Così i signori dei furti venuti dall'Est la fanno sempre franca (Ultime vittime? I Salvini)
Clan georgiani, russi, balcanici specializzati nei colpi in casa fanno razzie in Italia e poi scappano. Anche perché una legge nazionalista voluta da Putin rende quasi impossibili le estradizioni. E sono proprio loro ad aver "ripulito" la casa dei genitori del ministro dell'Interno
Veloci e leggeri come gatti e con le fedine penali rigorosamente immacolate. Quando li hanno arrestati, ieri mattina all'alba, avevano i bagagli già pronti per partire dopo il loro ennesimo colpo. Stavolta, un colpo eccellente: in cinque avevano svaligiato la casa dei genitori del ministro dell'Interno Matteo Salvini, a Milano.
E così anche Salvini - sempre solerte nel denunciare i presunti crimini commessi dai migranti - si è accorto dell'esistenza della silenziosa mafia georgiana, organizzazione criminale in continua ascesa, che gestisce il business milionario dei furti in abitazione in tutta Europa.
Eserciti criminali capeggiati da boss con il passaporto russo, protetti da una legge nazionalista voluta da Vladimir Putin, che impedisce le estrazioni nei Paesi stranieri in caso di mandato di cattura internazionale. Anche in questo caso i ladri arrestati dalla Questura di Milano fanno parte - secondo gli inquirenti - della criminalità organizzata georgiana. I loro nomi sono finiti in un ampio fascicolo coordinato dai pubblici ministeri milanesi David Monti e Laura Pedia, che da tempo si stanno occupando di questo ancora poco conosciuto fenomeno criminale ormai radicato in tutta Europa e soprattutto in Italia.
Chi sono i ladri dell'Est Si fanno chiamare “i russi”, ma i loro passaporti sono quasi sempre falsi, proprio come i loro modi cortesi. Entrano ed escono dalle prigioni italiane, dove sono accolti con timore e deferenza, e dove non restano mai a lungo. Per regolare i conti non usano il piombo: bastano i pestaggi, feroci e silenziosi, interrotti un attimo prima che la vittima perda i sensi. Quando la vendetta lo richiede, però, sguinzagliano i loro cecchini migliori. Mirano dritti alla testa e poi svaniscono nel nulla.
Sono “vory v zakone”, ladri nella legge, padrini della mafia russa devoti a un codice criminale nato nei gulag sovietici e sopravvissuto fino a oggi.
In Italia alcuni di loro hanno trovato una patria d’adozione. E soprattutto, terreno fertile per costruire un impero che si finanzia grazie a un settore immune alla crisi: quello dei furti.
Una volta monopolio della piccola delinquenza comune, ora l’industria dei furti è stata conquistata dalle mafie straniere, che con il rigore di organizzazioni militari gestiscono eserciti di ladri sparpagliati in tutta Europa. A contendersi il mercato - come ricostruito dall’Espresso - ci sono in particolare tre mafie internazionali. Nel nostro Paese i “signori dei furti” acquistano ville, riciclano i soldi, programmano summit criminali. Si calcola che il giro d’affari delle razzie dei beni di lusso - oro, gioielli e oggetti preziosi - solo in Italia ammonti a decine di miliardi di euro all’anno.
Un business redditizio e dai rischi contenuti: quando i ladri vengono catturati, spesso scontano nelle prigioni italiane pochi mesi di detenzione e poi vengono rimpatriati nei Paesi d’origine, dove il reato associativo non viene quasi mai riconosciuto. E dunque tornano subito liberi.
Chi è il “generale Jango” «Siamo ladri, noi! Siamo una piccola forza. Ci facciamo sentire solo se abbiamo qualcosa di importante da dire. La verità è dalla nostra parte».
Così parlava - intercettato - un affiliato del clan di Kutaisi, potente organizzazione criminale della Georgia che oggi conta in Italia una delle sue più influenti succursali. La provincia pugliese, per esempio, è il regno di Merab Dzhangveladze, detto Jango, ritenuto il generale della mafia georgiana a capo di una holding dedita a furti e riciclaggio. Entra ed esce dal carcere, oppure sconta i domiciliari nella sua villa di Bari. Però le sue detenzioni sono sempre molto brevi. Perché per i tribunali italiani, a dispetto della sua fama internazionale, “Jango” continua a rimanere un semplice ladro.
