Il movimento che aveva costruito il suo successo sul rifiuto del denaro pubblico, si è incartato sui soldi e ne ha sempre più bisogno per sopravvivere. Finita l’epoca delle foto di gruppo organizzate da Rocco Casalino con il maxi assegno da milioni di euro restituiti allo Stato - messi da parte grazie ai rendiconti e alle decurtazioni degli stipendi dei parlamentari eletti - da qualche anno a questa parte la gestione dei bilanci è diventata uno dei punti più delicati della vita dei 5 Stelle. E anche quello che scatena i malumori maggiori tra le fila dei suoi onorevoli.
Le entrate sono in calo ma adesso Giuseppe Conte, incoronato leader del Movimento post “Vaffa day”, ha bisogno di denaro per la sua creatura e per staccarsi dai ricatti di questo o quel gruppetto di parlamentari, alcuni dei quali hanno già iniziato a non restituire più un euro perché sanno bene che non saranno ricandidati o comunque non lo saranno in posizione utile per essere rieletti. Da qui la forte accelerazione per poter incassare il 2 per mille subito, mettendo in soffitta lo slogan «Non siamo un partito, non vogliamo soldi dei cittadini». I soldi ora li vogliono, perché i portavoce non vanno più in bicicletta ma spesso in auto blu, e perché adesso ci sono sedi da pagare, segreterie da sostenere e spese per eventi che non possono essere coperte chiedendo prima la giustificazione ai deputati o ai senatori. Ma soprattutto i fondi servono adesso, perché Conte punta al voto nel 2022 e vuole mani libere con portafoglio aperto.
Entrate in calo
Di certo c’è che il divorzio da Davide Casaleggio e dalla sua associazione Rousseau prima, e la nuova gestione di Giuseppe Conte poi, hanno completamente ridefinito i pilastri contabili e di immagine su cui si fondavano i 5 Stelle. Nell’ultimo anno i pentastellati hanno infatti ridotto i fondi che gli eletti “restituiscono” ad associazioni del terzo settore o al fondo statale per la microimprenditoria, che sono passati da duemila a millecinquecento euro a testa al mese. Allo stesso tempo hanno aumentato quelli destinati al partito, passati a mille euro al mese rispetto ai trecento del passato che finivano a Rousseau, e che ora si avvicinano e spesso superano le quote previste anche dalle altre formazioni politiche per i propri eletti.
Il cambiamento dei 5 Stelle ha portato nelle casse del partito una cifra di poco inferiore ai 3 milioni di euro in appena sette mesi, mentre si sono dimezzate le restituzioni a Ong e Stato, scese sotto la soglia dei due milioni di euro (negli ultimi sei mesi del 2020 erano state intorno ai 4 milioni). Ma insieme al flusso di risorse sono arrivati anche i mal di pancia di molti parlamentari che non hanno digerito la nuova gestione e la stanno combattendo con il più semplice degli ostruzionismi: non pagano la loro quota mensile al partito di Conte. È questo il motivo per cui nelle ultime settimane il tesoriere dei 5 Stelle Claudio Cominardi si è dovuto spendere più volte per sollecitare i colleghi a mettersi in pari con i bonifici: all’appello mancano infatti centinaia di migliaia di euro.
I malpancisti ritardatari
Lo scontro contabile è andato in scena tra le chat private del Movimento e le mail interne, sfociando anche sui giornali con tanto di “toto-nomi” sui malpancisti sospettati di non aver pagato la loro parte per intero. Elaborando i dati sui finanziamenti privati ai partiti, L’Espresso è in grado di indicare chi sono tutti i deputati e senatori non in regola con i pagamenti che stanno facendo penare Giuseppe Conte. E non mancano le sorprese.
Su 233 parlamentari tra Camera e Senato iscritti ai gruppi 5 Stelle (96 in meno rispetto al momento della proclamazione del 2018 a causa dei molti addii polemici), a fine ottobre sono 25 gli eletti a non aver mai versato neanche un euro al partito. Tanti, tra loro, sono esponenti al secondo mandato che con le regole attuali che si sono dati i pentastellati non potranno essere ricandidati. In questa lista ci sono i deputati Diego De Lorenzis, Daniele Del Grosso, Federica Dieni, Mattia Fantinati, Vittorio Ferraresi, Luca Frusone, Marta Grande, Giuseppe L’Abbate, Paolo Parentela, Emanuele Scagliusi, Patrizia Terzoni, Gianluca Vacca, Simone Valente e il senatore Pietro Lorefice.
A loro si aggiungono il nome pesante del sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano e quegli degli eletti al primo mandato Luciano Cadeddu, Vittoria Casa, Roberto Cataldi, Francesca Galizia, Marianna Iorio, Caterina Licatini, Generoso Maraia, Vita Martinciglio, Giuseppe Perconti, Angela Raffa, Francesco Sapia, Lucia Scanu, Enrica Segneri.
Tanti anche gli onorevoli in forte ritardo con i bonifici come l’ex ministra della Salute Giulia Grillo (ha versato solo duemila euro) e l’ex ministro delle politiche giovanili e dello sport Vincenzo Spadafora (solo 3.500 euro versati). Insieme a loro una ventina circa di altri ritardatari che hanno elargito meno di cinquemila euro a testa in questi mesi. Certo, alcuni di questi nomi potrebbero solo essere in ritardo ed aver sanato la loro posizione in questi giorni o essere pronti a farlo. Di sicuro però, hanno lanciato un segnale che i vertici del Movimento hanno dovuto recepire. Anche perché i loro versamenti sono assai lontani da quelli degli eletti più ligi, i cui bonifici oscillano tra i dodicimila e i ventimila euro: un gruppo di cui fanno parte, non a caso, big come Luigi Di Maio (oltre 12mila euro versati), Paola Taverna (oltre 16mila euro) e Vito Crimi (quasi ventimila euro).
