
«Adozioni in Congo senza rilevanza penale»: Così Milano ha archiviato l'inchiesta su Aibi
Mezzogiorno è appena passato quando spariscono i quattro bambini italiani. Un gruppo di uomini e donne entra nell’orfanotrofio “Spd-Solidarietà per la promozione della pace” a Goma, nella tormentata regione orientale del Congo. È il 7 marzo 2014.
La mattina dopo la direttrice Bénédicte Masika Sabuni presenta la denuncia. Nel verbale fa i nomi di alcune persone. Le accusa di violenze e della scomparsa di nove piccoli ospiti. Quattro sono bimbi con cognomi italiani, già adottati con sentenze esecutive da famiglie italiane attraverso l’associazione “Aibi” di Marco Griffini. Mirindi, 6 anni, è stata assegnata a una coppia di Pisogne, in provincia di Brescia. Melanie, 10 anni, a una famiglia di Cosenza. Il piccolo Aimé, 6 anni, ai nuovi genitori a Roma. E Nicole, 6 anni, a una coppia di Casorate Primo, nel Pavese.
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La loro storia di orfani è raccontata nei provvedimenti di adozione timbrati dal presidente del Tribunale dei minori, Charles Wilfrid Sumaili, il giudice che Aibi nelle comunicazioni interne indica come partner. Ma non sono orfani: sono tutte storie inventate. Un falso di cui, secondo le segnalazioni, i collaboratori di Griffini sono a conoscenza almeno da fine marzo 2014.
In quei giorni sulla scomparsa dei quattro bambini indagano anche il rappresentante legale di Aibi a Goma, l’avvocato Martin Musavuli, e l’assistente sociale dell’associazione, Oscar Tembo. Già il 15 marzo il legale invia il suo primo rapporto ad Aibi: lo ricevono, come confermano le email, gli operatori Eddy Zamperlin e Filomena Giovinazzo in servizio a Goma e poi Mauro Pitzalis, Laura Brivio e Valentina Griffini, la figlia del presidente-padrone responsabile dell’attività all’estero.
Possiamo seguire questa parte dell’inchiesta con carte alla mano perché una fonte interna ad Aibi ci ha permesso di documentare quanto è avvenuto. L’avvocato Musavuli scrive che secondo la direttrice sarà impossibile ritrovare i piccoli: «Madame Bénédicte ha dichiarato che questi bambini sono stati portati al centro Spd dall’educatrice Francine Muhimuzi. L’educatrice ha fatto poi cambiare i nomi dei bambini che sono tutti originari del Sud-Kivu, per dar loro nomi del Nord-Kivu. È il caso di Nicole, che in realtà si chiama Binja».
Già nelle due pagine del primo rapporto, il rappresentante legale di Aibi va subito alla questione: «Tutti questi bambini hanno i loro padri e le loro madri in vita che oggi li reclamano. Il presidente del Tribunale dei minori mi ha confidato che era stato lui a far rientrare Melanie al centro prima che sparisse di nuovo: probabilmente lei ora se ne è andata con la sua mamma. La madre ha reclamato sua figlia alla polizia speciale per l’infanzia. Il presidente del Tribunale dei minori afferma che Melanie assomiglia fortemente a colei che dice di essere sua mamma».
LA VERSIONE DA CONCORDARE
Il 18 marzo l’avvocato Musavuli informa Zamperlin che Nicole si chiamava davvero Binja. Sempre Zamperlin e la collega Filomena Giovinazzo ricevono un nuovo rapporto via email il 21 marzo 2014. L’avvocato Musavuli e Oscar Tembo hanno indagato a fondo. «Mi è stato chiesto in questi giorni di armonizzare le mie osservazioni con Madame Bénédicte Masika, Madame Vicky Muhimuzi e Monsieur Zirimwabagabo», scrive il legale.
