Il deposito del ministero riservato a stoccare i farmaci contro le pandemie si trova in condizioni disastrose alla periferia di Roma. Vent’anni fa Sars e attacchi all’antrace hanno spinto a promuovere la struttura a pilastro della difesa nazionale. Ma i lavori non sono mai neppure iniziati

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L'Italia si prepara alla più grande operazione di vaccinazione mai realizzata nella storia per proteggere l’intera popolazione dal Covid. Un’impresa colossale, con difficoltà tecniche per conservare nelle condizioni ottimali decine di milioni di fiale che permetteranno di debellare la peste contemporanea. Ma nel nostro Paese non c’è una struttura centrale dove custodire i farmaci più delicati e importanti. O meglio esiste solo sulla carta, in quei documenti ufficiali del ministero della Sanità che la indicano come polo per «conservare rilevanti scorte di materiale sanitario (antidoti e vaccini) di estrema rilevanza strategica nazionale in caso di eventi pandemici». Un luogo fondamentale, presentato come indispensabile per fronteggiare le epidemie e garantire la salvaguardia delle dosi per immunizzare la cittadinanza.

Si chiama “Magazzino centrale del materiale profilattico”, solo che non somiglia affatto a Fort Knox. È un capannone, con il tetto metallico che mostra macchie di ruggine, circondato da terreni altamente inquinati e cataste di rottami d’ogni genere lasciati marcire tra le erbacce. Nulla che faccia pensare all’atmosfera asettica dei laboratori hi-tech dove preservare le scorte di medicinali taumaturgici, il Graal che ci salverà dalla morsa spietata del coronavirus. Eppure è da questo deposito che, secondo le rigorose procedure di attivazione della scorta nazionale di antidoti aggiornate lo scorso luglio, va gestita ogni movimentazione di vaccini. 

Il caso
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Ma qui, in questa installazione immersa nella periferia romana, neppure l’onda del Covid ha saputo smuovere la lentezza e l’insolenza di una macchina statale che, anche quando riesce a comprendere le minacce, si dimostra incapace di concretizzare le risposte. Perché quando vent’anni fa l’epidemia di Sars e gli attacchi terroristici all’antrace hanno messo in guardia pure l’Italia sulla pericolosità dei batteri, il Magazzino centrale è stato subito promosso al rango di pilastro della difesa nazionale contro le epidemie.

Sono stati stanziati fiumi di denaro, spesi milioni in progetti, è stata persino creata una legge speciale ma l’unica cosa che si è concretizzata è la ristrutturazione assai precaria di un deposito d’epoca littoria: una superficie di soli 500 metri quadrati per ospitare le riserve strategiche di vaccini. Ogni piano si è infranto contro una realtà paradossale: l’intero complesso è una sorta di bomba chimica, con terreni così avvelenati da avere finora impedito ogni speranza di bonifica.  
La lettera del direttore sanitario che ordina il ricovero di mobili antichi in piena pandemia

Per rendersi conto di questa surreale storia italiana bisogna infilarsi in una stradina del quartiere tiburtino che si incurva dietro una caserma dell’Esercito. L’indirizzo ha un nome evocativo: via dei Carri Armati, in memoria della prima base dei mezzi corazzati nazionali creata nel 1918. Confina con uno dei bastioni costruiti dai Savoia a fine Ottocento per blindare la loro nuova Capitale, il forte Tiburtino, oggi in stato di abbandono. Dopo un’altra grande epidemia, quella della spagnola, nel 1922 il fascismo appena arrivato al potere decide di allestire qui una struttura d’avanguardia: un’enorme base per custodire le scorte di medicinali necessari per fronteggiare qualunque crisi sanitaria. Sorgono così otto grandi capannoni metallici, con altri edifici più piccoli per gli uffici, uniti da una rete idrica modello.

Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi razziano i materiali sanitari, ma l’arrivo degli Alleati provvede a riempirli di nuovo: merito degli aiuti donati dall’America, attraverso la celebre Unrra – United Nations Relief and Rehabilitation Administration – che fa attraversare l’Atlantico a tonnellate di prodotti mai visti prima. Non ci sono solo farmaci come la penicillina ma disinfettanti e antiparassitari per ripulire una nazione in macerie. Quali? Dalla lettura del “Notiziario dell’amministrazione sanitaria” del 1946 emergono topicidi, veleni a base di cianuro e soprattutto forniture di DDT, consegnato in quantità enormi perché l’obiettivo è sterminare le zanzare da malaria dalla pianura pontina con tanto di indicazioni di impiego in forma massiva: «Dentro case, stalle, cantine e solai una squadra di 4-5 operai ben addestrata e ben diretta, può trattare in un giorno la superficie di circa 8-10mila metri quadri». Il Paese ha fretta di ricostruire e nessuno può immaginare che il miracoloso DDT sia terribilmente cancerogeno.

