MaltaFiles, così la mafia ha portato i suoi tesori nell'isola (e investito nell'azzardo)
Dai patrimoni di Gomorra a quelli della ’ndrangheta. Le cosche italiane hanno nascosto le loro ricchezze nello stato Ue grazie ai potenti locali. Ecco come le hanno usate e riciclate
Un colpo di fortuna. Un caso del destino che poteva permettere di scovare il tesoro di Gomorra, i soldi accumulati dal clan dei Casalesi in anni di attività criminale. Succede nel 2005, quando Nicola Schiavone, figlio del famigerato boss Sandokan, perde il portafoglio per strada. Lo raccolgono i carabinieri del Ros, che tra una banconota e uno scontrino trovano anche un biglietto da visita. È quello di Bruno Tucci, imprenditore italiano con casa a Malta. Gli investigatori lo intercettano. E ascoltando le chiamate arrivano a sospettare che Tucci sia uno degli imprenditori attraverso cui il clan di Casal di Principe vuole riciclare il proprio tesoro a Malta. Aprire locali notturni, ristoranti e società di gaming: questo, secondo i detective, è il piano dei Casalesi.
Così i magistrati inviano subito una rogatoria alle autorità della Valletta. Vogliono seguire il giro dei soldi e bloccare sul nascere il riciclaggio. Peccato che la risposta di Malta si faccia attendere, e quando arriva risulta incompleta. Il risultato è che del possibile tesoro offshore di Gomorra finora non si è più avuta notizia. Finora, appunto, perché grazie ai documenti ottenuti da L’Espresso oggi è possibile tornare a seguire le tracce di Tucci. L’italiano residente a Malta è azionista di due società sull’isola: la Mbt Services Limited, fondata nel 1996, e la Genergia Ltd, creata nel 2010. Nessuna delle due ha mai pubblicato un bilancio: impossibile dunque sapere quali siano il patrimonio e l’attività economica delle aziende. Informazioni che lo stesso Tucci, contattato dal nostro giornale, non ha fornito. L’unica certezza è che le sue società sono attive.
Quella dei Casalesi è solo una delle tante storie di mafia scoperte dall’Espresso scorrendo l’elenco segreto degli italiani che hanno aperto società nell’ex colonia britannica. Una nuova Panama nel cuore del Mediterraneo. Un paradiso fiscale a chilometro zero, dove riciclare montagne di denaro frutto di racket, estorsioni, spaccio. Nessuna dogana da superare, nessun aereo da prendere. Bastano un paio d’ore di navigazione da Pozzallo o Portopalo di Capo Passero. Una valigetta piena di contanti, spesso semplicemente un bonifico, e il gioco è fatto. Milioni di euro sporchi investiti nell’economia legale. Ripuliti e fatti fruttare grazie a tasse bassissime, talvolta addirittura nulle. Un sistema sicuro, soprattutto. Perché Malta è un Paese dell’Ue, al momento presidente di turno del Consiglio europeo, dove circola l’euro e nessuno controlla chi arriva dall’Italia. Non c’è dunque bisogno di inventarsi stratagemmi: è sufficiente che le autorità non siano troppo zelanti. E, visto come sono andate le cose finora, qualcuno alla Valletta deve aver chiuso più di un occhio sull’origine dei soldi che negli ultimi anni sono approdati sull’isola.