I tre con cui deve mettersi d’accordo sono: la direttrice, la responsabile amministrativa del centro “Spd”, sorella dell’educatrice che ha portato in istituto Mirindi e Melanie e un maestro elementare che ha consegnato Aimé e Nicole e lavora in una scuola di cui è preside Madame Bénédicte. «Abbiamo constatato», continua Musavuli, «che nelle schede di presentazione dei bambini spariti, le persone di riferimento sono differenti da quelle incontrate in questi giorni. Anche le storie dei bambini sono differenti».
Musavuli riferisce di avere convinto la direttrice dell’istituto ad accompagnarlo sul terreno per verificare dove siano i bimbi. È così che trovano la famiglia di Mirindi e Melanie. E scoprono che Aimé è figlio di Maman Mbale e ora si trova con la mamma in un altro villaggio. Rivela poi l’avvocato di Aibi: «Eravamo più o meno attesi. Non perché sapessero che saremmo arrivati, ma perché avevano l’abitudine di ricevere minacce da persone disposte a portare via i loro bambini. C’è voluta circa un’ora e mezzo per far comprendere la situazione... Abbiamo visto la madre di Mirindi, che ha affermato di essere anche la nonna di Melanie, la madre della sua mamma. Lei non conosceva i nomi dati ai bambini. Per lei sono Ketya (Melanie) e Marie Louise (Mirindi). Ha dichiarato che le sue bimbe erano state prese per ragioni di studio, perché non aveva mezzi per farle studiare. Si dice dispiaciuta del fatto che nessuno le abbia mai detto la verità quando venivano a chiederle le piccole per portarle al centro. Dichiara che dopo la sparizione delle bambine dall’istituto, era andata a cercarle con i poliziotti. E da quando le ha recuperate, viene minacciata da persone che vogliono rapirle».
È sempre la voce della mamma di Mirindi nel rapporto interno dell’avvocato di Aibi: «A questo punto afferma che la nostra presenza sul posto non era gradita. Lei pensava che noi facessimo parte di quelli che vogliono rapire i loro bambini. Se questo fosse vero, ha detto, noi dovremmo aspettarci le conseguenze. Il quartiere è già stato mobilitato per punire tutti quelli che cercano di rapire i bambini. In particolare, con la lapidazione». Prosegue l’avvocato Musavuli e questa è un’altra comunicazione fondamentale: «Abbiamo anche cercato di sapere perché quando siamo arrivati, la bambina che noi conosciamo con il nome di Melanie (che ha 10 anni) è scappata non appena ha riconosciuto Oscar (Tembo, l’assistente sociale). La mamma di Mirindi ci ha risposto che non solo i bambini più piccoli hanno paura di incontrare tutti quelli che sono legati a Spd e Aibi, ma anche Melanie teme di essere rapita. Oscar e io spieghiamo che Aibi non compra i bambini, che Aibi è qui per l’interesse superiore del bambino». Il 24 marzo arrivano gli ultimi due rapporti interni sulla scomparsa dei quattro bimbi. Li ricevono sempre Eddy Zamperlin e Filomena Giovinazzo, i due operatori di Aibi a Goma. L’avvocato comunica che lui e Oscar Tembo hanno rintracciato il padre di Aimé, Kasay. E un fratellino, Shadrack, 5 anni, che dice che Aimé è stato portato dalla nonna, lontano: «L’hanno portato là perché veniva sempre rinchiuso nel centro Spd», spiega il piccolo.
L’ULTIMA TRACCIA DELLA BAMBINA
Il legale di Aibi si lamenta perché la direttrice dell’istituto, Madame Bénédicte, «ci aveva espressamente fatto perdere le tracce» del padre di Aimé «portandoci là dove la famiglia se n’era andata da due settimane». Suggerisce anche di coinvolgere la locale Procura. Il suo scopo dichiarato nel rapporto però non è denunciare il traffico di bambini non adottabili, ma riprendere almeno Aimé e Nicole: visto che per Mirindi e Melanie non c’è più niente da fare. E conclude: «Madame Bénédicte non ha voluto fare nessuno sforzo per dimostrare la sua volontà di aiutare Aibi a ritrovare i bambini. Mi sembra disonesto da parte sua... Le ho fatto notare che il suo comportamento sconfina nella frode. Presa dalla paura Madame Bénédicte ha detto di essere pronta a farsi dare un prestito dalla banca per rimborsare Aibi delle spese sostenute per i bimbi... Le ho dato un ultimatum. Le ho chiesto di portare i due bambini prima di mercoledì 26 marzo 2014. E le ho fatto sapere che se non li porta, Aibi avrà diritto di ricorrere alla Procura per far rispettare le sentenze di adozione». È tutto scritto.
