Scarsa liquidità, rapporto con il partito in crisi, addio solidarietà. Se un tempo non si mirava ai profitti, ora le cooperative sono aziende come le altre. E così tramonta un pezzo di tradizione rossa
Da qualche tempo Udine è diventata il palcoscenico di un nuovo esperimento politico. I partiti di centrodestra stanno battendo palmo a palmo il territorio in vista delle prossime elezioni regionali. Gli appuntamenti si susseguono senza tregua in osterie, ristoranti, alberghi. Uno degli oratori più assidui è il capogruppo della Lega Nord alla Camera, Massimiliano Fedriga, natali veronesi e casa a Trieste, spesso affiancato da esponenti di Forza Italia o di Fratelli d’Italia. L’organizzatore di una campagna così capillare è però il fondatore della lista civica Progetto FVG, un imprenditore di nome Sergio Emidio Bini, 49 anni a breve e una caratteristica sorprendente per chi si propone di unire il centrodestra e riportarlo alla guida della Regione oggi governata da Debora Serracchiani, Pd. Bini, infatti, è stato fino a qualche tempo fa il vice-presidente della Legacoop del Friuli, il movimento che raccoglie quelle che una volta venivano chiamate le “cooperative rosse”.
«Mi raccomando: il progetto politico della lista civica e la mia attività lavorativa non hanno nulla a che fare», premette Bini. Prontissimi a credergli. Al di là delle intenzioni personali, tuttavia, la sua storia mostra in modo esemplare le crepe che stanno incrinando gli assetti storici del mondo cooperativo, sia dal punto di vista politico, sia da quello industriale. L’imprenditore di Udine, infatti, non ha soltanto deciso di mettersi in gioco per riportare il centrodestra alla guida della Regione. Pochi mesi fa l’assemblea della coop di cui è presidente, la Euro&Promos, seicento soci, oltre cinquemila dipendenti, un giro d’affari di 106 milioni di euro concentrato nei servizi di pulizia, ha infatti votato la trasformazione in una più consueta società per azioni, la forma tradizionale delle società di capitali, dove comanda chi ha la maggioranza.
Addio cooperativa, addio Legacoop; restano invece l’iscrizione in Confindustria e, in parallelo, l’alleanza con la Lega Nord e gli altri partiti della destra italiana. «Sono molto grato al mondo in cui siamo cresciuti ma dobbiamo guardare al futuro. E per competere con le multinazionali dobbiamo attrarre capitali, cosa che nella forma cooperativa non è possibile», dice Bini, chiamando in causa una debolezza che sta emergendo sempre più: la difficoltà delle cooperative di reperire i finanziamenti necessari per superare i momenti bui e tenere il ritmo della concorrenza. Una difficoltà che è andata di pari passo con l’altro grande fattore di cambiamento: la crisi del Partito democratico e le faide che si sono aperte al suo interno, allontanando gli eredi del vecchio Pci dall’attuale gruppo dirigente e dal segretario Matteo Renzi. I soldi sono finiti Per dare un’idea delle difficoltà occorre partire dall’edilizia, uno dei settori più colpiti dalla recessione, con 800 mila posti persi dal 2008 a oggi. Ne hanno fatto le spese tante imprese private, e tra queste numerose coop. La questione è diventata un affare di rilevanza nazionale nell’aprile 2012, quando un fiume di persone si è accalcato nella sede del Pd di Reggiolo, dov’era convocata una riunione per fare il punto sulla crisi della Cooperativa muratori dell’industriosa cittadina della Bassa, a metà strada fra Modena e Mantova.
Oltre duemila soci vi avevano infatti investito i risparmi di una vita, per un totale di 47 milioni. Il meccanismo era quello del prestito sociale, la base materiale del movimento: sono i prestiti che i dipendenti-soci e gli ex concedono alle cooperative, che li usano come finanziamenti per poter operare e, in cambio, offrono un interesse leggermente superiore a quello di mercato. Ebbene: fino a un anno prima la ditta dei muratori di Reggiolo si vantava di aver resistito bene alla disfatta dell’edilizia; poi, in un amen, il dissesto.
In quei giorni, i vertici di LegaCoop intuiscono prontamente il rischio che il clima di sfiducia contagi l’intero sistema e corrono ai ripari, rimborsando con i fondi dell’associazione e l’aiuto di altre cooperative il 40 per cento dei crediti vantati dai soci, operai, artigiani, tecnici, lavoratori o ex.
