Si progettano nuove ferrovie ma non si prevedono nuovi treni. Si preparano nuovi ospedali ma mancano infermieri. E le regioni del Sud restano indietro. “Si stanno pompando un sacco di quattrini in un sistema inefficiente”

Nuovi ospedali, ma senza infermieri. Nuove linee ferroviarie, ma senza treni. Un fiume di soldi per finanziare corsi di formazione che, nella migliore delle ipotesi, non rispondono alle esigenze delle imprese. E le Regioni più fragili che rischiano di restare tagliate fuori dallo sviluppo portato dai 200 miliardi del Recovery Plan. Sulla carta il Piano di Ripresa e Resilienza, il Pnrr, viaggia speditissimo - e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che l’Italia ha raggiunto solo 13 dei 51 obiettivi da centrare entro fine anno per ottenere dall’Europa la seconda trance da 24,1 miliardi -, ma si rischia di lasciare intatti i veri problemi del Paese, limitandosi a spendere presto e male la valanga di quattrini europei.


Partiamo dalla prima missione, ovvero i 50 miliardi per la digitalizzazione del Paese, che passa anche dalla riforma della concorrenza, reclamata a gran voce da Bruxelles. L’obiettivo è a breve gittata, nel senso che nessuno intende scalfire gli interessi delle big tech, piuttosto si vorrebbe instillare una sana competizione in ambiti a gestione pubblica, come la concessione delle spiagge o la messa a gara degli spazi nei mercati rionali, che da sempre rappresentano un potente bacino elettorale per la politica. E ancora nella gestione di trasporti, acqua e nidi, al 93 per cento appaltati dai comuni ad aziende comunali, ovvero a se stessi, in palese conflitto d’interessi.

 

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La riforma doveva essere approvata a luglio, ma slitta di settimana in settimana perché nessuna forza politica intende metterci mano. «L’impegno del governo a promuovere la riforma è un buon segno. Ma, ai fatti, che ne è del rinnovo concorrenziale di tutte le concessioni balneari, per rompere le posizioni di rendita e aprire ai giovani con condizionalità sociali e ambientali? E dove sta, da noi, un’azione equivalente a quella intrapresa negli Usa da Biden per contrastare la concentrazione del controllo in tutti i campi, dal digitale alla grande distribuzione, ai mass media?», si domanda Fabrizio Barca, fondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità.


La scommessa più grande del Pnrr si gioca però su rivoluzione verde e transizione ecologica. Qui il governo ha puntato 70 miliardi, «senza tuttavia avere una strategia di lungo corso, ma limitandosi a una sommatoria di interventi che non partono da un’analisi dei bisogni del paese», afferma Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. Tesi confermata dal presidente dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, Asvis, Pierluigi Stefanini: «La crisi pandemica ha fatto arretrare il Paese su molti fronti. Solo tre goal su 17 segnano un miglioramento (energia pulita, lotta al cambiamento climatico, giustizia), tre sono stabili (contrasto alla fame, l’accesso all’acqua, innovazione), ma arretriamo sugli altri nove, fra cui povertà, sistema sanitario, istruzione, parità di genere, occupazione e disuguaglianza. Il quadro è segnato da parecchie ombre e il paese avrebbe bisogno di intensificare l’impegno e l’attenzione allo sviluppo sostenibile.

 

Al contrario il Governo ha dimenticato di aggiornare la Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile e non vi è alcun riferimento all’Agenda 2030 nel Pnrr». Ogni tre anni l’Italia dovrebbe presentare i propri progetti per arrivare a un pieno sviluppo sostenibile entro il 2030, così come fanno gli altri 192 paesi delle Nazioni Unite. Ma al momento non è stata presentata alcuna idea per aggiornare il Piano per l’energia e il clima, che serve ad abbattere il 55 per cento delle emissioni nocive e salvare le città, soffocate dall’inquinamento. «Nella legge di Bilancio c’è bisogno di una revisione progressiva della fiscalità che accompagni la transizione ecologica, favorendo scelte in grado di contribuire al raggiungimento degli obiettivi del green deal europeo», suggerisce Stefanini.