Non si sa cosa succeda il 26 marzo. Lunedì 31 però due ufficiali della polizia speciale per la protezione dell’infanzia confezionano un verbale nel quale la direttrice dell’istituto cambia versione. La scomparsa dei nove bambini, tra i quali i quattro adottati in Italia, è ora attribuita a «sei uomini in uniforme, armati e non meglio identificati». Così dichiara Madame Bénédicte. Dal verbale si scopre anche che Amini, 9 anni, adottata con Melanie dalla coppia di Cosenza, è ancora in istituto. È l’ultima traccia. Di lei non si saprà più nulla.
Il giorno dopo, il primo aprile 2014, l’associazione di Griffini decide di superare il punto di non ritorno. Quel pomeriggio nella sede legale di Aibi a Goma si ritrovano il giudice Sumaili, presidente del Tribunale dei minori, la direttrice Madame Bénédicte, l’operatore italiano Eddy Zamperlin e l’avvocato Musavuli. Anche se il luogo dell’udienza con il magistrato è piuttosto insolito, sarebbe finalmente l’occasione per mettere alle strette la direttrice con quello che Zamperlin e Musavuli sanno. Invece no. Leggiamo dal resoconto timbrato e firmato dai presenti: «Il signor Eddy Zamperlin ha espresso la preoccupazione profonda di Aibi che constata, con dispiacere, che qualche bambino assegnato e beneficiario di sentenza di adozione è scomparso dal centro Spd». Eppure non sono scomparsi: sono tornati dai genitori. Ancora: «Madame Bénédicte Masika Sabuni ha dichiarato che il suo centro era stato vittima di una incursione di persone armate... come testimonia il verbale della polizia speciale del 31 marzo». La parte più squallida però è verso la fine: «Tutti i membri riuniti hanno espresso la loro solidarietà ai genitori adottivi dei bambini che sono scomparsi o sono stati rapiti e hanno assunto l’impegno di sostenere la polizia speciale nello svolgimento dell’inchiesta».
Il presidente di Aibi, Marco Griffini, la figlia e gli operatori tengono tutto segreto fino a fine mese. Solo tra il 23 e il 28 aprile comunicano ai genitori adottivi che i loro bimbi non ci sono più. Ma nemmeno a questo punto Aibi informa, come sarebbe suo dovere, la Commissione per le adozioni internazionali (Cai). Dopo qualche giorno è una coppia ad avvertire Silvia Della Monica, presidente dell’autorità di controllo di Palazzo Chigi. E siamo a maggio 2014.
Sono le settimane in cui Matteo Renzi e il presidente Joseph Kabila trattano direttamente per far partire i primi minori già adottati, dopo il blocco unilaterale deciso dal Congo: la famosa operazione organizzata dalla Cai che porta in Italia trentuno bambini con un volo di Stato. Il 12 maggio 2014 la presidente Della Monica scrive a tutti gli enti autorizzati, compresa Aibi. E ordina che in poche ore vengano trasmesse attraverso il portale telematico della Presidenza del Consiglio tutti i provvedimenti in corso nei Paesi a rischio. È il primo atto dell’indagine.
