Secondo gli esperti dopo il Covid-19 arriveranno altre infezioni letali. "Non si tratta di se, ma di quando". Il rapporto: "Serviranno investimenti enormi sulla prevenzione. I Paesi più ricchi dovrano autotassarsi per aiutare i più poveri". In Italia serviranno più terapie intensive: sono solo cinquemila da noi contro le 28mila in Germania

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Gli errori e le inefficienze evidenziate dall'emergenza Coronavirus sono sotto gli occhi di tutti. Dunque, cosa deve fare la comunità internazionale e le singole nazioni nel futuro prossimo per poter organizzare con successo una risposta efficace alle pandemie che verranno? Innanzitutto, serve una reale «volontà politica». Finora non c’è stata. Ma dopo lo tsunami del Covid-19 i governi potrebbero essere costretti (anche da una nuova consapevolezza dell’opinione pubblica sulla gravità della minaccia) a intervenire con politiche nuove e finalmente incisive.

Le risposte, spiegano i due rapporti, devono essere multisettoriali. Al netto di una nuova “governance” della globalizzazione e del contrasto al cambiamento climatico, è necessario investire non noccioline, ma miliardi di dollari. In prevenzione, in ricerca e sviluppo, in apparecchiature mediche. Ogni paese deve fare la sua parte, e i più ricchi devono autotassarsi - suggerisce la Banca Mondiale - per finanziare quelli più poveri: i virus non temono muri e confini, e se uno Stato vuole proteggere i suoi cittadini, deve essere certo che anche in zone lontane del mondo i focolai vengano subito individuati e spenti. Tom Frieden, ex direttore dei centri Usa per il controllo e la prevenzione delle malattie (i CdC), nei giorni scorsi ha suggerito di impegnare «per almeno un decennio un dollaro a testa per costruire sistemi di protezione delle epidemie in Asia e Africa» (circa 25 miliardi di dollari). Anche nel documento del Gpmb si evidenzia come per combattere le future epidemie «i capi di governo di ogni paese devono dare priorità» alle minacce pandemiche, e «dedicare risorge interne adeguate».


I soldi spesi in prevenzione servono non solo a salvare la vita a milioni di persone, ma a evitare contraccolpi economici al Pil mondiale: la Sars del 2003 è costata, secondo gli esperti chiamati dall’Oms e dalla Banca mondiale, ben 40 miliardi di dollari, i due ceppi dell’aviaria 45 miliardi, mentre Ebola - che continua a mietere vittime in Africa da un lustro - ad ora circa 53 miliardi. Nulla rispetto a quanto rischia di combinare l’onda anomala di Covid-19: gli studiosi di Oxford Economics hanno fatto una prima stima dei danni del coronavirus in caso si evolva (come sembra) da epidemia in pandemia: il contagio causerebbe perdite per oltre 1.000 miliardi di dollari. Una cifra, per intenderci, pari alla metà della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. E la Banca mondiale stima infine che un morbo influenzale simile alla scala e alla virulenza della spagnola del 1918, costerebbe all’economia moderna fino a 3.000 miliardi di dollari, il 4,8 per cento del prodotto interno lordo. Un crac che provocherebbe miseria e nuove vittime collaterali, soprattutto nei paesi del sud del globo.

Dopo il coronavirus, prevenire e contenere le epidemie deve dunque diventare priorità della politica. Il rapporto suggerisce come gli Stati membri del G7, del G20 e del G77 debbano rispettare i loro impegni, e accettare di far monitorare i loro progressi o le loro lacune. Da chi? Da un Oms con maggiori poteri, i cui dirigenti dovranno coordinarsi con una nuova figura: un coordinatore nazionale di “alto livello” scelto da ogni paese, che guidi le politiche antipandemia e che «conduca regolarmente simulazioni» sul campo.

