Le risorse per la prevenzione del rischio sismico ci sono, ma le Regioni non le usano. E lo Stato sta a guardare. Ecco come l'Italia continua a sottovalutare il pericolo di un nuovo sisma

Che strano paese l’Italia. Sembra che manchino sempre i soldi e poi, quando ci sono, vengono dimenticati. È il caso del fondo nazionale per la prevenzione del rischio sismico: 963 milioni di euro dal 2010 al 2016, per le regioni a maggiore sismicità, che gli enti locali hanno speso in piccola parte, con lo Stato che è rimasto a guardare. Nel mezzo, i due terremoti del 2016, a ricordarci quanto siamo fragili senza prevenzione.

Il fondo nasce nel 2009 con la legge 77, voluta dal governo Berlusconi all’indomani del terremoto dell’Aquila, la cui ricostruzione è ancora in corso, e si dota di 963 milioni di euro. Con questi soldi bisognava migliorare e adeguare alle norme sismiche edifici pubblici e privati e farlo al più presto, diceva la legge. Già ai tempi, quel miliardo sembra una cifra insufficiente: ma confrontato con i 300 milioni destinati alle aree devastate dai due terremoti del 2016 e i due miliardi del fondo per gli investimenti infrastrutturali nell’ultima legge di bilancio non sembra poi così misero. Peccato che Regioni e Comuni non lo abbiano utilizzato a dovere: dal 2010 al 2016, su 4000 interventi finanziati, ne hanno concluso appena 660.

I contributi erano ripartiti in sette anni, per differenti importi e non per tutte le Regioni, ma con quattro modalità di intervento: edifici pubblici, privati, lavori urgenti, e gli studi di micro-zonazione sismica. Indagini utili per determinare la presenza dei materiali sul sito che causano l’amplificazione dell’onda sismica: un modo per contenere i danni delle scosse. Ebbene, dei tre interventi urgenti in Abruzzo e nelle Marche, nel 2010 le uniche regioni destinatarie, non ne viene fatto nessuno. Manca ancora la ripartizione tra le regioni delle ultime due annualità, per non parlare degli studi di micro-zonazione: dei 1608 finanziati in sette anni, ne risultano consegnati 916, poco più della metà. Del resto anche la Protezione Civile dice di essere rimasta indietro: «I terremoti del 2016 hanno rallentato la raccolta dei dati».

IL FLOP DELLA PREVENZIONE
La norma del 2009 è figlia della fretta o dell’incuria. Mettere in sicurezza edifici pubblici, antichi palazzi, ospedali, scuole, significa inciampare nei nulla osta delle sovrintendenze, nella burocrazia e nei vincoli di bilancio, se non si crea un iter snello. E la legge voluta dal governo Berlusconi non lo fa, anzi inciampa a ogni angolo. Tutto era ed è in mano alla Protezione Civile, all’epoca guidata da Guido Bertolaso, poi da Franco Gabrielli dal 2010 al 2015 e infine da Fabrizio Curcio, attuale capo dipartimento.



Oltre a occuparsi della ricostruzione dell’Aquila, rivelatasi una mangiatoia per corrotti e sprechi, la Protezione Civile deve monitorare l’uso dei contributi del fondo. Monitoraggio che però non risulta essere stato eseguito.
La prima riunione del tavolo di monitoraggio arriva a marzo 2016, dopo sei anni in cui i sindaci chiedono continue deroghe. A presiederlo è il professor Mauro Dolce, che è ricorso in Cassazione e ha vinto dopo due condanne per la frode degli isolatori termici usati nella ricostruzione aquilana. Non ne escono soluzioni, però si pensa a come rifinanziare il fondo.

In tutto questo la Protezione Civile non ritira, come dovrebbe per legge, le risorse non spese da Regioni e Comuni, anche se queste superano tre anni nell’utilizzarle. Così gli enti locali sono fermi al 2012, con lavori appena iniziati o in progettazione, pur avendo ricevuto nei bilanci regionali 739 dei 963 milioni complessivi.
Secondo la norma, il capo dipartimento dovrebbe infatti stabilire procedure e modalità d’intervento, ma né Bertolaso, né i suoi successori si prodigano per i lavori più urgenti. Anzi, la Protezione Civile ammette candidamente: «Per realizzare interventi urgenti ci vogliono 5-6 anni». Tanto che dei 36 milioni previsti per i lavori sulle strutture a rischio, nelle casse dei Comuni non arriva un euro. Nonostante ciò, alla Protezione Civile è ugualmente corrisposto un milione l’anno per «lo svolgimento delle attività» connesse al fondo.

UNA LEGGE TROPPO COMPLICATA
Iniziamo dal Sud il viaggio nell’Italia che non riesce a usare i fondi per la prevenzione del rischio. La Sicilia riceve 102 milioni di euro in 6 anni, ma realizza soltanto tre degli otto interventi della prima annualità (2010): il ponte di Biddemi e il ponte di Scicli, nel ragusano, e la sede della protezione civile a Caltavuturo (Palermo). Nello stesso anno, avvia altri tre lavori a Ragusa, Messina e Trapani. E il 2010 è l’annata migliore. Dal 2012 è débâcle: parte qualche opera nel messinese ma non se ne vede ancora la fine. Dei quattro edifici pubblici finanziati nella provincia di Catania, i comuni non presentano i piani e gli interventi sfumano. Non si riescono a mettere in sicurezza neanche gli ospedali di Comiso e Ragusa: 18 milioni di euro sospesi. Interventi finanziati per le scuole di Messina, Catania, per la caserma dei vigili del fuoco di Ragusa, ma nessuno realizzato.

