L'omicidio di Diabolik ha sconvolto gli equilibri silenziosi che attendevano la sentenza Carminati. Dando vita a una nuova geografia criminale

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Un omicidio eccellente frana sugli equilibri criminali di Roma. Una città colonizzata dalle mafie più potenti del Paese. E in cui è cresciuta una criminalità autoctona sempre più forte, che attraverso il metodo mafioso domina interi quartieri. Presenze criminali, eppure non percepite come tali dalla stragrande maggioranza dei romani. Perché le mafie a Roma non controllano ancora capillarmente il territorio come avviene a Napoli, Reggio Calabria e Palermo. Lasciano comunque tracce, divenute negli anni impronte ben definite di famiglie della ’ndrangheta calabrese, dei clan storici della camorra napoletana, dei padrini di Cosa nostra, dei boss di Ostia, dei Casamonica. L’arresto di Massimo Carminati, il “Cecato”, ha lasciato un vuoto nel quadrante Nord della città. Ma non ha segnato la morte di mafia Capitale: gran parte degli uomini di Carminati sono ancora in giro per Roma. Il “Mondo di mezzo” ha deciso di inabissarsi, in attesa della Cassazione che il 16 ottobre deciderà sulla sentenza della corte d’appello che ha riconosciuto l’associazione mafiosa.
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Roma Nord è però la stessa area geografica in cui esercitava il suo potere Fabrizio Piscitelli, conosciuto come “Diabolik”, il capo ultrà della Lazio ucciso il 7 agosto scorso. È stata un’esecuzione: un colpo di pistola calibro 7,65 alla nuca in pieno giorno accanto ad una panchina del parco degli Acquedotti. Nella zona in cui da anni vigeva la pax mafiosa che vietava gli omicidi. Tuttavia Piscitelli era andato all’appuntamento senza prendere troppe precauzioni. Cosa rara per uno come “Diabolik”, visto che era solito girare scortato da qualcuno dei suoi fedelissimi di Ponte Milvio, a Roma Nord, il regno in cui aleggia ancora il ricordo di Carminati, perché era il suo territorio. E non solo suo. Il nostro viaggio inizia da qui, da questo crocevia degli equilibri mafiosi della Capitale.
Ponte Milvio è uno dei centri della movida. Qui tra pub, bar, trattorie e locali alla moda, si muove la “batteria” che fu di Diabolik. Un gruppo agguerrito e capace di smerciare cocaina in quantità. Polvere bianca per eccitare le notti dei “pischelli”, i figli della borghesia di Roma Nord. Il padre criminale di Diabolik, a detta di molti collaboratori di giustizia, ha un nome: Michele Senese, detto “o Pazzo”, legato ai Moccia di Afragola, provincia di Napoli, referente della camorra nella Capitale.
Inchiesta
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I pentiti hanno raccontato di un rapporto molto stretto già a fine anni ’90 tra Diabolik e il fratello di Michele Senese, Gennaro, ucciso nel 1997 da un capo della malavita romana. Sulla piazza di Ponte Milvio c’è un terzo personaggio che salda la criminalità romana, ex banda della Magliana, e camorra. Si chiama Giovanni De Carlo, nel processo mafia Capitale è stato condannato in Appello a due anni. In questo spicchio di città oltre il Tevere De Carlo, detto “Giovannone” per la stazza, era di casa. Un tipo violento, De Carlo, circondato da amicizie del mondo dello spettacolo che gli è valso il soprannome di “boss dei vip”. Un pilastro della malavita romana, Ernesto Diotallevi - ex banda della Magliana e intimo di Pippò Calò, il cassiere di Cosa nostra - così rispondeva a chi gli chiedeva chi fosse il capo: «Tecnicamente sò io, materialmente conta Giovanni». Diotallevi ha vissuto in un attico con 14 stanze, vista sulla Fontana di Trevi. La casa di lusso è stata poi confiscata definitivamente quest’anno insieme a un patrimonio complessivo di 25 milioni di euro. I guadagni illeciti di una vita. Ma torniamo al figlioccio dell’ex referente romano di Cosa nostra. “Giovannone” De Carlo ha stretto solidi rapporti con imprenditori contigui a uno dei clan più potenti e noti nel panorama della criminalità organizzata: i Moccia di Afragola, che a partire dal 2012 hanno deciso di trasferirsi in massa nel cuore più borghese della città, i Parioli.