Il colpo va a segno: come conferma la nostra fonte interna, Aibi registra anche le sentenze emesse per le quattro coppie che hanno già saputo che non vedranno mai più i loro figli. E, ancora una volta, omette di segnalare alla Cai che i bambini non erano adottabili. Passa un altro mese di silenzio. Fino al 20 giugno, quando Marco Griffini non può più far finta di niente. La Commissione per le adozioni internazionali vuole sapere che cosa è successo. E questa volta, rivela la fonte in Aibi, la richiesta è indirizzata soltanto alla loro associazione. La versione che il presidente-padrone sottoscrive è quella uscita dalla riunione a Goma il primo aprile. Usiamo le sue stesse parole per concedergli il doveroso diritto di replica: «I bambini sono stati rapiti da alcuni uomini armati non identificati, Aibi ha saputo del sequestro il 7 marzo e non ha denunciato il rapimento alle autorità perché lo ha fatto la direttrice del centro “Spd”». Punto. Le indagini della polizia di Goma sono ormai chiuse: «Non hanno avuto successo», sostiene un nuovo verbale. L’amico presidente-partner del Tribunale dei minori ha già concesso ad «Aibi la libertà di proporre ai genitori altri bambini disponibili». Come dire: perso un bimbo, se ne adotta un altro. A novembre anche Valentina Griffini, la figlia, ribadisce alla Cai la versione del padre. E nella sua relazione aggiunge che sono venute meno le speranze di trovare anche Melanie: proprio lei, la bambina che l’avvocato di Aibi e l’assistente sociale avevano invece rintracciato con la mamma di Mirindi a fine marzo. Insomma, un’altra informazione surreale.
Adesso bisogna solo fare in modo che l’ultimo gruppo di bambini già adottati rimanga isolato a Goma. Il più a lungo possibile. Finché restano lì, praticamente in ostaggio, nessuna inchiesta potrà uscire allo scoperto e sfidare il rischio di ritorsioni. Ma bisogna anche screditare Silvia Della Monica, il magistrato presidente della Commissione per le adozioni che ha avviato l’indagine amministrativa. Aibi ha amici importanti per farlo. Sia a Kinshasa, sia a Roma. Scoppia così la guerra privata del soldato Griffini. E della sua potente lobby.
I MESI DELLA PAURA
Cominciano i mesi della paura. Le false accuse in Congo di traffico di minori. Gli arresti. Le torture. L’agguato al fuoristrada con i bambini perché non arrivino a destinazione. E in Italia gli attacchi in Parlamento contro il magistrato Della Monica che con la verifica amministrativa sta raccogliendo prove agghiaccianti. Basterebbero pochi giorni per mettere al sicuro i piccoli ostaggi. Trasferire in aereo ventidue bimbi da Goma, nella regione orientale del Paese africano, alla capitale Kinshasa non richiede di più. Invece i loro genitori dovranno attendere diciotto mesi per vederli atterrare in Italia. Dal 24 dicembre 2014 al 10 giugno 2016: un anno e mezzo di minacce, ricatti e violenze sui mediatori che incassano in silenzio, per non pregiudicare l’operazione di salvataggio. I presunti registi hanno nome e cognome. Lo scrivono i due consulenti giuridici incaricati dalla Commissione di controllo per le adozioni internazionali, in una relazione-denuncia del 20 febbraio 2015: «Se Aibi dall’Italia non si fosse intromessa nell’esecuzione della nostra missione, avremmo terminato il trasferimento entro due settimane... Il comportamento bellicoso e irresponsabile di Monsieur Marco, presidente di Aibi e del suo seguito (i suoi collaboratori, il suo avvocato, il presidente del Tribunale dei minori di Goma, padre Claude dei Padri Caracciolini, eccetera) non ci lasciano indifferenti ed è molto pericoloso, perché la città di Goma è una roccaforte di insicurezza. Le persone stesse vengono assassinate per niente. E noi non ci siamo risparmiati: per fare questo però ci siamo esposti a pericoli gravi per la nostra incolumità».