 

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Il punto più controverso è la terza missione, che intende investire 31 miliardi in nuove infrastrutture per una mobilità sostenibile. Per la prima volta il ministero, guidato da Enrico Giovannini, ha scelto di puntare sul ferro anziché sulle autostrade: «Ma avrebbe dovuto privilegiare le città anziché l’Alta Velocità», commenta Zanchini di Legambiente. I viaggiatori sui treni Av sono 170 mila, quelli su tram e metro sono sei milioni, eppure il piano prevede 270 chilometri di binari per l’alta velocità e 11 di metropolitane. All’appello mancano 150 chilometri di metro da realizzare nei prossimi otto anni per essere al passo con gli obiettivi di Agenda 2030. Ci sono dubbi anche sul potenziale utilizzo delle nuove reti ferroviarie: «Il piano prevede di sostituire il 5 per cento dei veicoli più inquinanti - con l’acquisto di 5mila autobus e 120 treni - ma nulla dice sull’approvvigionamento dei mezzi che viaggeranno sulle future linee. Questo perché esiste una legge in base alla quale solo treni privati possono muoversi su tratte a lunga percorrenza, ma le aziende non hanno interesse a investire su quelle linee. Ecco perché le nuove tratte dell’alta velocità rischiano di essere una cattedrale nel deserto», avverte Zanchini, che rilancia l’urgenza di avviare una riforma per sostenere una decisa politica industriale del paese: «Lo Stato deve poter finanziare l’acquisto di nuovi treni. Più in generale, serve una politica industriale per i territori e un sostegno alle aziende che rilevano imprese in difficoltà per creare distretti industriali utili a produrre i treni, gli autobus e gli scooter elettrici di cui abbiamo bisogno, ma anche gli impianti per l’energia rinnovabile e i motori a idrogeno, se questo è il futuro che immaginiamo per l’Italia».


La quarta missione investe sulla scuola, in particolare sugli asili nido. Oggi solo il 24 per cento dei bambini lo frequenta, con punte verso il basso del 2,1 per cento in Calabria, mentre l’Europa ci chiede di arrivare almeno al 33 per cento. Nel Pnrr ci sono 4,8 miliardi per realizzarne di nuovi. Andrea Morniroli, portavoce della rete EducAzioni, che raccoglie tutte le associazioni del mondo educativo, spiega che il progetto rischia di restare sterile: «Non si sta pensando alla formazione del personale utile alla gestione dei futuri asili e neppure alla creazione di un fondo per remunerare quei futuri lavoratori». Infatti il denaro del Pnrr servirà a sostenere la creazione di asili, ma non farà nulla per incentivare la domanda, che dovrà essere coperta con altre risorse, a partire dai voucher famigliari messi a disposizione dal ministero della Famiglia: «Nelle aree più disagiate, con ogni probabilità, le famiglie sfrutteranno il denaro dei voucher per le spese urgenti, ricorrendo alla rete famigliare per la cura dei bambini», spiega Morniroli. Si rischia di creare asili che resteranno deserti. «O forse si aumenterà ulteriormente il divario fra aree ricche e povere. Questo perché le aree più avanzate sapranno sfruttare i bandi per la realizzazione dei nidi, contribuendo ad aumentare la disuguaglianza territoriale», dice il portavoce di EducAzione, che fa notare come i nidi non rappresentino solo un mezzo indispensabile per sostenere l’occupazione femminile, ma siano anche il primo investimento per difendere i bambini da situazioni di disagio e privazione educativa e culturale. A tal proposito il Pnrr prevede di introdurre i Poli Educativi per la presa in carico di mamme in difficoltà con i loro figli tra zero e sei anni: «Ma non è dato sapere se ci stia lavorando il ministero della Famiglia o quello dell’Istruzione», aggiunge Morniroli.

 

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La confusione regna sovrana su molte riforme in atto e infatti nei giorni scorsi il premier Mario Draghi ha dato una scossa ai ministri e chiesto loro di far pervenire una relazione sull’avanzamento delle riforme e dei progetti da discutere in occasione della cabina di regia a Palazzo Chigi. Il che la dice lunga sull’assenza di un monitoraggio trasparente sull’avanzamento del Pnrr: «C’è un modo per ridurre drasticamente il cattivo uso delle risorse e permettere agli interventi di essere disegnati su misura delle aspirazioni delle persone nei luoghi: condividere con i cittadini, in formato aperto e comprensibile, tutte le informazioni su ogni fase del processo attuativo, non solo sugli esiti e a cose fatte. È l’impegno che l’Europa ha chiesto all’Italia e che resta, al momento, disatteso», commenta Fabrizio Barca.


