Quadri di Schifano, serigrafie di Miró, décollage di Rotella: ecco la collezione d'arte dell'uomo accusato di essere il padrino di mafia Capitale. Uno scrigno di opere trovate dagli investigatori in parte a casa e in parte in un magazzino, ben custodite. E di una delle sculture sequestrate ora emerge un pezzo di passato (Foto di Alberto Gottardo tratte dal documentario Sky 'Follow the paintings')
«Una donna per sette bastardi». È il manifesto strappato di un film, re-incollato da Mimmo Rotella su un fondo di gangster, svastiche e spie. Il décollage del celebre artista sembra oggi figura del suo proprietario. Perché il quadro è una delle opere sequestrate al “nero” Massimo Carminati,accusato di essere il padrino di mafia Capitale. Si trova ora in fondo al corridoio nel caveau dei carabinieri. La finestra lo illumina a lato. Appoggiata al suo fianco, in cornice, Marilyn Monroe: il Nero ne aveva quattro di Marilyn realizzate da Mimmo Rotella, da “A qualcuno piace caldo” alla “Fermata dell’autobus”. Oltre che appalti, amicizie e denaro, Carminati aveva accumulato negli anni anche uno scrigno di opere d’arte. L’ultimo tassello: con il potere, il crimine - la bellezza.
Gli inquirenti hanno requisito al “Cecato” oltre novanta pezzi da classici: ci sono astratti di Consagra e ballerine di Botero; sculture in legno opaco di Louise Nevelson, palme di Mario Schifano, uno “Shanghai” di Boetti, disegni di Manzù; c’è anche una “tecnica mista” del futurista Filippo Tommaso Marinetti datata 1939. La loro origine è dubbia. A fine novembre un maresciallo dei carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale deponendo nel processo a Carminati, ha detto: «La maggior parte delle opere non sono riconducibili a nulla, ovvero non c’è traccia che ci possa far ipotizzare una provenienza quantomeno lecita. E allo stesso tempo nessuna è risultata oggetto di furto o appropriazione indebita».
Di una di queste sculture ora “l’Espresso” può raccontare il passato. Anticipando in parte uno dei capitoli di “Follow the paintings”, documentario prodotto da Sky che indaga sul lato oscuro del mercato dell’arte, partendo dai piani alti della finanza, dalle gallerie internazionali, per arrivare fino alla ’ndrangheta (in onda il 18 dicembre). La traccia su Roma porta a piazza di Spagna, nella strada degli artisti, via Margutta. Entra in una galleria «diversa». «Volevamo diventasse un punto di ritrovo per chi passava per quella strada così famosa. Funzionava. Era una scatola nera, con poche opere, dove fermarsi a meditare, ad apprezzare il valore dell’arte», racconta il titolare di allora: «Solo la riorganizzazione costò circa 200mila euro. Ma senza rientro. Voglio dire, non è che i soldi spesi poi siano rientrati». [[ge:rep-locali:espresso:285251047]] Dietro la “scatola nera” c’era infatti un uomo cui interessava più impiegare il denaro, che guadagnarci: Gennaro Mokbel, l’imprenditore romano con un passato nell’estrema destra, contatti con esponenti dell’eversione nera e della banda della Magliana, condannato in primo grado a 15 anni di carcere per il riciclaggio internazionale record da due miliardi di euro dell’affaire Fastweb-Sparkle. Quei capitali sporchi, la rete di Mokbel li investì in aziende di comodo, in barche, in diamanti; nel 2014 per 34 bustine di quelle pietre sottratte alla banda fu ucciso il tesoriere del gruppo. E in opere d’arte.
Al momento del suo arresto la collezione di Massimo Carminati era solo in parte esposta come arredo colto alle pareti della sua villa di Sacrofano, alle porte della capitale, dove viveva insieme alla compagna Alessia Marini. Il 25 gennaio del 2014 i carabinieri dei Ros osservano il “nero” impegnato in un trasferimento. Insieme alla compagna raggiunge gli uffici della Imeg, l’azienda di un altro imputato, Agostino Gaglianone. Spostano armi? Contanti? No. «Trasportavano dall’auto oggetti coperti con dei teli, che per la conformazione erano compatibili con delle opere d’arte», racconta il tenente colonnello dei Ros Giovanni Sozzo: «E in quegli uffici, effettivamente, durante la perquisizione, le abbiamo poi trovate accatastate. Ben custodite, confezionate in modo da non deteriorarsi». [[ge:rep-locali:espresso:285250614]] Secondo la perizia richiesta dalla procura di Roma e depositata agli atti del processo, se tutti i dipinti e le sculture fossero stati venduti come veri, avrebbero fruttato almeno dieci milioni di euro. Il lavoro degli inquirenti è servito allora a distinguere soprattutto i quadri autentici dalle copie e dai falsi. Le ballerine di Botero, ad esempio, sono considerate posticce, così come una “combustione” firmata da Alberto Burri, artista le cui opere continuano a superare ogni record all’asta. È invece autentica una serigrafia di Miró, come sono veri i Rotella, le astrazioni di Consagra, un vassoio dipinto da Schifano e i “tre uomini” di Giacomo Manzù.
