Paradise Papers, ecco i legami di Alfano, Tremonti e Berlusconi con le società offshore
Il miliardario libanese che finanzia la Fondazione di Angelino. Il socio in affari dell'ex ministro dell'Economia. E lo yacht alle Bermuda del leader di Forza Italia. Ma non solo. Nei documenti esclusivi visionati dall'Espresso spuntano i primi personaggi vicini ai politici italiani
Il parlamentare di Forza Italia passato alla Lega. Il socio fondatore dello studio Tremonti, insieme al tesoriere lussemburghese dell’ex ministro. Un miliardario libanese, già sotto accusa per tangenti eccellenti in Francia e Gran Bretagna, che è anche il primo sostenitore straniero del nostro ministro Angelino Alfano, attraverso una fondazione all’italiana che può tenere segreti i nomi dei finanziatori. Il fratello di Bettino Craxi, Antonio (morto pochi mesi fa) registrato con uno strano imprenditore sparito dall’Italia e con un fiduciario estero degli anni più neri di Silvio Berlusconi. E altri uomini d’affari, industrie o banche con forti agganci nei partiti.
Nei paradisi fiscali crescono anche società anonime su cui si allunga l’ombra della politica. Società che non pagano le tasse. E permettono di tenere nascosti i nomi dei titolari. Tutto segreto. Tutto offshore. Storie di affari e relazioni politiche riservate. I Paradise Papers ora svelano per la prima volta molti intrecci occulti tra boss dell’economia e big delle istituzioni. I 382 giornalisti associati al consorzio Icij hanno finora trovato, nella montagna di carte dei paradisi fiscali, i nomi di 120 capi di Stato, parlamentari, ministri e dittatori di tutto mondo. Tutti beneficiari di ricchezze nascoste in società offshore. In Italia, dopo le oltre mille condanne di Tangentopoli, i politici hanno imparato a non lasciare tracce: dal 1994 ad oggi, quasi nessuno si è intestato una offshore con annesso conto estero. Anche perché le banche sono obbligate dalle leggi anticorruzione a segnalare tutte le «Persone esposte politicamente» (in gergo, Pep). Nei Paradise Papers però spuntano vari personaggi collegati a politici italiani attraverso società o fondazioni.
IL RE DELLE TANGENTI TIFOSO DI ANGELINO
Fouad Makhzoumi è un miliardario nato in Libano, dove ha fondato anche un partito di centro. Controlla il gruppo Future Pipe Industries, colosso mondiale delle tubazioni per oleodotti, fornitore da decenni delle monarchie arabe. In questi mesi Makhzoumi, che vive tra Beirut, Dubai e Londra, si è trovato al centro di uno scandalo politico che ha segnato la campagna per le presidenziali in Francia.
Il settimanale Le Canard Enchaîné ha rivelato che il magnate ha versato 50 mila dollari, in due rate tra il 2015 e il 2016, al candidato dei repubblicani, François Fillon, ex capo del governo, attraverso un contratto segreto. Un accordo non dichiarato, intestato alla società di consulenza privata del politico francese, per esercitare il suo «potere d’influenza» a favore del politico libanese. E favorire un incontro tra lo stesso Makhzoumi, il presidente russo Vladimir Putin e il numero uno della Total, il gigante francese del petrolio, molto legato a Fillon dai tempi dell’università. Su quella presunta tangente indagano i magistrati di Parigi.
Dopo quelle rivelazioni, i più autorevoli giornali francesi si sono messi a scavare nel patrimonio di Makhzoumi. Un’inchiesta di Le Monde, che fa parte del consorzio Icij, ha trovato decine di offshore da lui aperte negli ultimi vent’anni tra Dubai, Panama e le Isole Vergini Britanniche. Alcune società anonime con la targa dei Caraibi risultano ancora attive. Ora L’Espresso, nei documenti esaminati con Report, ha scoperto altre tesorerie di Makhzoumi: la struttura di vertice dell’azienda-madre libanese, quella da cui è nato l’impero; e al piano superiore, una holding lussemburghese che controlla una società-cassaforte di Malta, paradiso offshore all’interno dell’Europea.