Il soccorso rosso genera però un paradosso: due delle consorelle che partecipano ai rimborsi, CoopSette e Unieco, entrambe di Reggio Emilia, dodici mesi più tardi vanno a loro volta a gambe all’aria, assieme a un’altra coop reggiana, la Orion. Qui s’incrina l’idea che il movimento possa intervenire in aiuto di chi è in difficoltà, rimborsando una parte dei prestiti, in attesa che i processi di liquidazione facciano il loro corso: mentre a Reggiolo, con Cmr, era stato possibile intervenire in fretta, nei casi successivi viene avviata una faticosa trattativa, che soltanto in questi giorni, e cioè quattro anni più tardi, sta arrivando a compimento.
Tempi lunghissimi, nonostante si tratti di cifre più piccole rispetto a Cmr: CoopSette aveva 450 soci e un prestito sociale di 10,5 milioni di euro, Orion 180 soci e 5 milioni, Unieco 1.280 soci e 12 milioni. «La crisi del sistema ha reso tutto più difficile rispetto al 2012, quando le grandi cooperative non avevano avuto problemi ad aiutarci. Invece è stato necessario convincere uno a uno tutti quelli ancora disponibili, far approvare le decisioni dai consigli di amministrazione. Ora questo percorso è quasi terminato, credo che tutto sarà definito nel giro di qualche settimana», dice Mauro Lusetti, presidente di Legacoop dal 2014, dopo che il suo predecessore, Giuliano Poletti, era entrato nel governo Renzi come ministro del Lavoro.
L’idea di Lusetti è questa: la crisi delle coop di costruzioni si spiega con quella generale dell’edilizia, il cui tracollo «è avvenuto nel silenzio più totale della politica, nonostante l’impatto sociale devastante». In più, però, ci sono quelle che il presidente di Legacoop definisce «le specificità» del suo mondo. Il fatto che la forma mutualistica riduca gli strumenti per reperire nuovi fondi. E poi che le coop avessero puntato forte sull’immobiliare, settore devastato dallo scoppio della bolla dei prezzi, invece di attrezzarsi per conquistare commesse all’estero, come ha fatto la Cmc di Ravenna, uno dei cardini del sistema con la Cmb di Carpi. Attorno queste due imprese, spiega Lusetti, Legacoop vuol costruire l’azione futura del movimento, incentrata su salvaguardia del territorio e riqualificazione ambientale. Anche se, come vedremo più avanti, la stessa Cmc ha preparato uno studio per valutare la trasformazione in società per azioni, che per ora ha messo in un cassetto.
Quella delle coop emiliane non è una storia qualunque. Nel secondo dopoguerra hanno avuto un ruolo fondamentale nelle ricostruzione di un’Italia in macerie. Muratori, carpentieri, cementisti delle imprese rosse sapevano fare bene il loro lavoro. Mattone su mattone hanno rimesso in piedi interi territori, operando sotto l’occhio vigile del Partito comunista, che le portava in palmo di mano. Così come i cattolici e la Dc, che avevano una loro associazione, la Confcooperative.
Dal Pci a Galan Pietro Cafaro, docente di storia economica alla Cattolica di Milano e autore di numerosi testi sulla cooperazione, definisce la ricostruzione «il momento eroico» delle cooperative, che nel legame con la politica trovano congiuntamente «un punto di forza e uno di debolezza». Di forza perché quel legame era presente fin dall’origine, nel Regno d’Italia, quando i socialisti e i cattolici non potevano partecipare alla vita politica e riversavano l’impegno nel sociale. Di debolezza perché l’osmosi rischia di trasformare le coop «in un luogo per far carriera in politica, o al contrario in un cimitero degli elefanti».
Anche gli anni recenti sono stati vissuti da protagonisti. Sul piccolo patrimonio costituito dal prestito soci, le coop avevano costruito strutture in grado di accaparrarsi grandi appalti. Orion aveva lavorato per le Olimpiadi di Torino e costruito ospedali nel Lazio, Unieco si era specializzata in centri commerciali, CoopSette costruito la stazione Tiburtina di Roma, l’alta velocità ferroviaria, la nuova darsena di Genova. C’erano state anche avventure più discusse. CoopSette aveva sostenuto, ad esempio, il progetto dell’ex governatore veneto Giancarlo Galan di costruire un circuito automobilistico a mezz’ora di strada dal Lago di Garda, forse con l’idea di strappare il Gran Premio d’Italia a Monza. Quando la stella di Galan è precipitata, il progetto è finito nel limbo, osteggiato dagli ambientalisti, dal Pd e mai digerito da una parte della Lega Nord. Risultato: i liquidatori di CoopSette si sono ritrovati sul groppone la quota di maggioranza della società Autodromo del Veneto, con 65 milioni di euro di debiti e impegni d’acquisto o d’affitto su 4,4 milioni di metri quadri di terreni agricoli, dove in un’orgia di cemento si volevano costruire anche alberghi, centri commerciali, parchi divertimenti.