Il tema dell’autenticità, insieme a quello del valore, è uno dei terreni più ibridi, e specifici, del mercato dell’arte. Un piano scosceso, dove convergono i conflitti d’interessi di molti: critici, autori, proprietari. «Quello delle opere d’arte è un mercato spesso alla luce del sole, legittimo», spiega il tenente colonnello Antonio Coppola, del comando dei carabinieri per la Tutela del patrimonio: «È chiaro però che esistono delle pieghe dentro cui chi vuole riesce a muoversi con grande facilità». Una zona grigia. E i documenti della pinacoteca Carminati rispecchiano questa opacità: insieme a perizie timbrate dagli archivi degli artisti, di cui fidarsi (anche se non sempre), vengono citati più volte un copiatore e un ricettatore noti alle forze dell’ordine.
Dentro una scatola di cartone “del tipo ordinette”, conservata nella camera da letto dei suoceri, è stato ritrovato poi un raccoglitore ad anelli blu, dove erano tenuti ben catalogati, in buste trasparenti, disegni a china su cartone di Renato Guttuso (veri) e documenti che attestano il passaggio del boss su una quadreria molto più ricca rispetto a quella sequestrata. Si citano tempere di De Chirico, dipinti di Tancredi, “Pomodori clonati” di Schifano, oltre a una coda di copie realizzate da falsari di Roma da Keith Haring e Picasso.
Molti di questi dipinti non sono ancora stati ritrovati. Perché le opere d’arte sono valori mobili. Ricchezza mobile da mostrare quanto facile da nascondere. Lo sa bene Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata della Guardia di Finanza, che ha inseguito per anni il fiume carsico degli investimenti di Ernesto Diotallevi, il riciclatore della banda della Magliana, l’uomo contiguo a Cosa nostra romana di Pippo Calò, di nuovo affacciatosi ora in mafia Capitale (in una intercettazione il figlio chiede: «Chi è il boss?» e lui risponde: «Teoricamente io»).
Grazie alla ricostruzione dei finanzieri, a Diotallevi sono state sequestrate proprietà per quasi trenta milioni di euro. Fra queste c’è l’appartamento in cui viveva: con un balcone affacciato su Fontana di Trevi. Quando entrano, gli investigatori trovano l’ultima forma assunta dal valore che Diotallevi voleva occultare: l’arte. Busti, oli, Concetti di Schifano, tele di Franco Angeli, Giacomo Balla, Sante Monachesi.
Nomi ricorrenti. «Dovunque si parli di vicende legate alla Banda della Magliana compaiono al sequestro tele di Mario Schifano», racconta Otello Lupacchini, il magistrato che portò a processo gli uomini del gruppo criminale: «Ne abbiamo trovate anche a casa di Antonio Mancini “l’accattone”. Nella villa di Nicoletti sulla via Ardeatina c’erano addirittura palme di Schifano battute in rame». Una passione, un legame nostalgico forse con la Roma d’oro, per loro, dei sequestri e della Pop Art, un modo per ammantarsi d’aura. Ma non solo.
«Il rapporto tra criminalità organizzata e opere d’arte è frequente», dice Lupacchini: «Si potrebbe pensare che i boss acquistino i dipinti per circondarsi di cose belle, per ottenere una sorta di promozione sociale, di rispettabilità. Ma le opere piacciono soprattutto perché sono moneta corrente». Perché permettono di trasportare valore in modo discreto. «Muovere arte, soprattutto contemporanea, è come spostare capitali», aggiunge Coppola. E senza lasciare troppe impronte: «La legge è molto attenta alla protezione dei beni culturali ma non ci consente di avere norme e strumenti investigativi efficaci». Anche per questo le tele sono state usate nel tempo per corrompere, per pagare tangenti. E per riciclare denaro.
Armadio dei suoceri di Carminati. In quel raccoglitore ad anelli, fra gli altri, ci sono due certificati di autenticità dell’archivio di Rabarama, una scultrice padovana resa celebre soprattutto dall’intensa promozione su Telemarket, lo storico canale televisivo specializzato nella vendita di quadri, argenti e gioielli. «La scultura non aveva mai venduto così tanto; le officine si litigavano la possibilità di fondere le mie creazioni. Per molti anni ho lavorato così», ricorda la donna. Le sue opere venivano commercializzate da Dante Vecchiato, noto gallerista scomparso nel 2010, oltre che suo compagno. «Ho scelto io di inaugurare lo spazio con una mostra di Rabarama. Ero amico di Vecchiato. E lei, con delle opere che rappresentavano dei giaguari mi ha dato la possibilità di esprimere il concetto di quello che doveva essere la nuova galleria». [[ge:rep-locali:espresso:285250613]] A parlare è Gino Rossi, il titolare di “Margutta 102”, ovvero uno degli atelier romani in cui secondo l’accusa Gennaro Mokbel e i suoi sodali reimpiegarono gli ingombranti fondi illeciti ricavati dall’operazione Telecom Sparkle. La mostra inaugura il 6 giugno del 2008. Al vernissage di “Dream of transformation” non mancano i vip. «So che alcuni giaguari sono stati venduti a Roma per una mostra, ma su chi li abbia comprati...», risponde l’artista. Di certo «più di uno se li prese poi Mokbel, li avrà usati per i regali», ricorda Rossi. E di certo un giaguaro di Rabarama, lungo 105 centimetri, sta ora su una mensola a poca distanza dai Rotella con gangster e pupe, nel caveau dei carabinieri. Sequestrato, anche quello, a Massimo Carminati.