I due consulenti, di cui omettiamo volutamente il nome, hanno paura. Dopo la scomparsa dei bambini a marzo 2014, cinquanta famiglie italiane non si fidano più. Per questo hanno revocato il mandato ad Aibi. E la presidente della Commissione per le adozioni internazionali, esercitando i suoi poteri, ha preso in carico tutte le procedure e chiesto la collaborazione di altre due associazioni già presenti in Congo: “I cinque pani” di Firenze per i piccoli bloccati a Goma e la “Fondazione Raphael” di Roma per altri 22 bimbi già trasferiti a Kinshasa. Le ritorsioni non si fanno attendere.
Le prime arrivano il 29 dicembre 2014, quando l’abate David della “Fondazione Raphael” assume la tutela dei ventidue bambini di Aibi a Kinshasa e li porta nel suo centro di accoglienza. Molti di loro appartengono allo stesso gruppo trasferito dal centro “Spd” di Goma dopo la finta denuncia dell’assalto armato. La presa in consegna dell’abate David, autorizzata dalle autorità congolesi e dalla Cai, si prolunga fino a tarda sera proprio perché i rappresentanti di Aibi si rifiutano di rilasciare i bambini. A Kinshasa Griffini può contare sul supporto di un funzionario del ministero della Famiglia, Gauthier Luyela Loyel, che trova ascolto nell’ufficio dell’ambasciatore Massimiliano D’Antuono. Alla fine, non si sa da chi, la notizia viene veicolata ai quotidiani nostrani con questo titolo: “Congo, rapiti 22 bimbi adottati da coppie italiane”. Tra i genitori in Italia è il panico. E in Parlamento si scatena l’artiglieria delle interrogazioni. Si va dai soliti Carlo Giovanardi e Aldo Di Biagio a Emanuele Scagliusi del Movimento 5 Stelle che, bisogna ripeterlo, sicuramente non conoscono i retroscena. I loro interventi finiscono sul sito di Aibi. Come l’iniziativa di dodici senatori di Area popolare che chiedono il commissariamento della Commissione per le adozioni: «Per ricostruire la credibilità». Il gioco di Griffini, insomma, funziona.
RITORSIONI CONTRO LA SUORA
Negli stessi giorni Charles Wilfrid Sumaili, presidente del Tribunale dei minori a Goma, convoca i due consulenti incaricati dalla Cai per la liberazione dei bambini e mostra loro una lettera che ha inviato alle autorità locali e a Kinshasa: è la sua accusa personale per traffico di minori contro suor Benedicta dell’associazione “I cinque pani” di Firenze. Sono calunnie. Così infatti si legge nella relazione dei due consulenti giuridici: «Lo stesso presidente del Tribunale dei minori ci invita, per evitare problemi, a trattarlo bene, come ha sempre fatto Aibi, così che possa ritirare il suo atto d’accusa contro suor Benedicta». Curioso che tra le autorità destinatarie della lettera, il giudice abbia inserito Martin Musavuli, l’avvocato di Aibi. E puntuali le false accuse alla suora, responsabile dell’associazione che dovrebbe prendere in consegna i bambini in ostaggio a Goma, finiscono sui giornali italiani: “La ministra, il Congo e suor Patacca” titola ancora oggi il sito di Griffini, ripubblicando un articolo de “Il Fatto Quotidiano”.
I legami con il giudice Sumaili sono confermati da un’altra comunicazione di Aibi. È il report numero 2314 del giugno 2014. A Goma arriva Marco, un nuovo operatore. E dall’Italia gli mandano le direttive: «Molto importante che incontri tutti i nostri contatti e partner (soprattutto il presidente del Tribunale dei minori)». Insomma, il giudice delle false accuse alla suora è un partner di Aibi. I 22 bambini in ostaggio nella pericolosa regione sono distribuiti su varie strutture. Diciassette sono bloccati nell’orfanotrofio “Fed”: la direttrice, lei sostiene su ordine di Aibi, si rifiuta di rilasciarli. Una bimba è al seminario dei padri Caracciolini: padre Claude, secondo la denuncia, dice che non collaborerà «con la mafia italiana perché il loro centro non ha ricevuto ordini dall’Italia, cioè da Aibi». Quattro sono affidati a famiglie nei villaggi intorno.
