Costretti a vendersi un rene o una cornea. Per pagarsi il trasporto da Medio Oriente e Africa. Un business milionario che specula sulla pelle dei profughi

«Mi vergogno. È brutta. E poi vedrai anche la mia pancia». Slaccia piano la cintura. Slip azzurri, solleva la camicia. Ci sono troppi specchi del salotto buono di una casa di amici iracheni migrati a Colonia. La cicatrice gli spezza il fianco destro dalla schiena all’addome. «Te l’avevo detto». Bakhtiar, ex soldato di Sulaymaniya, di brutto ha anche quel che l’esplosivo di un kamikaze dell’Isis gli ha fatto all’intestino. Sei operazioni, le schegge da rimuovere, tratti maciullati, suture veloci e il baricentro di ogni corpo umano, l’ombelico, spostato di dieci centimetri da un lato.

Al risveglio da una di quelle anestesie, un bruciore nuovo sotto nuove garze. «Ma qui?» chiede all’infermiera dell’ospedale privato di Ankara dove lo hanno portato dopo il visto negato per curarsi in Germania. «Sono stati chiamati due chirurghi esterni, qualcuno in clinica riteneva di non aver ricevuto i soldi per le sue cure», rileva un medico al telefono. È una prova. Secondo i referti iracheni i reni erano quelli belli di un ragazzone di trentacinque anni. Ragazzone a cui le cartelle turche non sono mai state consegnate.
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Pochi giorni dopo l’ultima operazione un uomo è entrato nella sua stanza e ha cominciato a staccare i quadri: «La clinica trasloca, te ne devi andare». Sul telefono, la foto di quell’insegna rossa illuminata. « Me lo hanno rubato, il rene. Gli farò causa» dice mentre scorre le foto coi tubi che gli uscivano dalla pancia, la faccia gialla, una ragazza taciturna come interprete: «All’inizio erano diffidenti, pensavano fossi dell’Isis perché avevo la barba lunga». Non riesce a sorridere. «Secondo te i medici rimangono impassibili quando sanno che chi operano, il rene l’ha rubato a un altro?».

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Questo è un commercio speciale rispetto al sesso o alle migrazioni. Se è un furto, l’anima te la rubano. Se ti uccidono, l’anima te la strappano. Se è un contratto, l’anima la vendi e sei un “mangiatore di te stesso”. Ed è l’unico in cui si è disperati in due: chi vende per vivere, chi compra per non morire.

Il mercato nero degli organi interessa solo il 10 per cento dei trapianti. Una “tratta”che genera da 840 a 1,7 miliardi di dollari l’anno e in cui il coinvolgimento di “mediatori” ha prodotto un aumento anche del 500 per cento del prezzo di un trapianto illegale.

La crisi siriana è l’ultima piazza di questo mercato, insieme alla tratta dei migranti: gli organi, reni in particolare, vengono “donati” da Libano, Giordania, Siria, Turchia, Iraq, nord Africa. Certi pazienti dai Paesi del Golfo, ma anche Russia, Israele, Stati Uniti ed Europa, raggiungono Turchia ed Egitto per le operazioni. Questi, già mete di turismo sanitario, con il Libano hanno accolto quattro milioni di siriani che, dal 2012, qui e a Damasco in 20.000 avrebbero venduto un rene. Interpool e governi ricostruiscono tratte frammentate e non inchiodano mai “reti criminali transnazionali” perché le testimonianze sembrano più verosimili che vere, hanno giurisdizioni diverse da mettere d’accordo, filoni di “prove” che si interrompono, reati che ne camuffano altri e procedure di “ripulitura degli organi”. Perché è illegale comprare e vendere un organo, ma legale è pagare per organizzare un trapianto. E legale è il sentimento della vergogna segreta che si prova ma che perde sempre se si batte con la paura. Vale per tutti, poveri e ricchi.
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Hotspot Egitto
«Il giorno dopo sono voluto andare a casa. Ma sanguinavo e avevo paura dell’infezione. Mi ha pagato la segretaria della clinica con i soldi in una busta. Erano meno del previsto. Non so chi abbia comprato e non ho più visto i broker. Volevo che nessuno sapesse quello che mi era successo».

Età ideale, tra i 20 e i 35 anni. Anche fegato e cornee, ma il 99 per cento del commercio riguarda i reni: è un’operazione veloce, massimo 4 ore. Se non c’è la laparoscopia, si taglia. L’organo espiantato si pulisce pompando via tutto il sangue e se possibile si impianta entro un’ora.