Non mancano inoltre eletti nelle istituzioni che hanno dato anche cifre superiori come il deputato al primo mandato Giuseppe Chiazzese e quella al secondo Francesca Businarolo, donatori rispettivamente di 33mila e 29mila euro al partito. Ma ad aver versato oltre ventimila euro sono una trentina circa di eletti, per più della metà ancora al primo mandato. Una circostanza che è stata notata da molti parlamentari ed ha alimentato accuse e veleni sull’intenzione dei più “generosi” di comprarsi incarichi o una posizione più favorevole per conquistare la difficile ricandidatura alle prossime elezioni politiche.
Chi resterà fuori
Nelle stanze della Camera e del Senato i 5 Stelle stanno infatti già facendo i conti su quanti potrebbero essere gli eletti nella futura tornata elettorale. Sussurra un senatore al primo mandato e già entrato nelle grazie dei contiani: «Nel 2018 il Movimento ha raccolto il 33 per cento dei consensi eleggendo oltre trecento tra senatori e deputati. Sondaggi alla mano oggi, nella migliore delle ipotesi, non potrebbe mai superare il 20 percento dei consensi. Ma c’è di più: si sono ridotte di un terzo anche le poltrone disponibili a Montecitorio e a Palazzo Madama dopo il taglio dei parlamentari da noi voluto con forza. Pallottoliere alla mano, alle prossime politiche il Movimento non potrà eleggere più di 130-150 tra deputati e senatori. Se a questa cifra togliamo i posti blindati per i big che avranno sicuramente la deroga al secondo mandato, la soglia si riduce ancora per i peones e per chi sarà candidato per la prima volta. Questo è il motivo delle mancate restituzioni: chi oggi guadagna oltre 10mila euro tra indennità e diaria non li cederà più perché sa che questo è l’ultimo giro di giostra».
Il leader in cerca di autonomia
Ma Conte ha bisogno di soldi certi e di autonomia finanziaria. E ne ha bisogno subito: i suoi fedelissimi da giorni vanno bisbigliando la tentazione del leader di andare al voto dopo l’elezione del presidente della Repubblica, anche se non fosse Mario Draghi. Alla Camera, nei piani alti del Movimento, uno dei contiani della prima ora fa questo ragionamento: «Conte, come anche Enrico Letta nel Pd, non ha gruppi parlamentari a sua immagine e non riesce a imporre nemmeno un capogruppo, figuriamoci il voto su norme delicate e importanti. Andare al voto farebbe comunque pulizia e chiarezza e gli consentirebbe di poter avviare il percorso del nuovo Movimento in autonomia anche da Beppe Grillo, che nella fase di nascita dei 5 Stelle aveva fatto laute donazioni. Oggi Grillo non dà più un euro, i deputati e i senatori quasi ricattano i vertici sulle restituzioni se non ottengono nulla in cambio. A questo punto l’unica strada è avere autonomia finanziaria: che significa avere anche autonomia politica».
Autonomia finanziaria e politica, la nuova ossessione dell’avvocato del popolo che ha già fatto lievitare i costi di gestione del Movimento: da qualche mese è stata affittata un’ampia sede in via Campo Marzio, a due passi da Montecitorio. Sede che va arredata con annesse utenze per luce e telefono. In più ci sono i costi per le nuove iniziative già in programma: la costituzione dei comitati, una sorta di segreteria nazionale come tutti i partiti, e l’avvio dei corsi di formazione politica per gli eletti e soprattutto per chi vorrà da adesso in poi candidarsi con il Movimento anche a livello locale in Comuni e Regioni. Per queste iniziative servono soldi senza stare lì a fare le pulci ed evitando elenchi di scontrini da dover giustificare pure con l’ultimo dei deputati o dei senatori “pigia tasto”.
Sì ai fondi pubblici
Non a caso la caccia di Conte ai soldi è stata aperta anche su un altro fronte. Nelle stesse ore in cui si consumava la guerra contabile interna, gli attivisti 5 Stelle venivano infatti chiamati a votare per l’ingresso del Movimento nel sistema del 2 x mille, la quota dell’Irpef che i cittadini possono destinare a una formazione politica. Una risorsa per i partiti sempre più a corto di soldi che i pentastellati avevano sempre rifiutato e vale oggi in totale 19 milioni di euro l’anno. Alla fine dalla base è arrivato l’ok e anche i 5 Stelle potranno presto beneficiare di una cifra stimata tra i 2 e i 3 milioni di euro l’anno. Una somma che aiuta a dimenticare quando nel 2014 il blog di Beppe Grillo titolava: «I partiti vogliono i soldi del tuo 2 per mille, il M5S no».
Con la stessa votazione, il partito ha anche chiesto agli iscritti tra quali associazioni dividere i 4 milioni di euro frutto delle ultime restituzioni: tra queste, è stata indicata anche Medici senza Frontiere. La Ong ha però rifiutato la donazione per sottolineare la propria indipendenza dalla politica e non ha risparmiato una stoccata: «Dopo anni di criminalizzazione della solidarietà, auspichiamo che questa dimostrazione di vicinanza sia il segno di una nuova pagina», ha commentato Medici senza Frontiere, ricordando indirettamente la polemica sulle Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo e apostrofate da Luigi Di Maio come «taxi del mare». Per i 5 Stelle, e per Conte, i soldi comunque sono solo fonte di guai.