Makhzoumi coltiva da anni forti relazioni politiche anche in Italia. È stato invitato al meeting ciellino di Rimini e al Senato. Ed è entrato addirittura nel consiglio d’amministrazione della Fondazione De Gasperi: una prestigiosa istituzione politica costituita nel 1982 con 400 milioni di lire totalmente versati dalla Dc. L’ente intitolato allo statista democristiano, di cui è presidente onorario la figlia Maria Romana De Gasperi, ha seguito l’esodo dei centristi passati dalla corrente di Andreotti a Forza Italia, per arrivare ad Alfano. L’attuale ministro degli Esteri (e prima dell’Interno) è da anni il presidente operativo della fondazione, che sostiene la sua attività politica ed è gestita dal tesoriere Lorenzo Malagola. I quindici membri del consiglio sono tutti ex democristiani italiani, tranne Makhzoumi. Come ha fatto un miliardario straniero a entrare in questo santuario politico romano?
L’ipotesi più logica è che abbia finanziato la fondazione. Ma i documenti in grado di sciogliere il dubbio sono segreti. Alfano e il suo tesoriere si sono infatti rifiutati di dichiarare alla prefettura di Roma, a cui si era rivolto L’Espresso già mesi fa, i nomi dei loro finanziatori e perfino di pubblicare i bilanci con la cifra totale delle donazioni private. Gli industriali che versano soldi alla fondazione di un ministro, in Italia, possono restare anonimi.
Dopo (e nonostante) “l’affaire Fillon”, il miliardario libanese continua a comparire tra gli eredi di De Gasperi. Nel 2012, quando è stato accolto nel consiglio, era già reduce da un altro scandalo clamoroso. Una storia di armi, politica e offshore. A Londra, nel 1995, si scopre che Makhzoumi ha fatto da intermediario segreto in una vendita di fucili militari dalla Gran Bretagna al Libano. Il re degli oleodotti aveva anche inserito un big del partito conservatore, l’ex ministro per gli appalti della difesa Jonathan Aitken, nel consiglio d’amministrazione (con stipendio) di una sua società estera, mai dichiarata dal politico inglese. Aitken è stato condannato nel 1999 per aver mentito sotto giuramento nel tentativo di nascondere i suoi rapporti con Makhzoumi, querelando The Guardian che li aveva svelati. Lo stesso giornale inglese, che fa parte del consorzio Icij, ha poi scoperto che May Makhzoumi, la moglie del miliardario, che vive a Londra ma resta al vertice del gruppo libanese, ha continuato a finanziare i conservatori con almeno un milione di sterline, di cui 500 mila versate nel 2013.
Il miliardario che ama le offshore e la politica è molto vicino anche al regime siriano degli Assad (padre e figlio, entrambi dittatori sanguinari). Nelle carte segrete dei paradisi fiscali compaiono, tra molte altre, due società panamensi, attive dal 1990 al 1998 (Oil Services, Suppliers Inc), con tre direttori: Makhzoumi e due uomini forti del potere di Damasco, Salim Hassan e Khaled Hboubati.
UN LEGALE E I CONTI SEGRETI
I Paradise Papers svelano per la prima volta una società di Malta, la Gepar Limited, registrata a La Valletta come «offshore company». È una società finora ignota, che si inserisce in una successione di tesorerie estere, con sede in paradisi fiscali, attivate l’una dopo l’altra, dal 1991 fino al 2006: tutte collegate allo studio professionale di Giulio Tremonti, che oggi è senatore. E che, come ministro dell’Economia in tutti i governi di Berlusconi, è stato per anni il massimo responsabile politico della lotta all’evasione ed elusione fiscale internazionale.
