Così Lega e Movimento 5 Stelle si preparano a spartirsi le poltrone dai servizi segreti alla Rai
Ma anche Cassa depositi e prestiti, Finmeccanica e poi decine di altri posti chiave. I partiti di governo sono pronti a occupare le posizioni più importanti. E a ridisegnare i rapporti di potere nello Stato. Vi raccontiamo cosa sta succedendo
«Il potere logora chi non ce l’ha», soleva ripetere il Divo Giulio Andreotti, mentre era impegnato a timonare la nave della Prima Repubblica. «Nella Terza Repubblica, invece, sembra che il potere stia logorando chi l’ha appena conquistato», racconta uno degli uomini più fidati di Luigi Di Maio, alle prese da settimane con il dossier delle nomine di Stato. «È una fatica di Sisifo. Comandare sarà meglio di fottere, dicono in Sicilia. Ma mediare tra M5S e Lega su amministratori delegati, presidenti, direttori dei servizi e delle partecipate strategiche è stremante. Anche perché se sbagliamo persone come abbiamo fatto con Luca Lanzalone a Roma, e se Salvini ci frega in Rai, in Cassa depositi e prestiti e nell’intelligence come ha fatto finora schiacciandoci nell’agenda del governo e nella comunicazione, per noi è la fine».
Così, se sul proscenio mediatico i partiti uniti nella coalizione populista si sfidano a colpi di annunci e di tweet su migranti e chiusura dei porti, su reddito di cittadinanza flat tax e decreti dignità, con Di Maio e Salvini impegnati a vincere la disfida del consenso a colpi di tweet e propaganda, dietro le quinte i due leader e i loro fedelissimi stanno giocando la partita vera. Quella del potere. E della sua lottizzazione.
Nessuno scandalo. Ogni governo, e a maggior ragione un esecutivo che si autodefinisce del «cambiamento», ha necessità di mettere uomini di fiducia nei gangli del Paese e nelle stanze dei bottoni, attraverso uno spoil system che garantisca la trasformazione delle promesse elettorali in atti e fatti concreti. Accade in tutte le democrazie mature. Il problema è che spesso e volentieri in Italia l’alternanza di boiardi e manager di Stato, invece di seguire logiche meritocratiche, si tramuta in un’occupazione militare del potere, fondata su una mera spartizione di poltrone tra partiti e correnti, sulla fedeltà ai leader, sulle cordate di camarille, sugli interessi di lobby e nomenclature assortite.
Dopo la “rottamazione” di Matteo Renzi («la meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», disse il democrat nel 2014, prima di affidarsi mani e piedi ai soli fedelissimi del Giglio Magico), anche Di Maio e Salvini promettono una rivoluzione fondata su «trasparenza e capacità professionali».
I precedenti, però, non lasciano ben sperare. Da un lato i sottosegretari, i presidenti delle Commissioni di Camera e Senato, persino il premier e i suoi stretti collaboratori (come Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio e imperatore della comunicazione del M5S) sono stati scelti quasi tutti tra i soldati della Casaleggio, i generali di Salvini e i colonnelli dell’altro vicepremier Di Maio.
Dall’altro lato, l’esperienza romana di Virginia Raggi insegna che il sistema di selezione della classe dirigente è uno dei principali talloni d’Achille del M5S. In due anni i grillini hanno cambiato al Campidoglio otto assessori più una dozzina di ad e presidenti delle municipalizzate, mentre la sindaca è affidata anima e corpo prima all’imputato Raffaele Marra, poi - su consiglio del neoministro della Giustizia Alfonso Bonafede - al presunto corrotto Lanzalone, l’avvocato genovese chiamato da Di Maio e Davide Casaleggio a trovare soluzioni non solo per l’affaire del nuovo stadio della Roma, ma pure per trovare i nomi giusti da piazzare del risiko delle nomine. Paradossalmente, sarà proprio sulla partita delle partecipate che i grillini proveranno a riscattarsi, cercando di dimostrare di non essere del tutto subalterni ai soci (di minoranza) della Lega. Assai più avvezzi ai giochi di palazzo e alle distribuzioni di poltrone.