LA MAPPA DEL POTERE CRIMINALE



MOCCIA CONNECTION
I Moccia incarnano un pezzo di storia della criminalità: Anna Mazza, la moglie del boss, è stata la prima donna condannata per mafia; i capi sono stati i precursori della dissociazione nel tentativo di evitare pesanti condanne. Insomma, il clan Moccia, in passato contrapposto alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, non è riducibile agli schemi tradizionali delle mafie d’altri tempi. I magistrati della procura di Napoli continuano a giudicarlo un’organizzazione mafiosa, certi che la politica della dissociazione sia stata solo un tentativo di confondere le acque. I pm dell’antimafia di Roma sono altrettanto certi dell’esistenza di questo clan nella Capitale. Tanto che due anni fa il tribunale di Roma ha condannato in primo grado Luigi Moccia a quattro anni e il figlio Gennaro a due, riconoscendo l’aggravante mafiosa. L’inchiesta coordinata dalla procura antimafia di Roma, con il pm Barbara Sargenti, ha svelato i tentacoli della famiglia nella distribuzione alimentare e nel mercato ortofrutticolo della città. Infiltrazione riuscita grazie a un loro contatto, un altro Moccia ma non della medesima famiglia, titolare di imprese ben avviate nel settore. Aziende che ritroviamo anche all’interno del C.a.r. di Guidonia alle porte di Roma, uno dei centri più importanti in Europa per la commercializzazione della frutta e della verdura.

La forza dei Moccia sta soprattutto nelle relazioni che hanno costruito nel tempo. Tra queste spicca quella con Flavio Carboni, il faccendiere condannato per il crac del Banco Ambrosiano e in primo grado per la P3. Una storia che parte da lontano: in passato i Moccia figuravano tra i creditori di Carboni.

GHIRI E CHAMPAGNE
Le organizzazioni mafiose a Roma collaborano tra loro. Non è raro trovare camorra e ’ndrangheta alleate. Joint venture costituite sulla base di un obiettivo comune: l’acquisto di tonnellate di cocaina da smerciare nelle piazze; l’utilizzo di professionisti comuni per il riciclaggio di milioni sporchi; l’investimento di capitali in negozi, ristoranti, discoteche o aziende, per esempio, che si occupano di petrolio. Il petrolifero è uno dei settori su cui ’ndrangheta e camorra stanno investendo molto. Anche a Roma. Tra questi investitori ci sono pezzi da novanta della ’ndrangheta della piana di Gioia Tauro - provincia di Reggio Calabria - legati alla famiglia Piromalli. E, tuttavia, i Piromalli non rappresentano la famiglia di ’ndrangheta più numerosa sul territorio romano. Ci sono nuclei più strutturati, che negli anni hanno fondato vere e proprie enclave nei quartieri Nord e Ovest della metropoli. Ci sono le ’ndrine di Africo: Palamara e Scriva, due cognomi che ritroviamo risalendo da Prima Porta fino a Morlupo. Ci sono le truppe del clan Bellocco di Rosarno, potente brand della ’ ndrangheta calabrese, i Gallico di Palmi, gli Alvaro di Sinopoli, i Mancuso di Vibo Valentia: gente circondata da colletti bianchi e professionisti che hanno permesso di riversare tra piazza di Spagna e il Colosseo, centinaia di milioni in locali chic frequentati dalla Roma bene e nei circuiti finanziari consigliati da commercialisti di fama. Vere e proprie centrali del riciclaggio, in palazzine antiche del centro, dove hanno sede centinaia di società che si occupano di appalti e servizi. Soldi che arrivano dal narcotraffico. I narcos di San Luca e Platì, santuari della mafia calabrese, lavorano sotto traccia nella zona universitaria. Qui hanno messo radici da tempo. E non hanno esitato a sparare quando le situazioni lo richiedevano. La ’ndrangheta in alcuni quartieri si è radicata mutuando dalle casi madri le stesse tradizioni arcaiche. Per esempio i riti di affiliazione. Anche nella Capitale, racconta il pentito Gianni Cretarola, si affiliano nuovi adepti. Cretarola, per esempio, ricorda una cena a Primavalle, regno della cosca Crea, a base di ghiri portati direttamente dalla Calabria e champagne, per celebrare l’affiliazione, “il taglio della coda”, di due giovani. Riti e tradizioni tramandati, ragazzi da “battezzare” che spesso parlano in romanesco, perché nati e cresciuti qui. Da un lato le liturgie arcaiche del potere che creano identità, dall’altro la sapienza nell’usare gli strumenti offerti dalla modernità per moltiplicare i profitti. È sempre lo stesso collaboratore che rivela molti dettagli della ’ndrangheta Capitale: i luoghi di ritrovo, le riunioni nei ristoranti degli affiliati, la sinergia tra le ’ndrine “romane” nel traffico della cocaina. E l’attivismo di alcuni boss durante le elezioni amministrative del 2013.