La rete di insospettabili dimostra che non intende scherzare. Il 7 gennaio 2015 due delle famiglie nei villaggi, con il nullaosta delle autorità, consegnano agli incaricati della Cai i due bambini affidati loro temporaneamente. Uno è molto malato. Il minibus su cui viaggiano viene inseguito da vicino e alle porte di Goma è bloccato da un Land Cruiser. I sei uomini a bordo scendono e pretendono di prelevare i bambini. La movimentata discussione finisce in ufficio davanti a Raymond Tulinabo, il tutore che li aveva in consegna per conto di Aibi. Tulinabo riceve numerose telefonate: «Hallo Oscar», dice al cellulare. Poi spiega che Oscar Tembo, l’assistente sociale, e il presidente di Aibi, Marco dall’Italia, si oppongono categoricamente al rilascio dei bambini.
Gli accompagnatori decidono allora di riportarli nei villaggi. Tre giorni dopo, il 10 gennaio, le stesse due famiglie provano a riaccompagnare i piccoli a Goma. Ma non riescono nemmeno ad arrivare in città. Un’imboscata lungo il percorso attende il loro fuoristrada. Vengono fermati da un gruppo di uomini sconosciuti che vogliono rapire i due bimbi, anche loro già adottati da coppie italiane. L’attacco viene respinto perché gli accompagnatori riescono con un po’ di fortuna a fuggire e a ritornare nel villaggio. Ora chiedono che il trasferimento avvenga con l’appoggio di una scorta.
Il 12 gennaio il presidente-partner del Tribunale dei minori dice ai due consulenti giuridici che è disponibile a scrivere un’ingiunzione ai centri per liberare i bambini: però solo «attraverso il pagamento di una somma di denaro, perché Aibi l’ha sempre ben pagato». Le trattative, coordinate dall’Italia dal magistrato Della Monica, proseguono con pazienza per evitare che i piccoli ostaggi spariscano. E anche Raymond Tulinabo accetta di mettersi dalla parte della legge. Il tutore degli affidi nei villaggi raccoglie i suoi quattro bambini e il 31 marzo dell’anno scorso li accompagna al sicuro a Kinshasa. Ritorna a Goma dopo cinque giorni. Il primo giugno il presidente del Tribunale dei minori lo convoca in ufficio. È un lunedì. Il giudice Sumaili è furibondo: «Lei ha sotto la sua custodia quattro bambini, sono tutti partiti per Kinshasa?». «Sì», risponde Tulinabo. «Chi vi ha autorizzati?». «L’autorità giudiziaria», spiega. «Io la faccio arrestare», urla il presidente-partner di Aibi: «Lei ha deciso di collaborare con “I cinque pani” diretti da una cosiddetta religiosa, riconosciuta come trafficante di bambini così come la vostra storia della Cai, altri trafficanti di bambini...». Dopo un quarto d’ora appare in ufficio il primo sostituto procuratore della Repubblica: «Ecco qui uno di questi banditi che rapiscono i bambini a Goma per andare a venderli in Europa», gli dice il presidente Sumaili.
Tulinabo viene caricato su un’auto. Lo portano in una camera di sicurezza. E dopo un giorno lo rinchiudono nel carcere centrale di Munzenze. L’indomani mattina, verso le 9 del 3 giugno, il povero Raymond Tulinabo vede un agente del Tribunale dei minori intrattenersi con il vice capo dei sorveglianti. Quando l’agente se ne va, è il suo turno. Il comandante lo chiama e comincia il pestaggio. Le torture proseguono con il waterboarding, il trattamento riservato ai prigionieri di Guantanamo: solo che qui immergono Tulinabo nella buca con gli escrementi della prigione. Poi gli ustionano i genitali. Lo torturano anche il mercoledì sera. E ancora giovedì mattina. La salvezza è il suo motorino. Gli amici preoccupati lo trovano parcheggiato davanti al Tribunale dei minori e capiscono che dietro la scomparsa di Raymond c’è il presidente Sumaili. Vengono informati i consulenti della Cai che ottengono il rilascio in libertà provvisoria del tutore dei bambini su pagamento di una cauzione. Le false accuse saranno poi archiviate.