La guerra nei servizi Partiamo dai servizi segreti. I capi dell’Aise e del Dis (rispettivamente Alberto Manenti e Alessandro Pansa) sono stati confermati in extremis dal governo Gentiloni per un anno, mentre il numero uno dell’Aisi Mario Parente, che guida l’agenzia di sicurezza interna, è scaduto tre settimane fa, ma è stato finora lasciato al suo posto. Adesso il premier Giuseppe Conte, che ha tenuto per se le deleghe sull’intelligence, ha tre possibilità: sostituire solo Parente e confermare Manenti e Pansa fino alla prossima primavera, tenere tutti e tre o, al contrario, sostituirli tutti rivoluzionando l’intero comparto. Se il Quirinale spinge per quest’ultima soluzione (al momento la più probabile), sia dentro il M5S sia nella Lega esistono posizioni assai differenti.
È un fatto che Pansa e Manenti, che segue il dossier delicatissimo del contrasto all’immigrazione clandestina in Libia, stiano tentando di rimanere al loro posto con le unghie e con i denti. «Siamo tranquilli, Manenti fino a marzo è inamovibile», confermano da Forte Braschi, dove raccontano che il 22 giugno si sia palesato il premier Conte in persona. «Una visita di cortesia, ha partecipato alla manifestazione “Il Forte in famiglia”», applaudendo un’esibizione di fanfare e assistendo a una partita di calcio tra la squadra delle spie e la Nazionale dei parlamentari. L’anno scorso il Family Day degli 007 aveva avuto il suo apogeo nello spettacolo di falconeria del Capitano Ultimo, quest’anno invece il top sono stati gli interventi in difesa del sottosegretario (alla Difesa) del M5S Angelo Tofalo (lui è fautore di un rapidissimo cambio dei vertici), e i dribbling del piddino Luigi Marattin e del forzista Simone Baldelli. Conte - anche se buon centrocampista - non ha invece giocato.
Oltre a curare rapporti istituzionali, Manenti, che ha da tempo conquistato la fiducia di un big grillino come Vito Crimi e che spera che i renziani non mettano le mani sulla presidenza del Copasir, negli ultimi mesi ha tentato di tessere rapporti anche con la Lega. I tentativi di avvicinarsi a Giancarlo Giorgetti non sono andati finora a buon fine, ma Salvini - nel recente viaggio in Libia organizzato proprio dall’Aise - è rimasto impressionato dal lavoro sul campo (in tema di controllo dei flussi migratori) illustratogli dal generale. Il leader leghista che a inizio marzo aveva definito il rinnovo di Manenti e di Pansa «una vergogna», ora sembra essere tornato sui suoi passi, lasciando stare i generali e puntando, come ogni bullo che si rispetti, su obiettivi meno pericolosi, come il presidente dell’Inps Tito Boeri che rischia il posto dopo aver affermato conti alla mano «che senza migranti regolari in futuro non ci saranno soldi per pagare le pensioni».
Anche il vice direttore dell’Aise Giovanni Caravelli, in scadenza ma in pole per prendere il posto di Manenti, sta cercando sponde politiche. È un fatto che Caravelli possa vantare un ottimo rapporto con Elisabetta Trenta, neoministro della Difesa che sognava, due anni fa, di entrare nei servizi segreti italiani: sostenne alcuni colloqui, ma alla fine il passaggio non si concretizzò. La Trenta, va ricordato, insegnava alla Link Campus, università privata fucina di un pezzo importante della nuova classe dirigente pentastellata e ateneo che vede in cattedra più di uno 007.