Eppure l’Isola ha oltre metà del suo territorio a elevato rischio sismico. Sul totale di 77 strutture da adeguare, si interviene solo su cinque. E tra i privati, un solo fortunato si aggiudica 315mila euro di contributo, per un edificio su via Etnea a Catania, ma in Regione non si sa di che immobile si tratti. Per la Protezione Civile regionale, la legge 77 è troppo complicata e i Comuni non possono farcela.

Il borgo fantasma
Viaggio nel paese cancellato per sempre
11/1/2017
Anche la Calabria, la regione a più alto rischio sismico del paese, è indietro. In sei anni non compie nemmeno l’intervento più urgente: il ponte del Savuto tra Nocera Terinese e Amantea sulla statale 18, crollato per un’esondazione, il cui costo di ricostruzione è di 2,5 milioni di euro, coperto per 537mila euro dal fondo nazionale e per il resto da una delibera Cipe. Un’infrastruttura distrutta a causa del dissesto idrogeologico e che con il rischio sismico non sembra avere niente a che fare. Il comune di Catanzaro ha il progetto del ponte nel cassetto ma i lavori non partono. Forse in queste settimane si avvierà la gara per trovare la ditta. Tempo stimato per la ricostruzione? Non pervenuto.

La Regione intanto ha ricevuto 130 milioni di euro dei 963 del fondo, la fetta più grande della torta. Di 152 interventi finanziati: 6 sono stati definanziati; 40 risultano in corso da cinque anni; 75 in cerca di progetto; 12 non pervenuti perché i comuni hanno dimenticato di fornire la documentazione e solo 19 i completati. E per i privati? Il 90 percento delle richieste sono irregolari ma non si è ancora riaperta la graduatoria. Su un totale di 1932 domande finanziate, i lavori sono conclusi solo in 41 casi.

In Molise, il terremoto è un ricordo sempre vivo. In quello di San Giuliano di Puglia del 2002 (Campobasso) persero la vita 27 bambini e una maestra. Mancava il collaudo ai lavori di sovra-elevazione della scuola e l’adeguamento alla riclassificazione sismica. Qui il fondo di prevenzione potrebbe essere cruciale, ma la ricostruzione del 2002, non ancora conclusa, blocca tutto: manca un funzionario dedicato alla prevenzione. Con 38 milioni di euro in bilancio, non si è spostata neanche un’impalcatura. E come altre regioni, il Molise imputa la colpa ai vincoli del patto di bilancio.

Resta il fatto che la Regione ha co-finanziato interventi per strutture non identificate.

I SOLDI? MEGLIO NON AVERLI
In Umbria i terremoti colpiscono duro, come quello di Norcia del 30 ottobre. Con i 35 milioni della prevenzione, la Regione ha terminato cinque dei ventidue lavori di adeguamento sismico previsti in sei anni. Quei soldi erano una goccia in mezzo a un oceano, lamentano dall’ente, tanto che non hanno richiesto i contributi per gli interventi urgenti: «Sarebbe stato difficile ottenerli». Insomma, i soldi era meglio non averli.

Poi c’è l’Abruzzo, la Regione che più era interessata alla prevenzione, dopo il sisma del 2009. Di 24 tra ponti e viadotti a rischio, ne hanno sistemati solo tre; un quarto ancora attende il permesso dell’ente parco per fare la strada. Intanto la priorità è ancora la ricostruzione del 2009: infinita. E ai danni non riparati allora si sono sommati a quelli delle ultime scosse. Intanto l’ufficio speciale per la ricostruzione dei comuni del cratere, a Montorio (Teramo), è inagibile, eppure è una struttura su cui si dovevano fare lavori urgenti. Ora l’ufficio si occuperà anche della ricostruzione 2016.

Anche le Regioni senza le beghe della ricostruzione, hanno snobbato la prevenzione. Con 30 milioni di euro in tasca, la Toscana ne ha utilizzati solo 8 in sei anni. «C’erano le alluvioni, si è speso per quello», dicono dall’assessorato. Prima di Natale la giunta ha deciso di programmare i 22 milioni rimasti. Ce la faranno a spenderli stavolta? Contano di finanziare i comuni per la progettazione: da qui al 2020 può darsi si riesca.
La Basilicata con 33 milioni di euro non è riuscita ad adeguare nemmeno le strutture pubbliche selezionate: l’ospedale san Carlo di Potenza, i cui lavori (24 milioni di euro) sono bloccati da un ricorso al Tar e il presidio ospedaliero di Tinchi (Matera), la cui gara deve ancora essere bandita. Campania e Puglia sono rimaste addirittura ferme alla programmazione della prima annualità del fondo, 2010: nessun lavoro fatto. Stessa storia per il Friuli Venezia Giulia, che ha impegnato i contributi 2010 nel 2012 ed è ancora alle prese con la programmazione degli interventi 2013 e 2014.

Nonostante Regioni come Lombardia, Liguria, Piemonte, Veneto, Lazio, Marche ed Emilia Romagna siano state più diligenti nell’adeguare alle norme sismiche il proprio parco pubblico, nessuna è riuscita - ad eccezione della Lombardia - a terminare i lavori del 2012, tanto meno quelli successivi.

C’è da augurarsi che i soldi non spesi siano comunque destinati alla prevenzione e che la macchina messa in piedi per la ricostruzione del terremoto di agosto e ottobre scorso sia implacabile su tempi ed interventi.
A dar manforte alla ricostruzione e alla messa in sicurezza, stavolta ci sarà una struttura di missione interna al Viminale, guidata dal prefetto Francesco Paolo Tronca e animata da una quindicina di funzionari del ministero, al costo di un milione di euro l’anno. Sulla cui organizzazione e i compensi, però, nulla si sa: il ministero dell’Interno non rilascia informazioni.