Centinaia di piccole cliniche private, dove si praticano anche aborti, operano spesso di venerdì. L’Egitto dal febbraio 2010 vieta vendita, trapianto da donatori deceduti, autorizza l’operazione solo tra cittadini egiziani e infligge anche la pena di morte ai trasgressori. Le vittime delle 60 persone tra medici universitari, infermieri, intermediari che componevano i sodalizi sgominati dalla polizia de Il Cairo ad agosto e nel dicembre scorso, erano egiziani. Ma i “clienti” migliori sono gli eritrei, i somali, i sudanesi dei flussi verso l’Europa. E i siriani. Per tutti, status complicato, niente reddito, niente speranze. Certe organizzazioni di trafficanti collaborano con questo business: se i migranti non hanno contanti, possono vendere.
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La rete egiziano-sudanese svela la “legalizzazione”. Capitale divisa in zone: Maadi, Downtown Cairo, Dokki, Heliopolis, Nasr City. Qui gli intermediari curano i rapporti con laboratori e ospedali attrezzati. In strada, nei mercati, negli alberghi e nelle caffetterie intanto, piccoli broker fanno reclutamento, convincono, persuadono. Si vende per sopravvivere o per far viaggiare un familiare. Trovato il donatore, concordano la percentuale e incontrano l’intermediario. È lui che conosce il “borsino” del periodo e in due settimane fa fare al donatore tutti i test diagnostici necessari per abbinarlo a un compratore.

Appena succede, non si torna indietro: si viene accompagnati in ospedale per la nefrectomia. Il laboratorio o l’ospedale richiedono prima il nulla osta al trapianto inviando al comitato etico dell’Egypt Syndicate Medical i documenti di paziente e donatore specificando che di “donazione” si tratta. Tra quelli del donatore c’è un affidavit, una dichiarazione di consenso firmata secondo le istruzioni del broker oltre a un modulo che solleva la clinica da eventuali accuse. «L’aspetto criminale è esternalizzato - spiega Seán Columb, ricercatore dell’Università di Liverpool - Il pagamento è versato alla clinica da un intermediario. È contabilizzata solo l’operazione. Il resto va ai soggetti coinvolti nella trattativa».

Prezzi: dai 20 ai 100 mila dollari di cui solo 3-5 mila al donatore. Sotto i diecimila dollari poi il versamento su un conto corrente non desta sospetti. Il restante transita attraverso paesi come Francia, Germania e Stati Uniti tramite piccoli pagamenti coi servizi di money transfer, difficili da tracciare. «Gli ospedali egiziani fanno dieci, dodici trapianti a settimana. Un milione di dollari di profitto circa. E se è così tutte le settimane, sono 15 milioni di dollari per ogni chirurgo all’anno - aggiunge Campbell Fraser, ricercatore della Griffith University in Australia - Con esperti di riciclaggio stiamo analizzando i flussi. Il timore è che finanzino il terrorismo».

Riconoscimenti
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Al Cairo anche una rete di broker turchi tratta venditori da Libia, Somalia, Eritrea. E i siriani, che arrivano dai sobborghi e dai campi profughi del Libano. Qui il broker pianifica il viaggio fornendo documenti e alloggio nelle “case sicure“, appartamenti in cui rimangono in attesa di un acquirente compatibile. Acquirente che in Turchia fa l’accordo, le analisi e gli accertamenti, poi li raggiunge per l’operazione. Una volta ricevuto il rene, appena possibile lascia la clinica per avere cure post operatorie adeguate in Turchia. C’è il rischio di rigetto. Il venditore invece, dopo l’espianto, viene ricucito e in pochi giorni deve andarsene. La convalescenza spezza lo spirito e implica dolori, sanguinamenti, immobilità. I soldi finiscono quasi subito. Molti non potranno più lavorare. Anche Ankara vieta la vendita e autorizza solo le donazioni tra consanguinei. «Ho finto di essere la cugina di un uomo saudita. I documenti erano falsificati e l’operazione è stata fatta ad Ankara. Ho preso i 5 mila dollari e li ho spediti ai miei figli» racconta una donna. Piange.

I siriani dei sobborghi di Gaziantep, Adana, Istanbul ricevono la proposta o cercano i contatti giusti in rete. Gli stranieri che portano un loro donatore si operano qui senza andare in Egitto. Molti sono russi. «Chi ti ha dato il mio nome?» chiede il broker al primo incontro, spesso in hotel di Istanbul o di Ankara. Fa domande mediche precise e la seconda volta chiede 10 mila dollari, per capire che fa sul serio. Sono loro a fare “revisione etica” dell’operazione aiutando a falsificare i documenti di identità del donatore. Gli ospedali possono ritenersi “ingannati”: verificare l’identità di uno straniero non è sempre immediato.

Dieci piccoli broker
Organizzazioni transfrontaliere e reti locali. E gerarchie: capi-intermediari, reclutatori. Broker per compratori e venditori. Questi ultimi guadagnano meno, a volte fanno un altro lavoro, hanno una famiglia, sono giovani. E reclutano dopo aver venduto essi stessi un rene. In certi casi sono stati i medici a proporre loro di trovare altri donatori in cambio di 500 dollari a transazione. Anche chi acquista un organo può diventare a sua volta broker.