Dal 4 marzo, l’aria è elettrica anche al Dis, il dipartimento che coordina e controlla Aise e Aisi. Pansa qualche settimana fa ha liquidato tre capi reparto di peso (ufficialmente sono andati in pensione) come il capo di gabinetto Dario Matassa, uomo di Gianni De Gennaro, lo spione - e celebre critico culinario - Paolo Scotto di Castelbianco e soprattutto Andrea Di Capua, potente capo del personale un tempo vicino a Niccolò Pollari. Di Capua avrebbe pagato alcuni screzi con un pupillo di Pansa, il dirigente dell’Aisi Giuseppe Del Deo, da molti indicato come buon amico di Luca Lotti e Marco Carrai. Al posto di Di Capua è stata chiamata il prefetto Franca Triestino, moglie dell’ex Dis Adriano Soi, uno 007 in pensione che insegna alla Link, proprio nel corso coordinato l’anno passato dalla Trenta.
Matassa, invece, pare sia stato fatto fuori per alcuni dissidi con Enrico Savio, influente vice direttore del Dis che con il nuovo governo punta a prendere il posto di Pansa: anche lui legato a De Gennaro, è l’uomo che ha curato la ristrutturazione di quella che dovrebbe essere la nuova sede unica dei servizi a piazza Dante a Roma. Un progetto faraonico che rischia di costare alle casse dello Stato quasi 200 milioni di euro, e che non è ancora ultimato. Nonostante i vertici del Dis abbiano assicurato a Palazzo Chigi il taglio del nastro entro l’anno.
A tutta Rai Ma prima ancora che sull’intelligence, i rapporti di forza tra i partiti della maggioranza si misurerà sulla televisione di Stato. Entro pochi giorni Camera e Senato dovranno nominare i quattro membri del nuovo cda della Rai, poi toccherà ai due membri di competenza del governo: pare che M5S e Lega non vogliano fare prigionieri, e che non vogliano lasciare nemmeno una sedia alle opposizioni (il settimo membro è infatti eletto dai dipendenti Rai).
Se la battaglia per la presidenza della Commissione parlamentare di Vigilanza diventa dunque centrale (andasse davvero a Forza Italia è probabile che il Pd griderebbe al golpe), vero barometro della rivoluzione gialloverde sarà però il volto del nuovo direttore generale, dal momento che dal 2015 - con la riforma voluta da Renzi - il dg ha assunto in azienda un potere assoluto, simile a quello di un amministratore delegato. I patti non scritti tra Di Maio e Salvini prevedono che il prescelto debba essere esterno ai due partiti, un tecnico o un manager, ma che debba essere proposto da chi ha preso più voti alle elezioni del 4 marzo. Cioè dai grillini. Per la presidenza, al contrario, gli sherpa del governo sperano (ma non sarà facile) di accordarsi su un giornalista di fama e di prestigio: difficile ce la faccia un “neopopulista” alla Carlo Freccero, più possibilità invece per Milena Gabanelli, Ferruccio De Bortoli o Giovanni Minoli.
Al dossier stanno lavorando sia gli uomini più vicini a Di Maio (Casalino e Stefano Buffagni su tutti, ma anche i giornalisti Emilio Carelli e Gianluigi Paragone provano a dare qualche indicazione), sia - soprattutto - quelli della Casaleggio Associati. Alcuni rumors segnalano che la Lega spinge per affidare l’incarico a Gianmarco Mazzi (socio di Lucio Presta, è stato direttore del Festival di Sanremo per sei volte), ma per la poltrona più prestigiosa del settimo piano di Viale Mazzini Davide Casaleggio vedrebbe assai bene, più di ogni altro pretendente, Fabio Vaccarono.
Manager nato nel 1971 ad Ivrea, la città adottiva dei fondatori del Movimento, Vaccarono è specializzato nel settore media e - soprattutto - in quello della raccolta pubblicitaria: con esperienze di vertice in Rcs Advertising, nel gruppo Sole24Ore e alla Manzoni (la concessionaria del Gruppo Gedi a cui appartiene anche l’Espresso), nel 2012 è diventato managing director di Google Italia.