LA MANINA A PALAZZO CHIGI
Trascorre un altro anno. E proseguono i tentativi di far saltare il dialogo tra la presidente della Cai e le autorità di Kinshasa. Dalla capitale i bambini già adottati da famiglie italiane cominciano a partire per Roma. Ma i diciotto a Goma sono ancora in ostaggio dei collaboratori di Aibi. I registi occulti provano a mettere in gioco la polizia militare. Siamo nel 2016. L’11 marzo un’organizzazione locale rilancia le false accuse di traffico di minori contro l’istituto legato a suor Benedicta. Il procuratore ordina la perquisizione dell’ufficio e l’arresto di chiunque si trovi lì. Finiscono dentro i due consulenti giuridici che si stanno occupando del rilascio dei diciotto bambini. Vengono minacciati e trattenuti in condizioni disumane in una camera di sicurezza. Dura soltanto un giorno. In serata le accuse cadono e i due sono liberi. Ma non è ancora finita.
Si scopre che Aibi ha omesso di segnalare alla Cai un’altra sentenza di adozione che certifica il falso. L’ha emessa il Tribunale di Boma, nella regione occidentale del Congo. E sostiene che Martine, 6 anni, assegnata a una coppia di Spinea in provincia di Venezia, sia stata raccolta per strada e non abbia parenti. Non è vero. Infatti Martine è stata ripresa dalla sua mamma a inizio marzo 2014. È il quinto caso dimostrato. Lo si legge nei report interni di Aibi. «La consorella di suor Josiane ha incontrato Martine e la madre?... La mamma di Martine ha sparso la voce che la suora volesse vendere la bambina ai bianchi» (10 marzo). «In merito a Martine ci rattrista leggere ancora una volta che la famiglia ha mal compreso cosa significhi l’adozione e che quindi abbia dato il suo parere negativo» (14 aprile). «Ormai è chiaro che per Martine non si potrà procedere... Non possiamo rischiare oltre» (21 aprile). Come soluzione Aibi propone ai genitori veneziani di sostituire Martine con una bimba cinese. Loro, giustamente, rifiutano.
E siamo alle ultime settimane. La notte del 28 maggio a Goma la direttrice dell’orfanotrofio “Fed” subisce altre pressioni perché continui a partecipare al ricatto. Secondo i testimoni, l’assistente sociale di Aibi, Oscar Tembo, pretende che trattenga ancora i diciotto ostaggi: «Silvia non è più presidente della Cai», le dice. Ma anche la direttrice ha deciso di passare dalla parte della legge. I piccoli tra i 3 e i 13 anni atterrano all’aeroporto di Kinshasa nel pomeriggio di domenica 29 maggio. E saranno gli ultimi a ripartire verso i nuovi genitori italiani. Decollano giovedì 9 giugno, prima di sera, mentre da Roma lanciano il missile che, solo qualche ora prima, avrebbe abbattuto tutta l’operazione di salvataggio. Una manina fa firmare al premier Matteo Renzi, con una coincidenza fin troppo sospetta, il decreto annunciato a maggio di revoca delle deleghe di presidente della Cai a Silvia Della Monica perché siano assegnate al ministro Maria Elena Boschi. Un tempismo spietato, contro il magistrato che in questi due anni ha davvero lavorato nell’interesse superiore di quei bambini: se loro fossero ancora a terra in Congo, dovrebbero aspettare altre settimane perché la nuova presidente ricominci daccapo la trafila burocratica delle autorizzazioni. Ma i diciotto piccoli passeggeri sono già in volo per l’Italia: nessuno li può più fermare. «Chi di revoche ferisce, di revoca perisce», scrive gioioso Marco Griffini, il presidente-padrone di Aibi, sulla sua pagina Twitter. Invece no. Ha perso la guerra.