I narcos di San Luca Haru Pharma Limited. Un nome come tanti nello sterminato registro delle imprese maltesi. La vetrina perfetta per nascondere un passato imbarazzante: quello dei Calabrò, famiglia di narcos della ’ndrangheta, specialisti nel trattare partire di cocaina con i cartelli sudamericani. Un tempo protagonisti dell’Anonima sequestri, poi diventati trafficanti di droga paragonabili per ricchezza al cartello del messicano El Chapo Guzman, i Calabrò vengono da San Luca, alle pendici dell’Aspromonte. Qui vivono tutti i boss mafiosi a capo del narcotraffico europeo. Gente accorta, silenziosa, con uno spiccato senso degli affari. La sede legale della Haru Pharma è a Balzan, una manciata di chilometri dalla capitale maltese. Nonostante sia attiva da ormai quattro anni, anche questa società non ha mai depositato un bilancio. Di sicuro ci sono perciò solo un paio di dati. Azionista unico è la Haru Pharma Holding Limited, registrata sull’isola di Saint Kitts e Nevis, paradiso fiscale caraibico che fa capo alla monarchia britannica e garantisce totale segretezza sull’identità dei soci. Direttore della società maltese è invece Sebastiano Calabrò: è proprio il suo nome a collegare l’anonima scatola offshore alla ’ndrangheta.
“Bastianeddu”, come lo chiamano in famiglia, è infatti il rampollo di un importante gruppo mafioso, quello formato dalle famiglie Calabrò e Romeo, diventate ricche prima con i sequestri di persona e poi con il traffico internazionale di cocaina. Le condanne accumulate da alcuni boss, come il padre di Sebastiano, non sembrano aver fermato le attività del clan, tornato di recente nel mirino dell’antimafia per un sospetto riciclaggio. Secondo i magistrati italiani, parte dei guadagni del traffico di cocaina è stata usata dalle ’ndrine di San Luca per acquistare uno dei più antichi negozi di Milano, la Farmacia Caiazzo. È qui, in un’elegante palazzina alle spalle della Stazione centrale, che lavora Sebastiano Calabrò, trentenne con la fedina penale immacolata, lo stesso che compare come direttore della maltese Haru Pharma Limited. Una scoperta che permette, per la prima volta, di tracciare un collegamento preciso tra società offshore e personaggi legati ai potenti cartelli di San Luca.
Gambling e cosche Cambia il business ma non l’origine dei quattrini. Dai farmaci al gioco online, settore su cui il governo della Valletta ha puntato forte grazie a un regime fiscale a dir poco generoso. Questa volta a dominare la scena è un clan mafioso con sede a Reggio Calabria. Un gruppo criminale finito al centro di “Gambling”, maxi inchiesta per riciclaggio che ha portato al sequestro di due miliardi di euro tra società, cash e immobili. Il volto noto del sistema è quello di Mario Gennaro, 42 anni, per gli amici “Mariolino”. Da quasi un anno il boss si è pentito, garantendosi così una condanna ridotta a tre anni. Ha raccontato di essere stato spedito nell’ex colonia britannica dalle cosche più potenti della città. Obiettivo: investire il denaro mafioso in siti di poker e scommesse online. Un settore che - ha detto il ministro per la Competitività maltese, Emmanuel Mallia - vale oggi 1,2 miliardi di euro, pari al 12 per cento del Pil nazionale. Cifre che significano affari importanti per parecchie persone sull’isola. A partire da commercialisti e avvocati, a volte particolarmente famosi. Lo dimostra la storia del clan mafioso rappresentato da Gennaro, che sull’isola poteva contare su una ventina di società. Il marchio commerciale dietro cui si nascondeva la cosca era quello della Betuniq, di proprietà della Uniq Group Limited. Azionista di quest’ultima, oltre a un’impresa diretta da Gennaro, è la Gvm Holdings, una fiduciaria controllata da David Gonzi, avvocato e figlio dell’ex premier locale Lawrence Gonzi. Presenza eccellente, quella di Gonzi Junior, che si ritrova in numerose altre società del gruppo mafioso. Per questo i magistrati di Reggio Calabria lo avevano indagato, inviando poi tutto alla magistratura maltese.
