Traffici, donazioni via web, bitcoin e moschee: ecco come si finanzia il terrorismo
Soldi raccolti nei luogi di culto o su piattaforme online, milioni in criptovaluta, frodi fiscali, finte ong. E persino il business delle mascherine. Vi raccontiamo le strategie usate da Isis, al Qaeda e soci per incassare denaro in tutto il mondo. Compresa l'Italia
L'Europa credeva che Daesh non fosse più un problema. Sconfitto sul terreno in Siria e in Iraq, l’autoproclamato Califfato pareva incapace di organizzare azioni in altri continenti. Invece Parigi, Nizza e Vienna sono state colpite: attacchi che - secondo i primi risultati delle indagini - sono opera di lupi solitari inquadrati in una rete in grado di guidarli e soprattutto finanziarli.
La sfida contro i tentacoli della piovra jihadista si combatte su due fronti. C’è il web, che permette di seminare propaganda e odio senza confini. Ma c’è soprattutto il denaro: l’attenzione degli inquirenti si sta concentrando sulle riserve economiche, nella convinzione che solo prosciugando le casse si riuscirà a stroncare ogni piano di rinascita, fisica e digitale. L’ultimo rapporto dell’Onu stima che Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, l’erede di Al Baghdadi, abbia a disposizione una sorta di forziere centrale con banconote per cento milioni di dollari. A questo si aggiungono oro e pregiati reperti archeologici nascosti in rifugi sicuri più altri investimenti in alberghi, ristoranti, aziende agricole e rivendite di automobili affidati a prestanome fidati.
Sono i resti dell’immenso bottino depredato quando le bandiere nere controllavano gran parte della “Mezzaluna fertile” - come veniva chiamata una volta nei libri di geografia - ossia la terra più ricca del Medioriente. Stando ad alcuni analisti, nel momento di massima espansione, tra tasse, estorsioni, furti nei musei e soprattutto vendite di petrolio il sedicente Califfato aveva raggiunto un budget di 6 miliardi di dollari. Una stima che appare credibile: lo scorso anno in un solo raid nella periferia di Baghdad l’intelligence irachena ha recuperato 500 milioni di dollari. La solerte burocrazia di Daesh aveva creato un dipartimento riservato per la gestione dei fondi, che smistava pagamenti e si occupava di trasferire le scorte in tutto il pianeta, nascondendole agli occhi degli 007.
Oggi il denaro deve muoversi per finanziare i progetti di risurrezione dello Stato islamico. Deve arrivare nelle tasche dei predicatori itineranti che diffondono il verbo fondamentalista in Asia, cercando reclute in Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, Indonesia, Malesia e Sri Lanka, spingendosi fino alle comunità musulmane dell’ex Unione Sovietica. Deve contribuire alla crescita delle bandiere nere in Africa centrale, che le vede dilagare dal Mali al Niger, dal Burkina Faso al Mozambico. Deve sostenere le centrali di propaganda, che saltano da una piattaforma web all’altra riuscendo a proseguire il loro lavoro. Deve aiutare le stazioni logistiche che nel Maghreb, nei Balcani, in Turchia aiutano i fuggitivi e formano nuove reclute. E deve fare arrivare i rifornimenti alle brigate nascoste nei monti iracheni e siriani che ogni giorno conducono imboscate per dimostrare di esistere.
L’Espresso può rivelare il quadro allarmante emerso in un recente incontro riservato della Financial Action Task Force che ha raccolto le delegazioni di 26 Paesi, dall’Algeria agli Usa, dal Pakistan all’Italia, uniti dalla volontà di troncare i flussi del denaro jihadista.
Le conclusioni sono chiare. Daesh continua a generare e movimentare introiti da attività criminali attraverso i network clandestini in Iraq, mentre Al Qaeda nella provincia di Idlib in Siria mantiene il monopolio di gas e petrolio.
Ma sono soprattutto i finanziamenti che arrivano dall’estero con metodi sempre più raffinati a preoccupare. Una miriade di trasferimenti, ciascuno di poche centinaia di euro, raccolti nelle moschee o su Internet.
Ci sono le donazioni inviate tramite Hawala - il trasferimento di valori tra persone basato sull’onore attraverso una ragnatela di mediatori - e soprattutto i money transfer. Scaturisce da queste sorgenti il 50 per cento delle segnalazioni di operazioni sospette in Italia, con collettori spesso in Belgio o in Turchia che ricevono denaro da tutta Europa e lo smistano a chi è ancora in Siria o Iraq.
E poi la nuova frontiera della criptovaluta. Al Qaeda e Daesh richiedono l’obolo con questo sistema in ogni parte del mondo. La Francia ha monitorato di recente un sistema con codice di messaggistica diretto ai reclusi nei campi di concentramento siriani. La rete operava principalmente attraverso l’acquisto di coupon i cui riferimenti erano dati a jihadisti in Siria e poi accreditati su conti Bitcoin. Qualche mese fa il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha sequestrato beni di criptovaluta per un valore di milioni di dollari. «È un’enorme scappatoia perché è difficile, se non impossibile, individuare con certezza i beneficiari finali», nota Hans-Jakob Schindler, direttore del Counter Extremism Project, tanto che siti che diffondono la propaganda hanno cambiato le richieste di donazioni da Bitcoin all’altra valuta virtuale monero perché «assicura un maggior anonimato».
Ovunque il Covid ha chiuso le persone in casa, incollate davanti ai pc, e i network del jihad si sono adattati: piattaforme open source per la collaborazione di team di lavoro, chat usate dai gamer, app di messaggistica che usano la tecnologia blockchain trasformate in canali per fare proseliti e intascare quattrini.