I SEGRETI DI “RICCARDINO”
Grazie a Diabolik sono entrati nel giro della mala che conta: gli albanesi della “batteria di Ponte Milvio”, devono tutto al leader degli Irriducibili. Gestivano con lui gli affari a Roma Nord, gli guardavano le spalle durante i suoi giri: ogni giorno, tranne quello dell’esecuzione. Negli anni di “Mondo di Mezzo” agivano agli ordini di Piscitelli, legati a un altro dei “quattro re di Roma”, Vincenzo Senese. È nel cuore di Roma Nord che inizia l’ascesa criminale del “pugile” Orial Kolaj, di Yuri Shelever, ma soprattutto di Arben Zogu, detto “Riccardino”. È lui l’uomo di punta degli albanesi, che ancora oggi riesce a essere in contatto diretto con Massimo Carminati. Un’ascesa fatta di doppie fedeltà e molteplici interessi, quella della “banda di Ponte Milvio”: uno su tutti, il narcotraffico. Prima ancora che scattassero gli arresti di mafia Capitale, Zogu era in prigione. Proprio in carcere ad Avellino sul finire del 2013 “Riccardino” conosce Rocco Bellocco, uno dei capi della ’ndrina di Rosarno. «Sono i più grandi che esistano, sono i numeri uno», raccontava di loro Zogu nei colloqui con il cugino, Dorian Petoku, invitandolo a spendere il nome del boss Bellocco nei suoi traffici. Soprattutto in quelli che lo vedevano protagonista a Montespaccato, insieme al clan di Costantino Sgambati, accusato di essere a capo di un’associazione mafiosa e della gestione delle piazze di spaccio nel quartiere a Ovest della Capitale. Un legame criminale, quello tra Petoku e Sgambati, emerso grazie all’inchiesta “Re Mida” della Guardia di Finanza, che lo scorso 21 maggio ha portato all’arresto per narcotraffico di 18 persone.

Nel quartiere sulla via Boccea, già in passato deposito di armi, droga e rifugio di latitanti del clan Bellocco, si era creata un’alleanza a cui partecipava anche il clan Senese. Non solo: tra i fermati è presente un altro vecchio arnese del narcotraffico capitolino, Marco Turchetta, detto “Orso”. Non un nome qualsiasi: Turchetta è stato coinvolto in numerose indagini sulla droga a Roma e Ostia già dal finire degli anni ’90. Insieme all’amico Piscitelli ha stretto un solido legame con i fratelli Senese. “Orso” è stato per anni il braccio destro di Diabolik negli Irriducibili,la frangia più estrema del tifo laziale. Un ruolo di spicco in Curva Nord, quello di “Orso”, che gli permetteva di cenare insieme ai giocatori della Lazio in ritiro estivo ad Auronzo di Cadore. Una foto recuperata dall’Espresso, lo ritrae insieme ai calciatori biancocelesti: da Ciro Immobile al capitano Lulic.

Marco Turchetta con i giocatori della Lazio ad Auronzo di Cadore nel 2018


Il rapporto tra Turchetta, i camorristi e Petoku era costante: facevano ricorso a lui per rifornirsi di grossi quantitativi di cocaina. Un criminale in ascesa il trentunenne albanese, che postava sui social network la sua vita da boss: macchine di lusso, pistole e blackberry criptati. E che riusciva a sedersi al tavolo di chi sposta tonnellate di droga.

