Per loro lo sbarco in Italia è l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Accade a migliaia di donne africane. Da mesi i trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi. Sfruttando l'emergenza. Mentre il governo non si muove

Quando sbarcano in Italia non sorridono. Hanno superato il deserto, attraversato il Mediterraneo, sono arrivate vive in Sicilia. Ma non sono salve. Perché per loro l’approdo è solo l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Sta accadendo ogni giorno a centinaia di donne, soprattutto nigeriane ma non solo. Adescate con la promessa di un futuro migliore in Europa, vengono traghettate dalla povertà alla schiavitù del sesso nelle città occidentali.

È una tratta antica, ma che dall’inizio del 2014 si è sovrapposta all’ondata di partenze dalla Libia, assumendo proporzioni senza precedenti. I trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi, usando gli scafisti per portare qui la loro merce: le donne. Dopo lo sbarco, si insinuano nelle pieghe dell’emergenza per ottenere permessi temporanei e forzarle al marciapiede. Senza che le nostre istituzioni riescano a impedirlo, rassegnate a farsi complici degli sfruttatori.

«Prima di partire siamo state istruite su come comportarci con la polizia», racconta Princess: «Dopo la traversata mi hanno mandato in strada a fare la prostituta. Se portavo meno di 200 euro al giorno venivo picchiata». Come fantasmi, le africane entrano nei centri d’accoglienza straordinari ed escono sui sedili dei clienti.

«Queste ragazze vivono una seconda schiavitù. Prima la fame, poi lo sfruttamento sessuale», commenta padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista dei missionari comboniani, “Nigrizia”: «Il governo non sta agendo. Forse non vede la gravità del fenomeno, oppure chiude un occhio per evitare di soffiare sulle paure, di dare spazio alla destra. Intanto le reti criminali ne approfittano. E lucrano sulle donne contando proprio sull’incuranza delle istituzioni».
Un'operazione di salvataggio ad opera di una nave commerciale

LA NUOVA ROTTA
Nei primi cinque mesi del 2014 erano sbarcate in Italia 218 nigeriane, 1400 in tutto l’anno. Nei primi cinque mesi del 2015 ne sono già arrivate 698, tre volte tante, più che in tutto il 2013. Significa che a dicembre di quest’anno potrebbero essere almeno 4mila le schiave trascinate sui barconi per finire a battere sui marciapiedi del paese. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), infatti, il 70 per cento delle giovani che arrivano da Lagos seguendo le rotte degli scafisti è destinata alla prostituzione.

Lo confermano le indagini: «Il collegamento fra favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento sessuale non è occasionale», commenta il sostituto procuratore di Agrigento Renato Vella. «Entrare con documenti falsi via aereo è sempre più difficile», spiega Isoke Aikpitanyi, ex vittima del racket, oggi attivista e scrittrice, che con la sua associazione ha realizzato un’indagine su 500 prostitute nigeriane che lavorano in Italia. Quasi il 60 per cento è arrivata via mare dalle coste libiche. E sempre di più, le lucciole raggiungono l’Europa attraverso il Mediterraneo o i Balcani.

Non vengono solo dalla Nigeria, ma anche dal Camerun e dal Bangladesh, sebbene le vittime che arrivano da questi paesi siano più difficili da intercettare. Il ministero degli Interni inglese ha nominato per la prima volta un commissario speciale contro la schiavitù, Kevin Hyland, che pochi giorni fa ha parlato di un «problema enorme e urgente da affrontare» di fronte ai duemila casi segnalati in Inghilterra. Insomma l’Europa comincia ad aprire gli occhi su questo fenomeno. Mentre a Roma tutto tace.
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DOPPIO INCUBO
Le rotte clandestine sono un’affare d’oro per i trafficanti: fanno risparmiare soldi per il viaggio e per i documenti. Ma per le donne significano soltanto dolore. Le sopravvissute portano spesso dalla Libia le cicatrici di violenze, abusi, rapporti non protetti se non con metodi artigianali (come pezzi di cotone infilati prima della penetrazione), aborti indotti in condizioni igieniche inimmaginabili.