Il deposito viene imbottito di sostanze micidiali. Che restano lì anche quando smettono di venire utilizzate o raggiungono la data di scadenza, trasformandosi da risorsa benefica in minaccia. Un problema che emerge con forza all’indomani del disastro di Seveso, quando l’Italia comincia a cambiare i piani di protezione ambientale. Nella legge finanziaria del 1989 il governo De Mita – richiamando un decreto di sette anni prima del presidente della Repubblica Sandro Pertini – pone la necessità di «portare avanti il programma di sollecito smaltimento di tutti i materiali, che essendo individuabili come rifiuti tossici o nocivi, possono essere fonte di pericolo». Stanzia così i fondi per liberare i depositi di via dei Carri Armati da quel carico di sostanze tossiche, ma la burocrazia nazionale ha altre priorità. E mentre non c’è traccia di risanamento, uno dei capannoni viene utilizzato come discarica dei documenti del ministero della Sanità: negli anni Novanta i ricercatori dell’Archivio di Stato vi scoprono – buttati a terra e in completo disordine – i faldoni delle direzioni amministrative e persino dell’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia. D’altronde le epidemie sembravano roba d’altri tempi, relegate nei libri di storia, e anche il concetto di scorta strategica appariva un reperto archeologico: il “Magazzino centrale del materiale profilattico” ormai era un dinosauro dimenticato da tutti, buono solo per inzeppare le scartoffie di troppo.
Il rendering del progetto del 2009, mai realizzato

Tra il 2001 e il 2002 l’antrace e la Sars, il primo coronavirus che ha anticipato l’incubo di oggi, costringono l’Italia a correre ai ripari. Dopo lunghi studi, nel 2005 il governo vara un grande piano di difesa batteriologica con tre perni: l’ospedale Spallanzani di Roma, il Sacco di Milano e proprio quei capannoni del quartiere tiburtino, che all’improvviso riemergono dall’oblio. Il decreto firmato dal premier Silvio Berlusconi rispolvera i fasti del passato e lo riabilita: va ricostruito da zero per farne il centro di stoccaggio tecnologico dove conservare gli antidoti contro ogni tipo di minaccia biologica di natura terroristica o pandemica. Il Magazzino centrale è ritenuto talmente importante che lo stesso anno l’allora ministro della Sanità Francesco Storace svincola il cantiere dal rispetto di ogni legge di natura ambientale e urbanistica. Di più: ci mette anche il segreto di Stato, perché è un’opera fondamentale per la sicurezza nazionale.

Tutto confermato nel 2007 dalla ministra prodiana Livia Turco che usa toni enfatici: «La ristrutturazione è di particolare importanza», «c’è l’esigenza di una celere realizzazione». Perché in realtà lì nulla è ancora cambiato, tant’è che il direttore del Centro nazionale per la prevenzione del ministero, Donato Greco, in Parlamento riferisce: «Sono vecchi capannoni… Nel magazzino non si riesce nemmeno ad entrare con facilità». Eppure ci hanno già messo 40 milioni di dosi tra farmaci e vaccini acquistati per l’influenza aviaria. Beni preziosi nel momento in cui le epidemie tornano a fare paura. E il dottor Greco spiega che per far fronte «al clima di assalto ai forni di manzoniana memoria, abbiamo dovuto istituire un servizio minimo di vigilanza».

Per trovare una soluzione definitiva entra in campo l’équipe Grandi opere della Protezione civile, quella di Guido Bertolaso, che nel 2008 finalmente fa partire i lavori gestiti con procedura straordinaria. Oltre 8 milioni stanziati per la realizzazione degli edifici dell’innovativo “centro antibatteriologico polifunzionale”, altri 3 milioni per gli impianti. Nel 2009 c’è la cerimonia solenne per la posa della prima pietra. L’allora sottosegretaria leghista alla Sanità Francesca Martini davanti a un rendering futuristico annuncia che avrà locali idonei alla conservazione di farmaci rari, sarà utilizzato per corsi di formazione, ci sarà anche un auditorium da 800 posti. «Una struttura chiave per l’Italia, in termini di risposta a minacce bioterroristiche e a possibili pandemie, che ci permetterà di giocare un ruolo in Europa», dichiara a favore di telecamera. Significativa la data dell’evento pubblico: avviene il primo aprile. E infatti si capisce che è stato uno scherzo. Perché non cambia niente. I progetti vengono affidati agli stessi professionisti coinvolti poi a vario titolo nelle inchieste sulla Cricca degli appalti. Ricordate? Il G8 della Maddalena, la ricostruzione dell’Abruzzo dopo il terremoto, altri cantieri di ospedali e basi militari militari per la Penisola: professionisti nell’incassare parcelle per disegni che restano incompiuti.
L'area prima della costruzione della nuova struttura