Migliore organizzazione. Protocolli standardizzati che permettano a tutti di sapere come muoversi, senza tentennamenti e perdite di tempo. Lo studio prevedeva, di fatto, l’arrivo di un virus come il Covid. «Una pandemia di un agente respiratorio letale pone la necessità di una preparazione maggiore. I donatori e le istituzioni devono garantire investimenti adeguati nello sviluppo di vaccini e terapie innovative, nella capacità di produzione di antivirali ad ampio spettro e corretti interventi non farmaceutici». Inoltre, i tecnici sostengono sia necessario sviluppare presto un nuovo sistema per condividere immediatamente le sequenze genomiche dei nuovi virus, in modo da scoprire e poi distribuire vaccini con maggiore rapidità. Al di là delle fake news dei movimenti no-vax (che potrebbero uscire ridimensionati dopo lo choc da Covid-19) sui presunti business illeciti delle industrie farmaceutiche, i ricercatori del Global Preparedness Monitoring Board segnalano che le tecnologie utilizzate per la produzione di vaccini anti-influenzali sono rimaste praticamente identiche dagli anni ’60: «Perché sono costose e richiedono molto tempo. Per altri agenti patogeni respiratori, inoltre, sono stati fatti pochissimi progressi nella medicina». A causa di finanziamenti risibili e scarsi, una penuria dovuta al rapporto tra elevati costi di ricerca e una altrettanto elevata probabilità di insuccesso.

I governi, oltre a riservare poste in bilancio per fondi internazionali che possano agire in caso di emergenza, devono investire molte più risorse in attrezzature mediche e nei dispositivi per proteggere gli operatori sanitari. La sottovalutazione del rischio pandemico è sotto gli occhi di tutti: in un paese a reddito alto come il nostro, la Protezione civile fa difficoltà a trovare mascherine dopo solo qualche migliaio di contagiati, mentre in California i tamponi per i test sono risultati addirittura difettosi. In un paese di 60 milioni come l’Italia sarà inoltre impossibile rispondere con poco più di 5000 posti totali di terapia intensiva a un patogeno appena più pericoloso del coronavirus. In Germania, come segnala la Süddeutsche Zeitung, oggi ce ne sono circa 28 mila, quasi il sei volte tanto. Perché questo squilibrio?
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Al netto del ritornello sulla sanità italiana «migliore del mondo», i tagli imposti dalla spending review negli ultimi lustri, il blocco del turn over, la carenza di medici e infermieri hanno diminuito, come aveva previsto un altro articolo dell’Oms del 2016, la resistenza delle nostre società agli «urti, come epidemie e disastri naturali». Jim Campbell, esperto della gestione delle risorse umane in ambito sanitario, aveva già spiegato che invece di tagliare in ricerca e medici, bisognava fare il contrario, «tanto nelle economie ad alto reddito che in quelle emergenti: il mercato del lavoro della salute garantisce crescita economica e prosperità sociale».

Anche l’Unione europea rischia contraccolpi. Il vecchio continente, davanti al coronavirus, si è mostrato diviso, debole. Assai meno pronto alla risposta rispetto alla Cina, che pure aveva dato (grazie alla quarantena di Wuhan e del distretto di Hubei) un mese di tempo in più per organizzare le contromisure conseguenti. Tempo buttato: ogni membro s’è mosso per conto suo, persino nella gestione dei voli, e la Commissione è rimasta afona. Vero che l’Unione non ha (per ora) competenza sulla sanità dei paesi membri, ma lo stanziamento di appena 230 milioni di dollari contro l’emergenza sanitaria è fatto indicativo: gli Usa ne hanno messi 2,5 miliardi.

A vedere il bicchiere mezzo pieno, il coronavirus potrebbe essere una lezione per il mondo. «Al 2018» concludeva lo studio “Un mondo a rischio” «solo un terzo dei paesi ha le capacità chieste dal Regolamento Sanitario Internazionale (Rsi, entrato in vigore nel 2007 per contrastare le malattie infettive, ndr). La grande maggioranza dei sistemi sanitari non sarebbe in grado di gestire un grande afflusso di pazienti infettati da un agente patogeno respiratorio capace di una facile trasmissibilità e di un’elevata mortalità».

Sfortunatamente, gli scienziati ci hanno preso in pieno. Speriamo che dopo la fine della crisi drammatica generata dal Covid-19, vengano ascoltati di più. Dai decisori, e dall’opinione pubblica globale.