Ma il segreto della loro resilienza sta nella flessibilità. Nei nuovi avamposti africani come il Niger o il Mali il finanziamento segue canoni tradizionali: diamanti, oro, droga. Dominano il contrabbando, prendono il controllo delle zone chiave per i traffici e conquistano il consenso delle popolazioni offrendo acqua e assistenza medica. Ogni strada è utile per finanziare la causa: la polizia algerina ha addirittura smascherato una filiera per importare auto dall’Iran.
E il terrorismo ai tempi della pandemia cerca di trarre profitto anche con la vendita di mascherine Ffp2. Le autorità statunitensi hanno scoperto le modalità con cui Murat Cakar, membro di Daesh e responsabile di numerosi attacchi informatici per conto di formazioni salafite, avrebbe realizzato e gestito FaceMaskCenter.com, un sito per vendere mascherine non certificate.
Ci sono meccanismi più sofisticati, con frodi fiscali complesse come quella messa in piedi da Jameleddine B. Brahim Kharroubi. Arrivato dalla Tunisia a Torino, ha aperto un negozio di tappeti e grazie a una commercialista italiana compiacente è accusato di essersi dato da fare per sfornare fatture false. Due milioni di euro sarebbero arrivati ad Al Nusra passando prima a un imam in Abruzzo e poi triangolando in Germania e Turchia.
I pilastri del riciclaggio jihadista sono stati illustrati dal capo della polizia Franco Gabrielli in un’audizione alle Camere lo scorso 3 novembre: «Lo schema è speculare a quello del reimpiego dei capitali illeciti ed è articolato in tre fasi. Nella prima i fondi di origine sia lecita sia illecita vengono raccolti e convogliati verso un collettore unico. Nella seconda le risorse economiche vengono occultate e trasmesse a gruppi o soggetti affiliati facendo ricorso a mezzi di pagamento sotterranei paralleli al circuito bancario e convenzionale. Nella terza i medesimi fondi vengono materialmente impiegati in attività preordinate al compimento di atti terroristici. A differenza di quanto accade nel riciclaggio della criminalità organizzata, il finanziamento del terrorismo può assumere forme più subdole e difficili da intercettare».
È un fiume carsico, che si disperde in tanti rivoli sotterranei per alimentare sempre nuove fonti. Spesso con coperture insospettabili, come quelle di ong islamiche al servizio dei piani salafiti. Quest’estate i Paesi membri del Terrorist Financing Targeting Center (Tftc) - Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (Uae) e Usa - hanno inserito nella lista nera quattro entità con base in Turchia e Siria, accusate di fornire aiuto logistico ed economico a Daesh. Ma soprattutto hanno messo nel mirino la Nejaat Social Welfare Organization: una ong caritatevole che faceva la questua in Qatar e Iraq, ma invece di sponsorizzare programmi di sviluppo consegnava il denaro ai capi dell’Isis a Kabul e Jalalabad. Soldi serviti all’espansione delle bandiere nere nel Nord dell’Afghanistan.
L’Italia non è immune. Anzi. La Penisola è sempre stato un ponte nel Mediterraneo, sfruttato per la logistica di ogni sigla fondamentalista. La Guardia di Finanza ha creato il Gruppo Investigativo Finanziamento Terrorismo. Nel 2019 hanno ricevuto 982 segnalazioni di operazioni sospette: l’anno prima erano state 1.282, il segno di un flusso in calo. I sospetti sono concentrati nelle regioni settentrionali, dove si è registrato il 60 per cento delle notifiche. Anche in questo caso, gli importi più significativi venivano gestiti da un’associazione caritatevole, che poi li trasferiva a un’altra ong islamista in Turchia e da lì ai terroristi in Siria.
A Cagliari è stata aperta la più importante inchiesta sull’oro nero del Califfato. Riguarda la raffineria Saras che tra il 2015 e il 2016 ha ricevuto venticinque navi di greggio proveniente dall’Iraq del Nord: ben 12 milioni di tonnellate. I carichi sono stati smistati dalla Petraco Oil company, con sede legale a Londra e filiale operativa a Lugano. Dalla ricostruzione risulta che ha acquistato dalla Edgwaters Falls, società di comodo alle Isole Vergini di proprietà della stessa Petraco, che a sua volta ha ottenuto le forniture da un’azienda turca che l’aveva acquistato in un non specificato sito in Iraq. Le contestazioni della procura sarda riguardano la legittimità delle vendite: solo il governo di Baghdad può esportare petrolio, mentre in questo caso pagamenti per quattro miliardi di dollari sono arrivati all’autorità curda di Erbil. E le consegne di greggio sono proseguite anche quando i pozzi sono finiti nelle mani di Daesh. I curdi - come evidenziano i magistrati - hanno infatti respinto una parte dei bonifici: 60 milioni di dollari, relativi a maggio e giugno 2016. Proprio mentre gli impianti erano sotto l’occupazione del Califfato.
La Saras, controllata dalla famiglia Moratti, ha respinto gli addebiti: «Abbiamo avuto un comportamento inappuntabile. Nessun illecito: abbiamo fornito tutta la documentazione alla magistratura, a cui ribadiamo fiducia e collaborazione». Le indagini proseguono, perché - scrivono i pubblici ministeri - nella contabilità della Edgwater Falls ci sono «pagamenti internazionali per importi considerevoli, pari a 3,6 miliardi di dollari, senza indicazione del reale beneficiario, verosimilmente perché era inconfessabile». Una pista inquietante per arrivare alla caverna del tesoro.
Inchiesta realizzata con il sostegno di Journalism Fund. Ha collaborato Giulio Rubino.