Negli ultimi 25 anni il mondo della formazione è stato investito da cambiamenti continui. Con una progressiva erosione della cultura

Dagli anni Ottanta una delle parole centrali nel discorso delle istituzioni è stata senza dubbio “riforma”, il cui significato primo, che per molto tempo ha evocato un orizzonte di progresso civile e di emancipazione, è stato sostituito da un altro. La nuova accezione rimanda all’operazione tecnica di accomodamento di una macchina al fine di incrementarne l’efficienza. Con questo significato il significante “riforma” ha preso a circolare a ritmi sempre più spediti, fino a quando è diventato dominante nell’attuale lessico dell’opinione pubblica. La parola “riforma” si è così accompagnata a un ventaglio di attributi (“urgente”, “necessaria”, “ineludibile”, “d’emergenza” ecc.) che affermano tanto l’esigenza di rapidità quanto un rigido determinismo che non potrebbe né dovrebbe essere disconosciuto, pena l’avverarsi di previsioni immancabilmente fosche e dunque da scongiurare. La parola “riforma” comporta sempre, di conseguenza, una previsione (solitamente presentata come scientificamente calcolata) e, in senso più ampio, un’ipoteca sul futuro. In questo senso, la “riforma” non può che essere “responsabile”: il suo carattere di destino astratto si traduce ipso facto in un’assenza di alternative che si vuole perfino etica (del resto, si è compreso da tempo che l’istanza etica è l’ingrediente sempre strutturalmente mancante del mondo tardo-capitalistico, mentre ne rivela, di converso, gli intenti ortopedici e disciplinari).

Nell’ultimo quarto di secolo, oltre al mondo del lavoro, un altro ambito è stato parallelamente investito - e non solo nel nostro paese - da ripetuti impulsi alla “riforma”. Si tratta del mondo della formazione e della ricerca, dell’università e della scuola, coinvolto in una vera e propria spirale che ha conosciuto delle tappe importanti nella legge sull’autonomia universitaria del 1990 (la “riforma Ruberti”), nel “processo di Bologna” con cui l’Unione europea ha raccordato i sistemi educativi dei paesi membri, fino alla recente legge 107 del 2015 (la “buona scuola” del governo Renzi). Ciascuna tappa ha introdotto sempre nuovi fattori di cambiamento che, presentati sotto le bandiere della modernizzazione e del miglioramento, non hanno modificato il sistema verso un nuovo equilibrio più avanzato, ma sono stati la spinta per un’ulteriore giro di “riforme”.

EROSIONE DELLA CULTURA
In questi ultimi anni l’università e la scuola sono state oggetto di una vera e propria “coazione a riformare”. Oltre che con tagli di spesa pubblica, la coazione si è manifestata soprattutto nei sintomatici mutamenti del linguaggio che hanno avuto come scopo la trasformazione irreversibile degli ambienti della ricerca e dell’apprendimento, e con essi l’insieme dei soggetti coinvolti: docenti, ricercatori, studenti, famiglie e, non da ultimi, amministrativi e ausiliari. Il cambiamento è avvenuto con una progressiva erosione della lingua della cultura, quella lingua che sarebbe compito delle istituzioni tramandare come eredità condivisa e memoria collettiva. In altre parole come quell’ethos o “religione civile” di cui il nostro paese sembrerebbe storicamente difettare. Il tentativo di sterilizzare la capacità della cultura a produrre ethos e a figurare mondi (anche utopici, immaginari e impossibili) è progredito con l’iniezione di un vocabolario che, incarnando la visione del mondo neoliberale, ne è l’espressione funzionale.

Si pensi solo al lessico, ormai acquisito, dei crediti e dei debiti, all’introduzione seriale di sigle e acronimi, all’equivalenza tra studio e lavoro (fino all’alternanza studio-lavoro), per non citare l’enigmatica nozione di “competenza”, scientificamente farraginosa ma ideologicamente efficace. Non si tratta più del tecnicismo freddo e ingegneristico cui era improntata la lingua dell’ormai lontano boom economico. Quella che da tempo viene inoculata nella scuola e nell’università, diventando forma di vita e di relazione, è una lingua povera che si intreccia con la gergalità di uno pseudo-inglese, mediante la quale si affermano nuovi rapporti di potere e si stabiliscono nuove linee di faglia sociali.