Molti osservatori hanno criticato gli errori dei manager, l’incapacità di far fronte al crollo degli investimenti pubblici, lo sfaldarsi del sistema di relazioni politiche che permetteva di entrare nei grandi appalti. Ma c’è un altro fattore: «Un imprenditore privato rischia i suoi quattrini. Nelle cooperative più grandi, invece, i manager si sono ormai allontanati dai soci, indebolendo il principio di responsabilità di questi ultimi. Quanto possono pesare l’opinione o il voto di un operaio – anche se socio - di fronte alle scelte di dirigenti che gestiscono appalti da centinaia di milioni di euro?», si domanda Giovanni Trisolini, presidente della Federconsumatori di Reggio Emilia, l’associazione nata in seno alla Cgil che rappresenta numerosi lavoratori che con la crisi hanno perso, oltre all’impiego, anche i risparmi investiti nel prestito soci.
Se a questo si aggiunge che il ministero dello Sviluppo Economico ha da tempo demandato la vigilanza biennale sulle cooperative direttamente alle associazioni di rappresentanza (Legacoop, Confcooperative e Agci, per citare le tre big), il quadro di un sostanziale auto-controllo è quanto mai concreto.
Rischio Consip Il capitolo più tormentato degli ultimi mesi è però legato alla bolognese Manutencoop, un colosso con oltre 16 mila dipendenti che fornisce ogni genere di servizio legato agli edifici, pulizie, gestione delle forniture di energia, sicurezza, logistica. Ha committenti spesso pubblici ed è in apparenza un gruppo solido, capace di chiudere il 2016 con un utile netto consolidato di 33 milioni di euro. Eppure, lo scorso luglio, il gruppo ha emesso un prestito obbligazionario su cui è stato costretto a corrispondere agli investitori un tasso d’interesse altissimo, pari al 9,40 per cento annuo. Una mazzata, il doppio dei tassi che molte aziende private sono abituate a pagare ma elevato anche rispetto ad altre coop: la Cmc di Ravenna è riuscita nello stesso periodo a piazzare un bond non dissimile come entità e durata, offrendo il 6,875 per cento. La regola della finanza è molto chiara: rendimenti alti, rischi alti. Perché allora Manutencoop è considerata così rischiosa?
Bisogna tener conto di due fattori. Il primo è finanziario, il secondo politico. Manutencoop è una società per azioni controllata da una cooperativa che porta lo stesso nome e che, nel capitale della Spa, era affiancata da una serie di soci privati, che avevano il 33 per cento. All’inizio del 2017 i soci privati avevano la possibilità di cedere a terzi le loro quote e, per farlo, avevano considerato la possibilità di far valere un diritto di cui si erano premuniti: vendere al nuovo compratore non soltanto i loro titoli di Manutencoop Spa, ma anche quelli in mano alla coop soprastante. In inglese questo diritto si chiama “drag along” e costituisce una sorta di garanzia per un azionista di minoranza che, se vuol vendere, rischia di non trovare nessun compratore interessato, perché il padrone dell’azienda resterebbe il socio di maggioranza già presente.
La notizia, dunque, è che all’inizio del 2017 la cooperativa Manutencoop – presieduta da uno dei “creatori” di questo sistema, Claudio Levorato - era disposta a vendere la maggioranza della Spa, tenendo soltanto un 30 per cento. Insomma: anche i soci di una delle coop che negli ultimi anni era stata più sulla cresta dell’onda, erano pronti a lasciare. In quei mesi vengono avviate trattative con cinque potenziali investitori, che poi si riducono a due fondi di private equity, Pai e Bc Partners. Dopo un’ulteriore fase di studio, anche il primo si ritira, lasciando in corsa il secondo. L’affare, però, non va in porto: Bc Partners decide di non affondare il colpo.
Di qui l’esigenza di trovare i soldi per liquidare gli azionisti privati che, comunque, vogliono vendere. Viene lanciato il bond, con cui Manutencoop spera di raccogliere inizialmente 420 milioni; l’operazione riesce solo in parte e il prestito si ferma a 360 milioni, con quel tasso altissimo, da “junk bond”, titoli spazzatura. Perché? Il motivo è legato alle incertezze sui futuri appalti pubblici che Manutencoop potrà ottenere, in mesi in cui infuriano le polemiche attorno al caso Consip, la società del Tesoro che gestisce le gare per gli acquisti della pubblica amministrazione.