«Non so dove portino gli organi espiantati e non mi interessa cosa succede loro, dopo l’operazione» ha spiegato alla Bbc un broker di Beirut. Il Libano è un paese di transito. Grandi ospedali controllati e donazione solo a consanguinei. Ma lavorano una decina di broker a cui si rivolgono anche i palestinesi dei grandi campi profughi. Non organizzano viaggi in Egitto: li accompagnano a fare i test, il giorno dell’operazione li conducono in luoghi segreti attrezzati e li assistono nella settimana post intervento. Ma in Libano, come in Libia, sedicenti Ong svolgerebbero compiti di segnalazione e reclutamento anche per i trafficanti che organizzano i viaggi in Europa. Questi, nell’impossibilità di avere le cifre pattuite, possono decidere di vendere in Egitto i migranti per gli espianti. È anche l’epilogo del noto business dei rapimenti con riscatto di Khartoum, in Sudan. Qui lavorano broker cinesi che organizzano viaggi di sudanesi e somali. In Somalia invece sono operativi broker turchi.


L’Iraq e l’ombra dell’Isis
«Allah ti ha dato due reni. Così se un fratello musulmano ha bisogno di aiuto, poi dargliene uno», dicono alle persone meno istruite, poveri e rifugiati in Iraq e nel Kurdistan iracheno. Anche qui il ricevente deve essere un parente. I medici controllano il documento di consenso alla donazione e la certificazione di parentela del ricevente, che viene falsificata. Pagamento a fine intervento. Dai 4 ai 7 mila dollari a rene. Gli acquirenti sono iracheni, turchi o sauditi.

Un rapporto esclusivo, firmato dall’organizzazione Jtip - Heartland Alliance International con l’Independent Human Right Commission del Kurdistan, parla di vittime nei campi profughi, indica le storie di alcuni acquirenti e pubblica il nome dei medici che li hanno operati a Erbil e a Baghdad. E rende nota la testimonianza di una vittima di tortura che rivela la presenza di un’organizzazione criminale specializzata nel reclutare disabili per falsi trattamenti medici: li destinerebbe a espianti e attacchi suicidi. «Si può fare a Erbil o Suleymaniya. All’epoca di Saddam Hussein l’Iraq aveva buoni ospedali privati per fare i trapianti, ma oggi è ritenuto poco sicuro» spiega Fraser, che lo definisce: «Un grosso centro di raccolta di organi». «Molti medici iracheni, oggi residenti all’estero, stanno rientrando. Il mercato potrebbe crescere». C’è l’ombra di medici stranieri invece sul caso Isis.

Due anni fa gli Stati Uniti rivelano l’esistenza di una fatwa dello Stato Islamico, datata 31 gennaio 2015, che autorizza l’estrazione di organi prima o dopo la morte su prigionieri e infedeli. Secondo l’analista iracheno Hisham al Hashimi, donazioni forzate di sangue, espianti di cornee e altri organi sarebbero state eseguite a Mosul su condannati a morte. Le notizie dell’uccisione di 12 medici che rifiutavano di eseguire queste operazioni, di ritrovamenti di decine di cadaveri “aperti” e con gli occhi strappati, dell’esistenza di uno speciale reparto chirurgico guidato da un medico tedesco “che vive al secondo piano dell’ospedale di Ibn Sina, accanto alla sala operatoria senza lasciare mai l’edificio”, non sono state confermate. E non è stata confermata neanche l’esistenza di una unità medica dotata di mezzi con celle frigorifere per trasporti in Siria e in Kurdistan e la recente vendita di 30 bambini ai trafficanti turchi per finanziare operazioni militari a Mosul.

Un filo spezzato fino all’Italia
«Noi siamo arrivati alla Svizzera. È li che arrivano molte indagini, come quelle del traffico di opere d’arte o flussi finanziari. Ma non si unisce mai la A con la Z, il filo si spezza. Quel commercio è in ogni guerra, lo abbiamo visto col Kosovo». Una fonte investigativa parla di un vecchio dossier e indagini sul mercato illegale degli organi svolte a livello internazionale. In Italia i controlli e la possibilità di scegliere la lista negli ospedali disinnesca il fenomeno. Ma liste non ufficiali, possibilità di “scalarle”, di cartelle che non vengono registrate, in Europa non sono leggende. «I numeri del fenomeno non sono colossali, ma la verità è che non c’è un vero interesse a far luce, ci sono molti ricchi occidentali potenti che vogliono vivere».

Nel 2009 un traffico di cornee dal Belgio condusse al nome dei Casamonica, ma il tentativo di acquisto attraverso un falso acquirente non portò a nulla. «Al momento non ci sono molti casi di migranti arrivati da noi con un taglio da prelievo di rene» spiega la fonte. Ma in Libia, un noto uomo d’affari serbo e commerciante di armi sta acquistando cliniche e piccoli ospedali: «Un cambio di attività. I medici serbi fanno queste operazioni. Se non è già accaduto, potrebbe succedere».