Il progetto di “valorizzazione delle risorse” (di cui la meritocrazia è figlia) fa tutt’uno con questa lingua spuria, attuandosi per mezzo di procedure che, mentre si appellano alla libera scelta di ciascuno, spingono invece gli individui a operazioni di accomodamento al discorso dominante. L’adattamento linguistico alla logica dell’efficienza e della performance, cui ognuno è sottoposto, tende a diventare stile cognitivo (in accordo con la recente enfasi pedagogica sui soft skills), quando non preveda addirittura tra i suoi obiettivi espliciti la produzione di nuove forme di soggettività. Il rilievo della lingua non è dunque marginale. A una lettura rapida potrebbe sembrare uno dei tanti esempi di provincialismo nostrano. Visto più da vicino, appare come un sintomo diffuso del modo in cui le forme della riproduzione culturale vengono modellate in senso neoliberale.
Istruzione al fronte
Così la scuola resiste alle riforme
1/2/2017

RISTRUTTURAZIONE PERENNE
La parola “riforma” in senso neoliberale non fa che mimare la riforma nel senso democratico dell’estensione dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini, mentre la svuota progressivamente di contenuto, con il risultato di generare nuove forme di diseguaglianza. Perciò l’accanimento riformatore su scuola e università è un tassello strategico nel progetto con cui le forze dominanti cercano di consolidare la loro attuale egemonia economica e culturale. Si capisce allora che il significato della parola “riforma” non può essere dissociato dalla tendenza del tardo-capitalismo a una ristrutturazione perenne che non investe più soltanto il campo dell’economia ma impatta risolutamente sulla vita individuale e collettiva.

La conseguenza è che le istituzioni dello Stato, nel caso in cui sia esso democratico e preveda la tutela del “sociale”, sono considerate come dei limiti o degli impedimenti all’estrazione di plusvalore. È per permettere una più massiccia, rapida ed efficace estrazione che le istituzioni, nel loro complesso, vengono dunque riformate. Per il nostro paese questo obiettivo non sarebbe perseguibile senza la cornice più ampia in cui si colloca il modellamento della scuola e dell’università, cioè la “sincronizzazione” delle istituzioni nazionali con quelle europee, in nome dell’efficienza dei sistemi educativi. Se volessimo comprendere il senso della “coazione a riformare” che sta disegnando l’avvenire delle nostre scuole e delle nostre università, è certo nella direzione di questa “sincronizzazione” in corso che dovremmo guardare.

SPIRALE REGRESSIVA
In generale, la retorica della “riforma” è un dispositivo discorsivo che intacca il discorso democratico e lo riscrive. A ogni giro cancella il senso “progressivo” precedente e lo sostituisce con un altro che, all’apparenza identico, in sostanza lo nega. Tra i saperi disponibili, la psicoanalisi ci fornisce degli strumenti per riconoscere questo meccanismo di ripetizione che genera spirali regressive. In Al di là del principio di piacere, saggio controverso che impresse una svolta alla sua metapsicologia, Sigmund Freud descrisse una particolare dinamica psichica, consistente nella reiterazione nevrotica di un evento traumatico. Studiando i casi clinici forniti dai vissuti dei reduci dal fronte, che mostravano questa forma di disturbo, Freud si trovò a riflettere sull’esistenza di una forza opposta alle pulsioni di vita: la chiamò, com’è noto, pulsione di morte. La specificità di questa pulsione è di agire vicariamente, legando la pulsione di vita alla ripetizione dell’evento traumatico, di modo che le energie psichiche risultano drenate e incanalate verso formazioni gravemente nevrotiche che, purtuttavia, garantiscono un godimento inconscio.

Se si volesse prendere sul serio l’ipotesi di Freud, ci si potrebbe chiedere in quali ambiti della vita sociale contemporanea la coazione a ripetere produce nuove forme di nevrosi e con quali eventi traumatici essa possa continuare ad alimentarsi, sottraendo così energie alla vita e alla trasformazione effettiva, a tutto vantaggio di un godimento mortifero. La psicoanalisi della società è in grado di riconoscere la pervasività delle dinamiche coattive, le quali permettono sì la conservazione di un precario equilibrio individuale e collettivo, ma a un costo psichico crescente.

Si potrebbe dunque introdurre il punto di vista dell’economia pulsionale per saggiare le conseguenze concrete del discorso “riformatore” sul piano della psicologia collettiva. Da una parte, il costo psichico potrebbe spiegare il malessere perdurante delle nostre società, dovuto all’attesa di riforme che, invece, si converte presto in un’amara consapevolezza del peggioramento della nostra condizione. Dall’altra, una riflessione sull’economia pulsionale permetterebbe di comprendere la capacità performativa di penetrazione che la parola “riforma” conserva nei nostri discorsi e nelle nostre convinzioni, con una forza di seduzione che pare urgente sottoporre a un lavoro critico, allo scopo di indebolirne quanto meno gli effetti depressivi. Un lavoro che, prima ancora di metterne in discussione i meccanismi coattivi, ci permetta di liberare delle energie collettive che diano forma alla nostra attesa di cambiamento.