Due le aree di intervento su cui insiste la quinta missione: l’attivazione al lavoro e il piano per la non autosufficienza. All’assistenza domiciliare per le persone fragili, l’83 per cento anziani, sono destinati 2,7 miliardi: «La sfida è costruire la riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti», spiega Cristiano Gori, professore di Politica Sociale all’Università di Trento e coordinatore del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza. Tuttavia la riforma è stata calendarizzata non prima del 2023: «Ma il ministero della Salute e quello del Lavoro e delle Politiche Sociali dovrebbero iniziare a dialogare già oggi per ricomporre la frammentazione di competenze che caratterizza l’attuale rete di assistenza agli anziani e la rende sconclusionata». Gori e la rete di cui fa parte hanno chiesto l’introduzione di un piano nazionale per iniziare fin da subito a definire come sfruttare i fondi del Pnrr per le cure domiciliari: «Non solo i ministeri, ma anche comuni e aziende sanitarie devono iniziare a dialogare per modificare il modello assistenziale e rispondere alle molteplici esigenze delle persone fragili. Infine servono 300 milioni in Legge di Bilancio per la domiciliarità sociale, da affiancare agli stanziamenti già previsti per le cure domiciliari sanitarie», ma per ora tutto tace.


Altri 4,7 miliardi serviranno per le politiche di attivazione al lavoro, senza tuttavia scalfire il dissennato modello dei centri per l’impiego, che restano a trazione regionale: «Manca una regia, mancano regole e indicazioni da fornire alle regioni, manca una struttura di governance e manca un sistema di monitoraggio per verificare i risultati e invertire la rotta qualora fosse necessario», commenta Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi. «Si stanno pompando un sacco di quattrini in un sistema che ha dimostrato di non funzionare. Il problema più grande è l’assenza di percorsi di formazione strutturati per rispondere alle esigenze delle imprese. Al contrario fioriscono corsi inutili, che non preparano alla sfida di un’industria avanzata, ma vengono comunque finanziati dalle Regioni perché non esistono corsi alternativi da sostenere. Sappiamo che si stanno creando una miriade di società unipersonali che si candideranno a ottenere la certificazione di enti formatori solo per intercettare il denaro del Pnrr, senza offrire ai disoccupati un’offerta formativa in linea con le esigenze del mercato del lavoro», avverte Del Conte.


La sesta e ultima missione è dedicata alla Salute, a cui sono destinati 15,63 miliardi di euro soprattutto per rendere il Servizio Sanitario Nazionale più digitale e moderno, radicato sul territorio e attento alle mutate esigenze di una popolazione che invecchia. «Sul fronte della pianificazione centrale tutto sta procedendo nel migliore dei modi. Il governo ha definito come allocare le risorse e destinare i finanziamenti ai singoli territori», commenta Francesco Longo, responsabile Scientifico del Cergas Bocconi, ente che monitora lo stato di salute del Ssn. La palla ora passa alle Regioni, che entro l’inizio del prossimo anno dovranno realizzare i piani su quali strutture finanziare, e in che misura. «Non tutte le Regioni sono dotate della capacità attuativa per spendere bene il denaro del Recovery. E il governo non sta pensando a un sistema di supporto per aiutarle nell’attuazione del piano», continua l’economista. Gli effetti del Recovery potranno essere positivi solo se i territori faranno i giusti investimenti: «Si rischia di accentuare la disuguaglianza sanitaria che già esiste fra Nord e Sud del Paese», avverte Longo. Il secondo problema è di tipo organizzativo. Con i soldi del Pnrr si creeranno 1350 presidi territoriali e 381 nuovi ospedali. Un gigantesco investimento edilizio che, se non sarà accompagnato dall’assunzione di almeno 33 mila infermieri, sarà totalmente inutile. «Il problema è che i nuovi ingaggi non potranno essere effettuati sfruttando i miliardi messi a disposizione dal Recovery Plan. Al contrario dovranno essere a carico del bilancio pubblico che (per il momento) non ha a disposizione il denaro necessario», spiega Longo. Ma per formare un infermiere ci vogliono almeno tre anni, per un medico decenni. E resta da capire chi andrà a lavorare negli ospedali finanziati dall’Europa.