Casaleggio l’ha invitato al Sum del 2017 (l’evento organizzato dall’associazione “Gianroberto Casaleggio”, definito la Leopolda dei grillini) per parlare di futuro e strategie digitali, ma Vaccarono tiene a ricordare agli amici che non ha simpatie politiche di parte, e che lo scorso novembre era anche a un convegno di Forza Italia organizzato da Maria Stella Gelmini.
È un fatto, però, che il numero uno della filiale italiana del colosso di Muntain View stia pensando al grande salto. Qualcuno nella Lega storce il naso, spiegando che Vaccarono è «a digiuno di contenuti e della necessaria competenza in finance», mentre i berluscones temono che la sua capacità di raccogliere pubblicità possa nuocere a Mediaset. Ma in realtà uno dei problemi principali sono gli stipendi Rai (il tetto è quello dei 240 mila euro annui) molto meno generosi di quello erogati da Google ai suoi top manager.
Altro nome papabile, oltre a quello dell’ad di Viacom Italia Andrea Castellari in ascesa, è quello di Fabrizio Salini, per un anno direttore di La7, e prima ancora ad di Fox Italia dal 2014 al 2016. Un uomo di contenuti, che ora lavora nella Stand by Me di Simona Ercolani. «Metterebbe d’accordo tutti nel governo», chiosano da Palazzo Chigi. Ma Salini, e chiunque tra i professionisti vagliati in questi giorni, prima di sciogliere qualunque riserva guarderà con attenzione anche la mission richiesta dall’azionista: negli ultimi giorni sulla Rai i leader del M5S hanno in effetti rilasciato dichiarazioni contrastanti e surreali, come quella di Beppe Grillo che da una finestra di un albergo, senza mai farsi vedere in faccia, con un megafono ha annunciato che bisogna lanciare un piano di privatizzazione: «Rai Tre, Rai Due, Rai Uno: due saranno messe sul mercato e una senza pubblicità. Questo dice l’Elevato, e accontentatevi», ha detto.
Chiunque sia il nuovo dominus, è certo che dovrà mediare con i due vicepremier anche il tema decisivo delle direzioni delle reti e dei telegiornali, delle radio e delle sedi regionali. «Censiremo i raccomandati alla Rai. Ristabiliremo il principio di meritocrazia», ha sentenziato Di Maio. Ora, è presto per capire se i gialloverdi si muoveranno davvero con imparzialità, oppure se “il cambiamento” si tradurrà con una cacciata in massa di tutti i direttori e la solita occupazione del palazzo. Sinora le voci trapelate dai circoli magici di Salvini e Di Maio ipotizzano tanto una lottizzazione definitiva (con una Raiuno governativa, una Raidue in mano alla Lega, e una Raitre in salsa grillina) quanto una più morbida, con la terza rete - oggi guidata da Stefano Coletta - unico bastione di quel che resta del centrosinistra. È improbabile, comunque, che a capo dei tg arrivino professionisti dall’esterno (sono circolati i nomi di Enrico Mentana e Marco Travaglio): la partita si dovrebbe giocare tra i giornalisti interni. Un bacino dove la Lega può pescare assai più agilmente del M5S.
Dalla Cassa a Leonardo Ma a luglio il governo dovrà fare altre scelte fondamentali. Come quelle per il rinnovo della Cassa Depositi e Prestiti, società controllata dal Ministero dell’Economia e vera cassaforte dello Stato: la poltrona di amministratore delegato della spa, insieme a quella dell’Eni, pesa come quella di un ministro con portafogli.