«Il gruppo di pick-up su cui viaggiavo nel deserto con altre dodici ragazze è stato fermato più volte. Ogni volta i militari hanno potuto fare di noi quello che volevano», racconta a fatica Princess, una ventenne che per mesi è stata obbligata a prostituirsi nel quartiere Ballarò di Palermo, prima di denunciare il suo aguzzino ed entrare in un percorso di protezione: «Minacciate dai fucili, siamo state violentate e offerte ai militari in cambio dell’immunità degli altri, per far passare indenne il convoglio. Opporsi era impossibile: si rischiava di essere uccise o abbandonate nel deserto».

Testimonianze come queste sono numerose e concordanti. Tanto che Maurizio Scalia, procuratore aggiunto di Palermo, a capo del pool contro il traffico dei migranti, sostiene che «le donne siano diventate merce di scambio tra i trafficanti e le organizzazioni militari o paramilitari che si incontrano lungo il tragitto che porta dal centro Africa alle sponde Sud dell’Europa». Non soltanto destinate a diventare squillo, quindi, ma anche usate lungo il viaggio come beni da baratto. Un doppio incubo.
Due prostitute etiopi

BAMBINE PERDUTE
Il via vai degli scafisti verso la fortezza europea non ha solo stretto con violenza le catene delle schiave lungo il viaggio, ma ha anche cambiato radicalmente la ricerca di nuova “merce” alla fonte, rendendo la caccia ancora più brutale. «Le ragazze che incontriamo ultimamente provengono da regioni poverissime; molto spesso sono analfabete; non hanno mai frequentato una scuola», spiega Tiziana Bianchini, responsabile immigrazione della “Cooperativa lotta contro l’emarginazione” di Sesto San Giovanni: «Ma soprattutto sono piccole. L’età media delle prostitute nigeriane era di 20, 21 anni prima del 2011. Adesso sono aumentate le minorenni, le adolescenti».

In Puglia è stata fermata un’africana destinata alla strada. Diceva di essere maggiorenne, ma aveva appena compiuto dodici anni. Una bambina. «Moltissime nigeriane con cui entriamo in contatto hanno 15, 16 anni. I trafficanti hanno detto loro di presentarsi come maggiorenni per non finire in strutture più controllate», raccontano operatori dell’Oim che lavorano in Sicilia e Puglia proprio per prevenire lo sfruttamento: «Spesso sono vergini. Destinate non solo all’Italia ma anche alla Francia e al resto d’Europa».
Il caso
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RAGNATELE CRIMINALI
Abeke è partita dal suo villaggio all’inizio del 2014. Da Tripoli è salita su un barcone con un uomo e altre cinque ragazze. Era agosto. Dice di non ricordare l’approdo in Italia, ricorda però che dal porto hanno preso diversi treni, fino a Bari. Dalla stazione sono state portate in un appartamento con una sola stanza da letto: lei dormiva per terra in cucina. Le è stato detto che avrebbe dovuto prostituirsi per restituire il debito di viaggio, stimato irrealisticamente in decine di migliaia di euro, e che doveva 200 euro al mese d’affitto e 100 euro alla settimana di cibo.

Non basta: pagava anche 300 euro al mese per la piazzola sul marciapiede. Ogni giorno una macchina la portava a un quadrato di asfalto lurido di fianco alla strada alle sei di mattina e la ritirava alle 21. Ogni sera la “maman”, la donna che controlla le sue connazionali, raccoglieva i soldi: se guadagnavano poco venivano picchiate. Una volta Abeke si è rifiutata di avere rapporti per i dolori mestruali: è finita in ospedale. La sua storia è stata cambiata dall’incontro con Francesca De Masi, un’operatrice della cooperativa BeFree di Roma, che l’ha aiutata a uscire dal racket. Ma è simile a quella di centinaia di altre giovanissime.
Prostitute nigeriane

Uno sfruttatore nigeriano intercettato dalla polizia, Obuh Destiny, si riferiva a loro come le “galline”. Ogni ragazza veniva fotografata e schedata dalla sua organizzazione criminale perché fosse riconoscibile agli uomini del clan lungo le tappe del viaggio dalla Nigeria al Niger, quindi alla Libia, a Lampedusa e infine alle strade di Ravenna. La burocrazia del male di “Brothers Happy”, com’era chiamato in codice il trafficante, univa al controllo capillare delle donne il vincolo del debito contratto dai familiari per il viaggio, e infine la superstizione, con maledizioni vudù e pratiche di stregoneria tuttora temute da chi nasce in quelle terre. I riti violenti, l’efficienza e la paura le incatenavano a lui. Senza scampo.