Da allora è trascorso però più di un anno, e visto il tempo passato fonti giudiziarie italiane sospettano che il caso sia stato archiviato. Un’ipotesi che getta ombre sulle reali intenzioni de La Valletta, anche perché dai documenti analizzati da L’Espresso emergono altre società, sfuggite alla magistratura italiana, in cui il clan rappresentato da Gennaro risulta partner della Gvm Holdings di Gonzi. È il caso per esempio della Global Promotions Holdings e della Mgame Holding Limited. Una volta appresa dalla stampa la notizia dell’indagine a suo carico, il figlio dell’ex premier maltese ha spiegato che lui «si è limitato a detenere quote per terze persone e a fornire dei servizi legali per una delle aziende». Una versione teoricamente credibile, visto che l’attività della Gvm Holdings è quella di dare assistenza legale e fiduciaria. Il caso Gonzi dimostra che cosa è diventata Malta negli ultimi anni: un Paese europeo in cui avvocati e commercialisti si sono messi al servizio di gente di ogni genere, a volte anche mafiosi.
Israele connection Analizzando il registro delle imprese maltesi si scopre anche che la ’ndrangheta è entrata ufficialmente in affari con alcuni cittadini israeliani. Gente capace, grazie a un software, di far lievitare i profitti realizzati dalla mafia calabrese con slot machine e poker online. Il caso è quello di Ehud Goldshmidt, detto “Udi”. Israeliano con passaporto tedesco, residente a Lecco, Goldshmidt è stato citato dall’antimafia di Reggio Calabria in un’indagine sul senatore Antonio Caridi, accusato di far parte dell’associazione calabrese. Che c’entra Goldsmith con la ’ndrangheta? C’entra, in teoria, perché secondo i magistrati italiani che l’hanno indagato, l’israeliano «è a completa disposizione del clan» Raso-Gullace, una delle più note e pericolose famiglie di ’ndrangheta, radicata nell’area della piana di Gioia Tauro, a pochi chilometri dal porto in cui arriva buona parte della cocaina destinata all’Europa. Secondo la procura calabrese Goldsmith avrebbe «favorito le attività imprenditoriali del sodalizio criminale, specie nel settore delle slot machine e con riguardo allo sviluppo di una piattaforma software per la gestione di giocate del poker online da far sviluppare in Israele e da omologare in Italia».
I documenti in possesso dell’Espresso permettono di rivelare il legame societario maltese tra la ’ndrangheta e l’israeliano. Dall’elenco societario Goldsmith risulta infatti azionista di due imprese: la Wantedplay Limited e la Beproga Limited. Sigle che condividono due caratteristiche particolari. Entrambe sono state fondate da Stefania Casati, moglie di Antonio Pronestì, indagato per mafia insieme a Goldsmith e parente del boss (defunto) dell’omonimo clan, Girolamo Raso. Ed entrambe hanno tra gli azionisti Noam Bartov, di professione tecnico informatico. Anche lui israeliano.
Casinò ’ndrangheta Ancora ’ndrangheta, droga e gioco d’azzardo. Questa volta però non ci sono geni del computer di mezzo. Il boss si chiama Nicola Femia, conosciuto come il “signore delle slot machine”, che dopo la condanna per mafia a 26 anni ha deciso di collaborare con la giustizia. Di lui non c’è traccia nel registro maltese. Ricorre tuttavia più volte il nome di Fernando Orlandi, per alcuni anni presidente del Casinò di Venezia sull’isola. Proprio la società in cui la figlia del boss - anche lei condannata per mafia in primo grado - ha dichiarato di aver riciclato parte del tesoro familiare. Legato alla cosca calabrese dei Mazzaferro, che già negli anni ’80 era in grado di far arrivare dal Sudamerica all’Italia oltre 3 mila chili di cocaina ogni due mesi, Femia è un boss di nuova generazione, diviso tra impresa, finanza e salotti buoni. Un mafioso capace di conquistare, con la sua rete societaria, metà del mercato italiano del gioco online e delle slot machine, come lui stesso sta raccontando ai magistrati.