Ebbene, anche qui i grillini dovrebbero godere della ius primae noctis e proporre per primi un nome a loro gradito (non è un caso che proprio Luca Lanzalone fosse in predicato, prima di finire agli arresti, di sostituire Fabio Gallia, amministratore delegato uscente), ma la penuria di candidati grillini (e l’opposizione al nome ipotizzato da Salvini, l’ex finiano Massimo Sarmi) potrebbe agevolare lo schema messo a punto da Giuseppe Guzzetti, il grande ciambellano delle fondazioni bancarie azioniste, per il 16 per cento, di Cdp: piazzare l’ex presidente di Mps Massimo Tononi come presidente al posto dell’uscente Claudio Costamagna, e Dario Scannapieco (attuale vicepresidente della Bei), come amministratore delegato. Scannapieco potrebbe essere affiancato da un direttore generale con deleghe pesanti: per dare continuità al vecchio management Guzzetti sogna di promuovere l’attuale cfo Fabrizio Palermo, molto apprezzato anche da Di Maio. Di Maio sembra d’accordo, Giorgetti - il grande tessitore delle nomine targate Lega - molto meno: se il Carroccio non riuscirà a quadrare il cerchio spuntando poltrone di rilevo in altre partecipate, è possibile che il piano di Guzzetti salti, e che siano outsider finora tenuti coperti a salire ai piani alti di Via Goito a Roma.
Le partite delle nomine, in effetti, non si giocano singolarmente, ma i tasselli devono essere messi in fila tutti insieme, come nel cubo di Rubik. Ecco perché leghisti e grillini stanno parlando anche delle aziende i cui vertici scadono nel 2019 (come Fincantieri, Snam e Italgas) e di altre i cui ad sono stati nominati da poco. La posizione di Renato Mazzoncini, il capo delle Ferrovie riconfermato da Gentiloni fino al 2020 e rinviato a giudizio un mese fa per una presunta truffa sui contributi pubblici ai tempi in cui il manager lavorava a Busitalia, è meno salda di quello che molti immaginano: se la Lega nicchia, il M5S vorrebbe sostituirlo già in autunno, anche con Sarmi.
Per la cronaca, entro ottobre bisognerà trovare pure il nuovo guru dell’Antitrust, visto che Giovanni Pitruzzella si trasferirà armi e bagagli alla Corte di giustizia dell’Unione europea, come nuovo Avvocato generale.
Anche l’attuale assetto manageriale di Leonardo, l’ex Finmeccanica, potrebbe essere travolto prima della naturale scadenza del mandato dell’ad Alessandro Profumo e del presidente Gianni De Gennaro. I motivi sono tre: la volontà di Giorgetti di chiamare in una delle partecipate di Stato a cui la Lega tiene di più un uomo di totale fiducia (Giorgetti fu già sponsor del vecchio ceo Giuseppe Orsi, che assunse nella controllata Augusta Westland il fratello del sottosegretario, Francesco, nel 2010); l’astio di pezzi importanti del M5S per De Gennaro, potente ex capo della polizia ai tempi del G8 di Genova; e, infine, le tegole cadute di recente sulla testa dei vertici. Sia problemi giudiziari (Profumo è stato rinviato a giudizio perché accusato dal gup di aggiotaggio e falso in bilancio in merito a uno dei fascicoli processuali sulla crisi dell’istituto senese Mps, i pm avevano invece chiesto il suo proscioglimento), sia alcune defaillances finanziarie: il titolo di Leonardo in un anno è crollato di circa il 40 per cento (nello stesso periodo la Borsa di Milano è cresciuta di oltre 20 punti), mentre sono peggiorate le previsioni sugli ordini degli elicotteri, sul flusso di cassa e, soprattutto, sui ricavi.
L’ultimo terremoto è di qualche giorno fa: il premier Conte e Giorgetti stanno cercando di capire la vera entità dello scandalo sulla cybersecurity di Leonardo, che ha provocato l’allontanamento del top manager Andrea Biraghi (dimissionario) e dei suoi più stretti collaboratori, finiti in un’inchiesta interna ancora segreta su presunti rapporti poco trasparenti con alcuni fornitori stranieri. Uno scandalo che promette di allargarsi a macchia d’olio.