Il copione si ripete anche per il centro antibatteriologico. Arrivano le ruspe, spazzano via sette degli otto padiglioni e poi si fermano. Perché? Dal terreno spuntano fusti sospetti e basta poco per capire che tutto è profondamente inquinato, così intriso di veleno da non essere stato ancora risanato. Nell’estate 2019 la regione Lazio indica l’area come contaminata e non bonificata. L’Agenzia per la protezione ambientale vi ha rilevato «superamenti dei limiti normativi per diverse sostanze, tra cui fitofarmaci, mercurio, benzopirene, esacloroesano, berillio, arsenico e DDT fino a diversi ordini di grandezza». Siamo davanti a un paradosso da primato. La struttura che dovrebbe essere più asettica invece è imbevuta di sostanze letali, circondata da un campo immenso di rottami, con teloni che coprono materiali demoliti mai bonificati e vecchie tettoie piene di erbacce.

Eppure il “Magazzino centrale del materiale profilattico” continua a esistere. Viene chiamato in codice “SNA S 25”, mentre in altri documenti lo definiscono “sito 312/2”. Una grande quantità di acronimi e sigle da 007 per indicare un capannone di 500 metri quadri, col tetto macchiato dalla ruggine. Esaminando i contratti pubblici si fatica a considerarlo una struttura modello: le finestre sono state sostitute da poco perché cadenti e marce; le fogne si otturano perché fanno capo alla vecchia rete intasata dalle demolizioni, rendendo inutilizzabili i servizi igienici. Anche il gruppo elettrogeno che in caso di emergenza deve fornire la corrente ha dato dei problemi, tant’è che hanno dovuto fare riparazioni urgenti qualche mese fa.
E l'area dopo la demolizione dei sette padiglioni (con i terreni avvelenati)

Le stesse brochure, presentate dai dirigenti del ministero della Sanità per illustrare la rete di risposta alle epidemie, sono impietose nel confronto fotografico con quelli che sono i depositi centrali di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Là si vedono hangar pronti per il movimento con pallet, pavimenti tirati a lucido, tecnologie anti-intrusione; da noi vecchi schedari da fureria con dei cartoni e dei grossi numeri scritti accanto che distinguono i prodotti. Il 18 ad esempio sta per fisostigmina, un metodo un po’ brutale di archiviazione di farmaci preziosi e pericolosi come il siero anti-botulino o l’amile nitrito. L’igiene poi non sembra una priorità: il pavimento da contratto viene lavato una volta ogni tre mesi. Quanto all’impianto di condizionamento è del 1998 e spesso non parte: ha fatto le bizze nello scorso inverno e i funzionari del ministero hanno chiesto di sostituirlo prima dell’estate.

A leggere le sentenze della Corte dei Conti, quel deposito è il terminale di un apparato burocratico che fa a pugni con la realtà. Nel 2018 la magistratura contesta il sistema di gestione, mettendo in luce l’ennesimo paradosso: le procedure di gara sono tali che dal bando alla consegna i vaccini sono già scaduti. Mettendo a rischio la riserva nazionale di antidoti: «Si ritiene di dover evidenziare l’esigenza di una migliore programmazione degli acquisti, al fine di evitare l’assenza di scorte e di prevedere in sede contrattuale tempi di consegna e relative penali, nonché una validità residua per un arco temporale più ampio».

Ovviamente, tutti sanno che la struttura hi-tech non è mai stata realizzata, anche se nessuno pone il problema o cerca di accelerare i lavori. L’unico capannone rimasto attivo continua a mantenere il nome di “Magazzino centrale” ed è inserito in una rete che ne comprende complessivamente 14 nazionali e 20 regionali. Tra l’altro, è l’unico direttamente nelle mani del ministero: gli altri sono della sanità regionale o dei corpi militari.

Contattati telefonicamente, i responsabili del Magazzino non rilasciano dichiarazioni ufficiali ma confermano di gestire e conservare le scorte nazionali di antidoti. Il ministero della Sanità interpellato da l’ Espresso non ha rilasciato commenti sulle condizioni della struttura. Il problema è che l’impianto romano nella terra avvelenata resta ufficialmente l’unico riferimento del ministero per le emergenze sanitarie. Da Bolzano a Siracusa, qualunque Asl e ospedale abbia bisogno di antidoti deve contattare gli uffici di via dei Carri Armati. Sono in una palazzina di 320 metri quadrati affacciata sulla recinzione che isola l’area contaminata. Qui c’è anche un posto che sta molto a cuore al ministero della Sanità: un “deposito di mobili antichi in stile”. Suppellettili pregiate, tant’è che vengono ordinati lavori urgenti per mettere le grate alle finestre che le proteggono. Succede a giugno 2020, in piena pandemia.