistono alleanze interne e flessibili basate su specifici progetti», spiega il professor Varese, che conclude: «Le alleanze possono soffrire di fragilità. E generare conflitti. La grande sfida per i clan è ovviare alla mancanza di fiducia utilizzando meccanismi informali che possano portare a buon fine i loro piani, uno di questi è il classico scambio dell'ostaggio, molto usato tra narcos e organizzazioni italiane». Metodi arcaici per business modernissimi.

OBIETTIVI POLITICI

Spesso le sinergie si consolidano intorno a obiettivi politici. Giuseppe Piromalli junior è tra i mammasantissima più potenti della Penisola. Sovrano di Gioia Tauro e della Piana, da oltre dieci anni si trova nella cella di massima sicurezza del carcere di Tolmezzo. E qui ha passeggiato e dialogato con capi siciliani, tra cui Antonino Cinà, medico personale di Riina e membro del direttorio di Cosa nostra. Più degli affari li unisce la volontà di scardinare il 41bis, contro cui calabresi e siciliani «hanno fatto fronte comune elaborando una strategia unitaria», scrivono i magistrati di Reggio Calabria. E «non per caso» sarebbe avvenuta la trasferta milanese dell'emissario della ‘ndrina Piromalli negli uffici del fondatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri: diventa l'occasione per ricordare al politico «che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia». L'incontro tra Cinà e Piromalli è un ulteriore indizio della vicinanza tra padrini siciliani e calabresi: un puzzle di rapporti e favori al centro di una complessa indagine dell'Antimafia di Reggio Calabria, che ha aperto un fascicolo sul ruolo della ‘ndrangheta nella trattativa Stato-mafia.

TRIBUTI DOLCI
I Piromalli sono anche storici alleati dei Santapaola di Catania. Dettano legge sui porti delle città che controllano: tra container e gru hanno eretto imperi. Dopo l'incontro di Tolmezzo, gli emissari di Piromalli hanno incontrato pure i palermitani di Brancaccio. Nell'appuntamento di Gioia Tauro, i picciotti siculi si sono presentati con un vassoio di cannoli freschi, in segno di rispetto alla signoria locale. Invece la famiglia guidata da Salvatore Lo Piccolo, che fino al 2011 ha dominato Palermo, è in contatto con il clan napoletano Polverino. Durante la detenzione di Roberto Perrone, camorrista di punta del gruppo campano, i suoi familiari sono stati ospitati e riveriti da parenti stretti dei Lo Piccolo: pranzi nella villa in riva al mare a Mondello e dolci napoletani inviati per ringraziarli dell'ospitalità.

BUSINESS SENZA CONFINI
Le joint venture spesso sono determinanti per imporsi nei centri del Nord. Nella Repubblica di San Marino un nome salda gli interessi di camorra e Cosa Nostra: Franco Vallefuoco. Un boss contemporaneo. Businessman più che picciotto. Ben inserito nei salotti buoni della politica, socio occulto di società finanziarie e di recupero crediti intestate a insospettabili avvocati e notai locali. Una ragnatela usata - secondo i pm antimafia di Napoli e Bologna - per riciclare decine di milioni di euro. Il percorso dei denari può arrivare anche più lontano, fino alla City di Londra. Lì era stata cementata l'alleanza più sorprendente: quella tra il latitante Herry James Fitzsimon, cassiere dei terroristi irlandese dell'Ira, e due potenti ‘ndrine calabresi, Iamonte e Mancuso, ben inserite nella massoneria. Insieme, sostiene l'accusa, hanno ripulito milioni attraverso investimenti immobiliari e costruzioni di villaggi turistici.

NEW BUSINESS
La professionalità di alcuni manager è l'ingrediente che fa lievitare i profitti dei gruppi mafiosi. Se l'esperto è capace e disponibile, si moltiplicano le cosche che gli fanno la corte. Vito Nicastri nel settore dell'eolico e del fotovoltaico ha maturato anni di esperienza. La Dia gli ha confiscato oltre un miliardo di euro contestando la sua vicinanza al superlatitante trapanese Messina Denaro. Ma è anche lo specialista al quale le famiglie calabresi di Africo, Platì e San Luca, si sarebbero affidate per vendere terreni destinati a ospitare pannelli solari.
Il consorzio è anche la formula vincente nel gioco d'azzardo legale. Ogni mafia ha il suo re delle slot e delle scommesse, che uniscono le forze fuori dal territorio di origine. Nascono così società miste tra imprenditori di ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra. È il caso di Renato Grasso e Antonio Padovani, che per diversi anni hanno saldato interessi di clan campani e siciliani nella grande arena del gioco. Oppure di Nicola Femia, ‘ndranghetista che ha rifornito di macchinette le bische modenesi dei Casalesi e dei circoli del clan Sarno di Ponticelli. E in Emilia Romagna alcuni pentiti hanno raccontato del patto tra boss casertani e ‘ndrine crotonesi: province divise in zone d'influenza, a Reggio Emilia la ‘ndrangheta, a Modena la camorra. Si coordinano senza pestarsi i piedi: il piombo è il peggior nemico del business, il silenzio il miglior alleato.

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