Poltrone e poltroncine La babele delle nomine, con decine e decine di poltrone di peso da assegnare entro la fine dell’anno, impegnerà i grilloleghisti per mesi. Si litiga per trovare il successore del capo di Stato maggiore della Difesa Claudio Graziano, mentre la nomina del consigliere diplomatico di Conte è diventata una corsa al fotofinish tra l’ambasciatore Pietro Benassi, sponsorizzato dalla Farnesina, Maurizio Massari, benvoluto dal Quirinale, e Pasquale Salzano. Feluca in Qatar, stimato da tempo da Di Maio e dal neosottosegretario Vincenzo Spadafora, Salzano è entrato nelle grazie anche della Lega: è stato lui, insieme al fratello di Giorgetti, ad aver contribuito a sbloccare a favore di Leonardo una commessa da 3 miliardi per la vendita di 28 elicotteri.
Si lavora e si discute, in verità, su ogni posto disponibile. Alle Poste l’ex renziano Matteo Del Fante, anche se del tutto isolato, non rischia il posto grazie agli ottimi risultati del titolo a piazza Affari, ma il governo dovrà presto scovare i nuovi membri del cda e i nomi dei vertici del Gestore Servizi Energetici (in pole c’è Alberto Biancardi in quota M5S e Giuseppe Nucci per la Lega), di Sogei, di Invimit, di Centostazioni.
Per non parlare della delicatissima partita del Consiglio superiore della magistratura. Giudici e magistrati stanno votando in queste ore i 16 rappresentanti togati del loro organo di autogoverno (la sfida è tra il gruppo di Area, la casa dei giudici di sinistra, i davighiani di Autonomia e Indipendenza, indicati come simpatizzanti del M5S, e i centristi di Unicost), ma il nuovo corso della Terza Repubblica si disvelerà soprattutto con la nomina degli otto membri laici.
Nelle previsioni degli addetti ai lavori la supremazia del Pd (il vicepresidente in scadenza Giovanni Legnini è in quota democrat) è destinata ad evaporare: tre nuovi consiglieri dovrebbero essere infatti appannaggio degli uomini di Di Maio, due in quota Salvini, uno o due per il Pd, mentre un membro dovrebbe essere scelto da Forza Italia. I maligni dicono che Niccolò Ghedini stia spingendo per far eleggere la sorella Ippolita, noto avvocato padovano, sposata con il capo della procura di Treviso Michele Dalla Costa, (“processato” e poi assolto proprio dal Csm per alcune consulenze che la moglie ottenne da Veneto Banca, istituto sul quale la sua procura indagava), mentre i nomi graditi a Di Maio e Salvini restano ancora coperti. Certamente un ruolo importante sarà giocato dal ministro Bonafede, una delle menti del movimento che nelle recenti scelte dei collaboratori al dicastero di Via Arenula, come ha raccontato Repubblica, ha pescato soprattutto dal mondo di Unicost e di Autonomia e indipendenza che fa capo a Piercamillo Davigo, marginalizzando i gruppi di sinistra di Magistratura democratica e quelli, vicini alla destra, di Magistratura indipendente. «È solo un caso, non scherziamo» chiosano i suoi uomini «Il ministro Bonafede ha visionato quasi 50 curriculum, e ha deciso in base al merito senza chiamare - come spesso accaduto in passato - i rappresentanti della diverse correnti della magistratura.
Siamo contrari al manuale Cencelli». Se è vero che la scelta del capo di gabinetto Fulvio Baldi ha spiazzato anche i capi della corrente alla quale appartiene, cioè Unicost, Bonafede ha chiamato come vice di Baldi Leonardo Pucci, giudice del lavoro ad Arezzo e suo amico personale. Vedremo nei prossimi mesi se la rivoluzione del governo del cambiamento sarà basata davvero sulla meritocrazia e la competenza, o se l’occupazione militare del potere premierà come sempre raccomandati e fedelissimi.