La mappa delle cosche
Le piazze di spaccio in cui i clan inondano Roma di droga
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Petoku è stato infatti tra gli organizzatori di un’importazione di 7 mila chili di cocaina dal Sud America. «Una quantità che avrebbe imbiancato Roma per anni», dicono gli inquirenti. Il traffico è stato sventato dalla Guarda di Finanza, con l’indagine “Brasile Low Cost” conclusa a gennaio 2019. Al tavolo con lui c’era anche un’altra vecchia conoscenza del “Mondo di mezzo”: Tomislav Pavlovic, montenegrino vicino a Carminati e alla “batteria di Ponte Milvio”. «Brutti forte... questi so’ gente che prendono la pistola e sparano», diceva di lui Carminati in persona. Pavlovic teneva i contatti con i trafficanti latino-americani insieme a Salvatore Casamonica, esponente di spicco del clan sinti egemone a Roma Est, fratello di Giuseppe, un altro dei “quattro re di Roma”. Clan che negli ultimi anni ha cercato di coinvolgere nei suoi crimini anche ’ndranghetisti di peso, come Massimiliano Fazzari, dell’omonima famiglia legata ai clan di Rosarno e ai Mancuso di Limbadi. Fazzari è oggi un collaboratore di giustizia. I contatti tra i Casamonica e le ’ndrine erano tenuti anche da Silvano Mandolesi, braccio destro di Salvatore Casamonica, “broker” di stupefacenti in contatto con esponenti delle famiglie Pelle e Nirta, di cui favoriva la latitanza in Belgio.

PESCE E COCAINA
Un tempo c’era Pippo Calò, il ministro di Cosa nostra a Roma. Che aveva scelto come suo figlioccio Ernesto Diotallevi della banda della Magliana, che ritroviamo nelle vicende di mafia Capitale, mentore di “Giovannone” De Carlo. Ma la storia romana di Cosa nostra è ancora attuale, prosegue con altri volti e altri cognomi. C’è per esempio la cosca di Gela, che con Salvatore Rinzivillo ha trasferito nella metropoli parte dei suoi affari. Droga nelle piazze universitarie ed estorsioni nei locali di via Veneto, il simbolo della “dolce vita”. Ma anche business puliti, come la commercializzazione del pesce, insieme a un capomafia che di nome fa Giuseppe Guttadauro. Il medico-boss, figura di rilievo a Palermo. Coinvolto nell’indagine che portò in carcere l’ex governatore della Regione Totò Cuffaro. Guttadauro nel salotto di casa sua a Palermo riceveva professionisti e affiliati. Appartiene alla famiglia di Brancaccio, il fratello, invece, è cognato del superlatitante Matteo Messina Denaro. Il medico-padrino, dunque, dopo aver scontato tre anni di carcere, ha deciso di trasferirsi nel centro di Roma per dedicarsi al volontariato. Non è l’unico della cosca di Brancaccio ad averlo fatto: anche la madre e la sorella dei Graviano, i boss stragisti al 41 bis, hanno preso casa nella Capitale. È indagando sugli affari capitolini di Rinzivillo che emergono i contatti e i summit tra il figlio del medico, Francesco Guttadauro, non indagato, e un emissario del boss di Gela. Per i pm nisseni, il duo Rinzivillo-Guttadauro aveva in ballo un affare milionario: monopolizzare il mercato del pesce in Sicilia importando il prodotto dal Marocco, fino alla Capitale.

DALLA SICILIA A OSTIA
L’impronta di Cosa nostra è netta sulla malavita di Ostia e del litorale romano. Qui negli ultimi tempi è emerso Francesco D’Agati, nel milieu noto come don Ciccio. Originario di Villabate, provincia di Palermo, è l’anziano padrino vicino alla famiglia Triassi, che insieme ai Fasciani e agli Spada, si spartisce il territorio di Ostia. Ma don Ciccio è anche il boss da coinvolgere per risolvere frizioni prima di scatenare guerre che mettano a serio rischio i business. E così lo troviamo in questa veste insieme ai uomini del clan Fragalà, legati ai potenti Santapaola di Catania, trasferitisi da tempo sul litorale romano a Sud di Roma. In un’intercettazione un affiliato dice di D’Agati: «Un pezzo grosso... ’ u zio Ciccio è quello che oggi rappresenta la mafia qua a Roma». Un padrino rispettato. La storia si ripete come ai tempi di Calò.