SFRUTTARE GLI INGRANAGGI
Queste reti criminali, a capo di un business che l’osservatorio Transcrime (della Cattolica di Milano e dell’Università di Trento) stima valere da 600 milioni a più di quattro miliardi di euro solo in Italia, hanno capito presto come approfittare di tutti gli ingranaggi dell’emergenza in Italia. Non solo per la facilità di approdo, ma anche per la possibilità di mettere in regola, almeno per un po’, le loro vittime, arrivando a usare i centri d’accoglienza come basi operative.

«È frequente, quasi normale ormai, incontrare ragazze che si prostituiscono per strada con in tasca la richiesta d’asilo», conferma Vincenzo Castelli, presidente di On The Road, una onlus che da tempo si occupa di contrasto allo sfruttamento in Abruzzo: «Macchine e pulmini le aspettano fuori dalle strutture che le ospitano e le portano a vendersi lungo le provinciali».
Una prostituta

I trafficanti obbligano le ragazze a presentare domanda di protezione internazionale, sapendo che questo darà loro diritto a stare in Italia fino alla risposta. Agli ufficiali le donne ripetono tutte le stesse storie-copione: i familiari morti in un attentato, oppure una persecuzione, poi la partenza attraverso la Libia. Sanno, i papponi, che oggi il tempo medio per avere una convocazione dalla commissione territoriale è di sette mesi, ma in alcune città come Roma, Milano o Palermo può esserci da aspettare più di un anno.

E che, in caso di diniego, potranno fare ricorso, accumulando così tempo prezioso per sfruttare le ragazze senza il rischio che vengano rinchiuse in un Cie perché irregolari. E senza il rischio, quindi, che pur di non essere espulse le donne-bambine si convincano a denunciarli, accedendo così ai percorsi di protezione previsti dalla legge.
Una prostituta mentre si trucca

STATO ASSENTE
La procedura di protezione internazionale è un diritto che va garantito a tutti, non solo per umanità o per legge, ma perché se affrontata nel modo giusto potrebbe davvero servire a combattere lo sfruttamento. Alcune commissioni territoriali, spiega infatti Francesca Nicodemi dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), hanno iniziato a lavorare con gli esperti anti-tratta per riconoscere le vittime e aiutarle a denunciare. Andando oltre gli schemi che le porterebbero ad essere respinte, per ottenere invece una protezione specifica. «Torino è stata la prima», racconta l’avvocato: «Qualcosa si muove in altre città. Ma il problema è che non c’è nessuna indicazione a livello centrale».
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Lo stesso avviene nelle strutture d’accoglienza: onlus molto attive, governo molto assente. Immobile davanti alla tratta delle schiave. «Dopo lo sbarco le ragazze vengono sparpagliate nei centri straordinari, aperti d’urgenza dalle prefetture in tutta Italia», riprende Tiziana Bianchini della “Cooperativa lotta contro l’emerginazione”: «Ma gli albergatori o le cooperative improvvisate a cui vengono affidati i migranti non sanno riconoscere i segni dello sfruttamento». Che può avvenire così sotto i loro occhi.

Stava succedendo a Monza, ma i responsabili di una struttura se ne sono accorti dopo una fuga e hanno chiesto aiuto a “Coop lotta”, avviando colloqui con 30 africane. Tutte erano già cadute nella trappola, anche se in modo “soft”: per convincerle a tacere i magnaccia dividevano i profitti a metà con loro. Cinque donne li hanno denunciati e sono state aiutate.

A Napoli la prefettura ha stretto un accordo con Dedalus, un’associazione anti-tratta, per individuare le vittime nei centri d’emergenza. Ma a livello nazionale niente: nessun intervento a riguardo. Anzi, da due anni è fermo un piano di riforma necessario per adottare le normative europee. Lo Stato, in perenne emergenza, non si rende conto di essere diventato complice dei peggiori schiavisti del pianeta. E come ricorda Princess: «Che alternative danno le istituzioni a chi lascia la strada?».