Eppure le forze dell’ordine ne sono sicure: il suo esercito è sterminato. Sotto di lui i luogotenenti impartiscono ordini ai soldati semplici, detti “bravi ragazzi”, batterie di ladri attive in tutta Italia e nel resto d’Europa. Spesso per la polizia italiana sono fantasmi, mimetizzati fra decine di alias indecifrabili e protetti da uno stile di vita irreprensibile. Parlano poco, ma le loro storie sono impresse sulla pelle. Quattro lettere tatuate con inchiostro blu significano “ho ucciso un poliziotto”. Le rose dei venti indicano la gerarchia criminale dei ladri. Una stella vuol dire “vendetta compiuta”.
«Per i “vory”» spiega all’Espresso Alfredo Fabbroncini, dirigente della II Divisione della direzione centrale anticrimine del Servizio Centrale Operativo, «l’attività illecita è considerata sacra: rimanere per più di un anno a piede libero è un disonore».
Non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, invece, è una delle regole auree. E sarà per questo che l’unico fatto di sangue di cui i clan georgiani si sono macchiati in territorio italiano rimane l’omicidio del connazionale Revas Tchuradze, assassinato a Bari sei anni fa per aver incautamente cercato di scalzare un clan rivale. Da allora, i “bravi ragazzi” sono rimasti in silenzio, ma il loro disegno criminale si è allungato come la tela di un ragno. Altre centrali operative della mafia georgiana risultano attive a Catanzaro, Roma, Reggio Emilia, Torino. In Piemonte, in particolare, sono state scoperte palestre dello scasso dove i ladri si allenano a forzare serrature senza lasciare tracce.
I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Novara - i primi ad aver intuito la portata del fenomeno criminale - sotto la guida del pubblico ministero milanese Luigi Luzi si sono spinti ancora più in là: negli ultimi cinque anni hanno arrestato oltre 200 persone e recuperato refurtiva per 10 milioni di euro per un giro d’affari di quasi 100 mila euro al giorno. Soldi che finiscono direttamente nella cassa comune della cupola georgiana, la “obshak”, che a sua volta va a finanziare la “Organizacija”, la mafia russo-georgiana. Se la manovalanza criminale mantiene il profilo basso, infatti, i loro capi hanno ambizioni sfrenate. E vogliono proteggere l’impero con ogni mezzo.
Il boss Djemo vive protetto in Lettonia Negli ultimi anni i poliziotti dell’Interpol hanno notato per esempio una strana coincidenza: molti “vory georgiani stanno acquisendo la cittadinanza russa. Uno stratagemma che avrebbe un unico scopo: evitare l’estradizione in caso di mandato di cattura internazionale. Il Paese governato da Vladimir Putin per norma costituzionale ha reso quasi impossibile la consegna dei criminali russi alle autorità straniere. E così, quando la polizia italiana fa scattare gli arresti, loro sanno dove andarsi a rifugiare.
Aveva cercato di ottenere con mezzi illeciti il passaporto russo anche Dzhemal Mikeladze, detto Djemo, origini georgiane, considerato dalla polizia internazionale uno dei ladri nella legge più pericolosi in circolazione, sospettato di essere fra i mandanti dell’esecuzione del capo dei capi della mafia russa Aslan Usoyan, detto “nonno Assan”, assassinato a Mosca 5 anni fa. Secondo le carte dei magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia, il padrino venuto dall’Est «è riuscito con successo a mettere radici anche nel mondo criminale italiano, costituendo un’associazione per delinquere di stampo mafioso transnazionale senza precedenti nel nostro Paese». Il core business di Djemo e dei suoi uomini sono - neanche a dirlo - i furti, le estorsioni e il riciclaggio. Un anno fa, con fatica, la Russia ne ha consentito l’estradizione in Italia. Ha atteso il processo dal carcere di Bari, assistito da un pool di avvocati internazionale. I giudici, però, non considerando sufficienti le prove a suo carico, lo hanno condannato soltanto a pene minori. E così oggi, secondo quanto risulta all’Espresso, dopo meno di 9 mesi di detenzione, Djemo è già volato via dall’Italia. Ora vive in Lettonia protetto da una scorta privata: su di lui incombe la vendetta per la morte di nonno Assan.
A piede libero, in questo momento, si trova anche quello che l’Interpol considera uno degli astri nascenti della mafia georgiana: Besik Kuprashvili, detto Beso, 38 anni, finito in carcere per la prima volta in Puglia quando era un semplice “soldato”, liberato dopo pochi mesi e poi catturato ancora in Lombardia, stavolta nelle vesti di capo mafia. Condannato a 2 anni e 3 mesi dal Tribunale di Milano per il solo reato di furto, è stato rimpatriato a Tbilisi quasi subito. Qui, sottoposto a un nuovo processo, è stato dichiarato non colpevole per insufficienza di prove. Immediatamente scarcerato, oggi Beso è tornato a essere un fantasma.