L’offshore rimasta segreta per vent’anni risulta costituita il 13 settembre 1991, quando Tremonti non faceva ancora politica: era un docente universitario, capo di uno studio di commercialisti di Milano, che firmava duri editoriali contro i condoni fiscali. La società maltese resta attiva per anni e continua a operare dopo il 1994, quando il professore diventa ministro. Gli amministratori sono due professionisti molto legati a lui: Gaetano Terrin, uno dei due soci fondatori della “Tremonti e associati srl”, la società italiana che dal luglio 1990 gestisce lo studio di Milano; e Alex Schmitt, che è tra i più famosi avvocati del Lussemburgo.
Terrin è stato il primo azionista, con il 50 per cento, della Tremonti srl: ha versato 10 dei 20 milioni di lire del capitale iniziale. Schmitt era invece l’amministratore della “Tremonti International Sa” del Lussemburgo. Una cassaforte estera, con un patrimonio di circa un milione di euro, guidata da tre persone: Schmitt, una sua dipendente e Giulio Tremonti.
La società lussemburghese viene sciolta il 17 marzo 1994, dieci giorni prima delle elezioni. La Gepar di Malta invece resta attiva anche dopo la nascita del primo governo Berlusconi: a gestirla sono sempre Terrin e Schmitt, che vengono sostituiti solo il 5 dicembre 1994. I proprietari della offshore sono anonimi: si nascondono dietro una fiduciaria maltese, controllata dal gruppo Deloitte. Solo dal 3 gennaio 1995, quando la offshore sembra aver cambiato proprietario, i nuovi amministratori registrano come titolare la Castelvetro Finanziaria spa, cioè la tesoreria italiana del gruppo Cremonini (carni).
Terrin, un fiscalista stimato che oggi ha un suo studio a Padova, ha risposto a tutte le domande dell’Espresso, ma non ha potuto chiarire molto: «La società di Malta non era di Tremonti o dello studio. Era sicuramente di un nostro cliente, ma dopo 25 anni non ne ricordo il nome. Però non era il gruppo Cremonini. Le offshore a Malta si facevano perché non pagavano le tasse, chiaramente, ma erano autorizzate dalla legge».
Dopo la Gepar, c’è un black out: basta offshore, ma solo per due anni e mezzo. Le date potrebbero essere tutte coincidenze, ma sono notevoli. Tra novembre e dicembre 1994, mentre la società maltese cambia padroni, il ministro Tremonti finisce sotto indagine, a Roma e poi a Milano, per i rapporti tra il suo studio, la società italiana e quella lussemburghese. Terrin è uno dei due testimoni chiave. Il pm Sandro Raimondi indaga per due anni ma non trova nessuna prova di evasioni o elusioni, né in Italia né in Lussemburgo, e chiede di prosciogliere Tremonti. Il gip Clementina Forleo non è d’accordo e nel gennaio 1997 impone altri sei mesi d’indagini sulla lussemburghese, ma alla fine si arrende e archivia tutto. E proprio quando si chiude l’inchiesta sulla Tremonti International, Terrin si mette a gestire un’altra offshore.
È il Claudius Trust, con sede nelle impenetrabili isole Cook, che non riconoscono nemmeno le sentenze straniere. Come domicilio, Terrin indica lo studio Tremonti: via Crocefisso 12. E di chi era questa nuova tesoreria offshore, chiusa solo nel 2006? «Era anche questa di un cliente, un uomo d’affari americano che ha sposato un’italiana», risponde Terrin. «Io ero solo il protector, che ha poteri di veto sul gestore per evitare che faccia investimenti sbagliati».
Sempre nel 2006 lo studio dell’ex ministro torna nella bufera perché un altro socio, Dario Romagnoli, ha ricevuto 5 milioni di euro per difendere la Bell: la società lussemburghese che nel 2001 ha incassato due miliardi di euro di profitti della scalata a Telecom, mai accusata di evasione nell’era di Tremonti. Quando tornano al governo Prodi e Visco, il fisco si risveglia e i soci della Bell, tutti italiani, devono sborsare 156 milioni di euro. A quel punto il manovratore del tesoro di Telecom, il finanziere Emilio Gnutti, patteggia la stessa condanna (sei mesi) del presidente lussemburghese della Bell: l’immancabile Alex Schmitt.