Per l’ipotesi di aver riciclato parte del denaro del papà è accusata anche la figlia, Guendalina, in un’inchiesta aperta dalle autorità di San Marino. Ed è in questa storia che per la prima volta il nome del clan viene associato a quello del Casinò di Venezia a Malta. Difendendosi dalle accuse, infatti, la figlia del boss ha detto che i 580 mila euro trasferiti dal suo conto sammarinese a una società cipriota servivano per finanziare «l’attività imprenditoriale esercitata a Malta relativa al Casinò di Venezia». Lo stesso diretto all’epoca da Orlandi, rimasto in carica fino alla chiusura avvenuta nel 2013. I soldi del boss Femia sono dunque stati riciclati grazie alla compiacenza di Orlandi? Un’ipotesi inquietante, tanto più per il fatto che il 40 per cento del casinò era di proprietà del Comune di Venezia, dunque dei cittadini del capoluogo veneto. Di certo dal registro maltese emerge il ruolo di Orlandi. L’italiano con domicilio a Londra risulta azionista, con piccole quote, di due imprese sull’isola. Una è il Casinò di Venezia; l’altra si chiama Sportalnet Limited e si presenta come fornitrice di «software e sistemi innovativi per il gaming digitale». Imprese in cui Orlandi compare come azionista insieme alla International Trust Ltd. Una fiduciaria maltese dietro cui è impossibile sapere chi si nasconde.
L’uomo della triade Come le grandi aziende, anche le mafie collaborano quando necessario. E hanno bisogno di uomini capaci di farle dialogare. L’uomo in questione si chiama Antonio Padovani, viene da Catania, ha subito sequestri e confische da parte della guardia di finanza ed è considerato dagli investigatori vicino alle cosche di Cosa nostra siciliana. Non solo. I magistrati di Napoli lo hanno descritto come l’imprenditore di collegamento tra la camorra e la mafia per la gestione di sale bingo e slot machine. Di fatto una joint venture alla quale avrebbe partecipato pure la ’ndrangheta con il già citato protagonista dell’inchiesta Gambling, Mario Gennaro, come lui stesso sta raccontando ai magistrati.
Una triade del crimine mafioso, insomma. Che ha fatto di Malta la sua base principale. Al netto delle tesi accusatorie, dal registro societario emergono i nomi di Patrizia Fazio e Luigi Fabio Padovani, moglie e figlio dell’imprenditore catanese. Risultano azionisti della Non Solo Bet Limited. Di cosa si occupa l’impresa? Gaming, naturalmente. Peccato che anche in questo caso non sia possibile conoscere i dettagli dell’attività economica dell’azienda. Nonostante i cinque anni di attività ufficiale, infatti, la società dei Padovani non ha mai depositato un bilancio.
La mafia del Nord Lo chiamano “Scimmia”, ma gli riconoscono l’autorità di un capo. Scimmia, al secolo Alfonso Diletto, è considerato il braccio destro del padrino Nicolino Grande Aracri, un’istituzione della ’ndrangheta emigrata in Emilia. Per questo l’anno scorso Diletto è stato condannato in primo grado a 14 anni per mafia. Insieme a lui è stato riconosciuto colpevole anche Giovanni Vecchi, rampante costruttore di Reggio Emilia, finito in carcere per aver permesso alla ’ndrangheta di entrare in società con lui senza alcuna remora.
Con la sua Save Group, Vecchi era infatti il proprietario di un piccolo impero. Ha lavorato con grandi committenti, sia pubblici che privati, tra questi il gruppo Caltagirone. E ha ottenuto appalti, per un totale di mezzo miliardo di euro, in tutto il mondo, dall’Est Europa all’Africa. È per spartirsi gli introiti di queste commesse estere, sostengono gli investigatori italiani, che Diletto e Vecchi sono entrati in società nella Save International a partire dal 2013, nominando poco dopo come direttore dell’azienda Artur Azzopardi, membro di un importante studio di avvocati maltesi. Uno stimato professionista locale al soldo del capo mafia italiano. Quasi una tendenza, nella piccola isola mediterranea. Proprio come nel caso del figlio dell’ex premier Gonzi e delle società dell’altro boss calabrese Mariolino Gennaro.