Chiunque segua le cronache politiche sa che la questione è estremamente complessa e ricca di piani d’interpretazione diversi, sul ruolo di Matteo Renzi, del ministro Pier Carlo Padoan, degli scissionisti del Pd, di Denis Verdini e di chissà chi altro. Qui basta limitarsi a un fatto: nei mesi in cui Bc Partners molla la presa e viene lanciato il bond, Manutencoop è in un momento delicato. Il 23 giugno, due giorni dopo il collocamento del prestito, l’allora amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, si reca dal presidente dell’Autorità anti-corruzione (Anac), Raffaele Cantone, dicendo ai giornalisti di aver portato i documenti necessari per escludere Manutencoop e altri soggetti dalle gare, in seguito alle accuse di aver operato in danno alla concorrenza. Il giorno stesso Marroni dà le dimissioni e si fa da parte. Da allora qualche segnale positivo per Manutencoop giunge. Con l’ultima legge di bilancio il governo di Paolo Gentiloni proroga di un anno, concedendo 300 milioni in più, un contratto di pulizie nelle scuole che la società si era aggiudicata in precedenza, e su cui la Procura di Roma aveva avviato un’indagine per turbativa d’asta. Ma nel complesso gli elementi d’incertezza restano così numerosi da rendere comprensibili i dubbi degli investitori.
Troppa finanza Non è la prima volta che i cooperatori rischiano di scottarsi con la finanza. La sola Coop che molti cittadini conoscono è quella dei supermercati, che in realtà è suddivisa tra diverse realtà a carattere regionale. Nel suo insieme, Coop non è molto redditizia. Come mostra il bilancio aggregato di tutte le diverse realtà, elaborato dall’Area Studi di Mediobanca, a livello operativo il gruppo perde 73 milioni, su un fatturato di 10,8 miliardi (dati 2015). Ci guadagna solo grazie alla gestione finanziaria. Questo perché le varie cooperative hanno in dotazione 10,7 miliardi di prestito soci. Eppure, proprio la finanza ha rifilato sberle dolorose.
Unicoop Firenze ha perso 200 milioni nel Monte Paschi di Siena, l’umbra Coop Centro Italia altri 137, Coop Liguria ha dovuto svalutare le azioni di Banca Carige con minusvalenze per 54 milioni. Il presidente di LegaCoop, Mauro Lusetti, le difende: «C’è stata un’epoca in cui diversificare gli investimenti nelle banche serviva anche per ottenere i finanziamenti necessari, ad esempio, per costruire i nuovi centri commerciali», dice, sottolineando i punti di forza del sistema, che attribuisce sia a Coop che alla consorella Conad: «Sono tra le poche realtà che non hanno smesso di crescere e lo hanno fatto in tutto il territorio nazionale, proprio quando alcune multinazionali – penso al gruppo francese Carrefour nel Sud Italia – sono uscite dal mercato. E poi sono piattaforme importantissime per vendere i prodotti dei nostri agricoltori».
I dubbi, però, restano numerosi. Il maggiore riguarda l’auto-referenzialità dei manager: anche chi fa male difficilmente viene messo in croce durante le assemblee, dove per raggiungere il numero legale occorre promettere doni, pur limitando al massimo gli spazi d’intervento. Memorabile il volantino per l’assemblea 2016 di Nova Coop, quella del Piemonte, che prometteva ai partecipanti due buoni sconto del 10 per cento e due tazzine da caffè con piattino in regalo, avvertendo che eventuali domande sull’ordine del giorno dovevano pervenire via raccomandata nei giorni precedenti. «A questo punto», si chiede un gruppo di lavoratori di Unicoop Firenze che ha fondato il blog “Lavoratori Unicoop”, spesso critico sul sistema, «viene da chiedersi dove finiscono le cooperative e inizia la Spa».
Ma pochi finanziamenti Qui ritorna la questione dei manager, troppo lontani dalla base sociale, come racconta Mario Frau, che nel 2012 ha scritto il libro “La Coop non sei tu”, dopo 35 anni di carriera tra Pci, LegaCoop e Nova Coop: «Un presidente guadagna circa 600 mila euro all’anno, oltre ai numerosi benefit e bonus. Quando vanno in pensione, oltre al Tfr, i maggiori dirigenti percepiscono anche un emolumento di fine mandato che può raggiungere le tre annualità».