ANTONIO IN TRASFERTA E I SUOI SEGRETI
Nell’isola europea delle offshore, spunta un’altra società con illustri parentele politiche. Si chiama Golden Age International Limited, è nata nell’aprile 2013 e risulta ancora attiva: l’ultima modifica dello statuto è datata febbraio 2015. Come amministratori sono registrati Antonio Craxi, fratello dell’ex premier socialista, e Sebastiano Romito, piccolo imprenditore dell’elettronica. Gli azionisti invece sono segreti: nei registri di Malta c’è solo il nome del loro fiduciario. Si chiama Tonio Fenech e firmava a Malta anche i contratti per i film venduti da Frank Agrama, il protagonista americano della frode fiscale internazionale che nell’agosto 2013 è costata al leader di Forza Italia la condanna definitiva.
Antonio Craxi era stato coinvolto nel precedente processo per le tangenti versate dalle offshore di Berlusconi sui conti svizzeri di Bettino: 11 milioni di euro. Il leader del Psi ne ha girato una parte, 250 mila euro, al fratello Antonio, poi assolto per mancanza di dolo: ha preso i soldi, si è comprato una casa a New York, ma poteva non sapere che provenivano dalle mazzette internazionali di Silvio.
L’Espresso non potuto ottenere chiarimenti dagli interessati: Antonio Craxi è morto nel gennaio scorso, portando con sé i suoi segreti maltesi. In Italia ha lasciato solo una quota (8 per cento) di una piccola ditta di medicina ayurvedica. Al telefono della società di Romito, in viale Jenner a Milano, risponde la segretaria di un curatore fallimentare: «Qui abbiamo solo debiti. Il titolare non è rintracciabile da mesi: pare che sia scappato all’estero».
LA DESTRA IN PARADISO
Nelle carte dello studio Appleby è registrata la Alba Servizi Aerotrasporti, controllata al 100 per cento dalla Fininvest, che gestisce yacht e aerei aziendali della famiglia Berlusconi. Alla società italiana è collegata una offshore delle Bermuda, Morning Glory Yachting Limited, intestataria dell’omonimo veliero da 50 metri che Berlusconi comprò dal re dei media Rupert Murdoch. Dai Paradise Papers risulta però che fu il tycoon australiano a registrarla nel paradiso fiscale dei Caraibi. Mentre il gruppo Fininvest l’ha regolarmente dichiarata nei bilanci italiani.
A fornire invece a Berlusconi le sue 64 offshore segretissime, quelle che secondo le sentenze hanno nascosto cifre enormi nei paradisi fiscali (oltre un miliardo di euro), non era Appleby, ma un famoso avvocato di Londra: David Mills, marito di una ministra.
Nei Paradise Papers compare solo un parlamentare in carica: Guglielmo Picchi, eletto nel 2006, 2008 e 2013 con Forza Italia all’estero, nella circoscrizione Europa, e passato nel 2016 con la Lega di Salvini. L’onorevole viene registrato nel 2005 come azionista di un fondo offshore dell’isola di Jersey, gestito da Appleby Trust per conto della banca Barclays. Il deputato ha mantenuto le sue quote, stando alle carte, almeno fino al 2009, quando era già parlamentare. A L’Espresso ora Picchi spiega: «Ho lavorato per anni per la Barclays di Londra. Guadagnavo 300 mila sterline. Quel fondo gestiva solo i bonus assegnati dalla banca ai propri manager, che ho regolarmente dichiarato al fisco inglese». Tutto lecito, insomma: non erano soldi usciti dall’Italia. Resta solo un problema, politico. La legge italiana impone tasse micidiali sugli stipendi dei normali cittadini. Ma per chi fa il banchiere d’affari a Londra, i bonus sono offshore.