Manovalanza da Tirana e Durazzo A spartirsi con i georgiani il redditizio business dei furti, poi, ecco il ritorno dei padrini di Tirana. La mafia albanese - al momento è considerata la cupola straniera più potente e radicata in Italia - insieme al narcotraffico e alla tratta di esseri umani di recente è tornata ad occuparsi proprio dei reati predatori, soprattutto nel Centro Nord.
La manovalanza criminale viene fatta arrivare da Tirana, Durazzo e dalla piccola città di Milot, dove fanno base le cosche più attive in Italia. Onorano tre capisaldi: rispetto, lealtà e famiglia. Per questo il “kanun”, il codice della malavita albanese, prevede l’omicidio come forma di vendetta per la morte di un familiare. Non a caso, i ladri che fanno parte delle organizzazioni albanesi sono quasi sempre legati da vincoli di sangue. A Terni, è stata smantellata un’organizzazione composta esclusivamente da fratelli e cugini.
«Agiscono in piccoli gruppi, spesso slegati fra di loro – spiega all’Espresso il tenente colonnello della Direzione Investigativa Antimafia Marcello Manca. «Non di rado per via dei loro introiti attirano l’attenzione di famiglie più potenti, che cercano a loro volta di controllarli».
L’enorme disponibilità economica dei clan, del resto, permette alle batterie di ladri di sfoggiare equipaggiamenti all’avanguardia: nel Nord Italia gli investigatori dell’Arma hanno scoperto che prima di ogni colpo i professionisti del furto preparano il terreno attraverso “jammer”, disturbatori di frequenze che mandano in tilt gli allarmi e impediscono ai telefoni di ricevere o trasmettere onde radio. E poi non parlano mai ai cellulari, ma utilizzano potenti ricetrasmittenti. Le intercettazioni telefoniche che li riguardano si contano sulle dita di una mano: fra queste ci sono quelle effettuate dalla Procura di Milano. «Abbiamo la fila di ragazzi che vogliono venire a rubare in Italia», diceva uno dei ladri intercettati su richiesta del pubblico ministero David Monti, «tanto ti fai 24 ore di galera e poi sei già fuori».
L’esercito delle Pink Panthers Il carcere non trattiene mai a lungo neppure le “pantere dei Balcani”, un’organizzazione transnazionale fondata nei primi anni Novanta da ex combattenti di origine serba e oggi composta da circa 200 affiliati. Secondo le stime della polizia, negli ultimi 10 anni hanno fatturato oltre 360 milioni di euro. Parlano fluentemente diverse lingue, hanno passaporti di tutti i Paesi e non si sporcano mai le mani di sangue. Per anni i Pink Panthers - soprannominati così in onore del celebre film di Blake Edwards - sono stati considerati soltanto una leggenda del crimine. Ma i loro colpi sono reali. Agiscono in maniera velocissima: blitz che durano dai 30 ai 60 secondi. Le loro specialità sono i furti nelle località di lusso. Sono sospettati, per esempio, dello “storico” raid al Festival di Cannes dove furono rubati circa 100 milioni di euro di pietre preziose. Per individuare le prede usano spesso i social network: prendono di mira chi sfoggia in rete i propri gioielli, come la star di Instagram Kim Kardashian, rapinata a Parigi nella suite di un hotel forse proprio da alcuni membri della gang. Ai vertici della piramide c’è una primula rossa: Ivan Milovanovic, serbo di 43 anni. In Italia il gruppo criminale gode di coperture importanti: a Roma vive il loro luogotenente Mitar Marijanovic, 68 anni, arrestato nel marzo 2012 dopo aver svaligiato due gioiellerie nel centro storico della Capitale e finito di nuovo in manette poche settimane fa. Stavolta - con la complicità di due pregiudicati italiani - progettava una rapina in villa nella zona della Camilluccia. Secondo gli investigatori, questo indicherebbe che le “pantere” stanno diversificando i loro affari, tessendo legami con la malavita locale.
«Oggi», fanno sapere dal Servizio Centrale Operativo «l’esercito delle Pink Panthers si sta riorganizzando ed è più attivo che mai».
Da Nord a Sud, del resto, mentre tutti gli altri reati risultano in calo, i furti continuano a rimanere una nota dolente per il Viminale. Dati alla mano, nell’ultimo anno le denunce ammontano a quota un milione e 261mila. Quasi stazionarie rispetto a un anno fa. I furti in abitazione, in particolare, sono stati 194.880. In pratica, 534 episodi al giorno. E così l’Italia si conferma terreno di caccia per i re dei ladri.