Se i supermercati possono contare su migliaia di soci, per le altre aziende la questione di come finanziarsi è diversa. Angelo Disabato, presidente della Ariete di Bari, dice che nel settore dei servizi è sempre più importante avere risorse da investire per ottenere le commesse. Racconta il caso del Politecnico della sua città: Ariete ha speso 1,5 milioni per rifare l’illuminazione e installare i pannelli solari; nei prossimi 18 anni di concessione, ci guadagnerà soltanto se riuscirà a garantire all’università i risparmi promessi, ripagandosi l’investimento. Ariete però ha solo 100 soci, tutti impiegati in azienda. Per cercare di allargare il numero, l’assemblea ha deliberato il dimezzamento della quota minima sottoscrivibile da un singolo socio, portandola da 2.040 a 1.020 euro. E se non basterà? «Bisogna che il nostro sistema si dia da fare. Spesso gli strumenti previsti dai nostri organismi ci offrono condizioni peggiori rispetto a quelle delle banche normali», dice Disabato.
Lusetti dice che LegaCoop ha ben presenti questi problemi. Sta lavorando con il governo a una riforma delle regole del prestito sociale e pensa che bisognerebbe cambiare anche le norme per la gestione delle casse previdenziali, in modo che i quattrini delle pensioni possano essere investiti «nell’economia reale, e dunque nelle cooperative».
Intanto, però, il mondo corre. Uno dei gioielli delle coop, la Granarolo, ha bussato alla porta della Cassa depositi e prestiti, che per finanziarne l’espansione all’estero le ha concesso un prestito di 60 milioni (a un tasso del 3,05 per cento). Granarolo è una società per azioni ma ha un forte vincolo cooperativo: acquista il latte unicamente dai suoi soci, gli allevatori, pagandolo un prezzo superiore a quello di mercato, che permette loro di investire nella modernizzazione delle aziende. E poi c’è la Cmc di Ravenna, con la sua storia da brividi.
Fondata nel 1901 da 35 muratori, dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 si mette subito a disposizione, realizzando prima i baraccamenti per ospitare i superstiti e poi ricostruendo le città distrutte. A Ravenna costruisce le linee per il trasporto pubblico e i più importanti palazzi della città moderna. Oggi lavora in Algeria, in Cina, negli Stati Uniti, in Sudafrica. Non è però scontato che il suo futuro sarà cooperativo. L’anno scorso è stato redatto uno studio per capire se Cmc avesse le carte in regola per trasformarsi in società per azioni: «In realtà non avevamo grandi dubbi sulla risposta positiva, ma volevamo la certezza», spiega il direttore generale, Roberto Macrì.
In realtà, negli ultimi mesi la Cmc è riuscita a piazzare tranquillamente due grandi bond, che le hanno garantito risorse finanziarie per 600 milioni. Per il momento, dunque, il “progetto Spa” è chiuso in un cassetto: «La trasformazione è un tema rilevante, specialmente per realtà strutturate come la nostra, ma al momento è ancora presto e nel breve termine non sono previsti cambi di strategia», spiega il direttore generale. Una cosa è però certa. Se trasformazione dovrà essere, sarà completa, non a pezzi: «O si cambia tutto o niente», dice Macrì. Ritorno al futuro Il futuro del sistema cooperativo, dunque, rischia di essere ancora più complesso di quanto si possa immaginare oggi. C’entra certamente la dissoluzione degli assetti politici del passato, e la crisi di quel Pd che, unendo ex democristiani e ex comunisti, ha dato il via anche alla fusione tra le diverse anime della cooperazione. Ma gli aspetti di questo cambiamento sono ancora più articolati, come osserva ancora il professor Pietro Cafaro, lo storico della cooperazione dell’Università Cattolica: «Le cooperative sono costrette dal mercato ad assumere una modalità d’essere che le fa diventare capitaliste. E quindi avranno i medesimi difetti delle aziende che sono già nate così».
Forse, però, guardando esperienze come le cooperative sociali di Libera Terra Mediterraneo che si battono per restituire le zone di mafia alla legalità, o le esperienze di coop nate dall’unione di giovani di talento che operano in settori tecnologicamente innovativi, non è detto che la fine sia scritta. Cafaro pensa che una spinta potrebbe venire dalla profondità della crisi attuale: «Se non noi, i nostri figli o i nostri nipoti dovranno trovare modelli organizzativi differenti dell’economia. Magari ritornando a un sistema che privilegi la domanda, il soddisfacimento dei bisogni, la ricerca della felicità. Utopie? Così pensavano anche i cooperatori del passato».