Dopo i ristoranti della capitale, la holding campana si butta sugli appalti ferroviari. Storia di una famiglia che si è riciclata grazie a protezioni eccellenti. E di un processo con un solo imputato che va avanti da 10 anni

Se di élite di camorra si può parlare, di certo i Moccia ne sono l’emblema. Una dinastia che ha le sue radici nella provincia nord di Napoli e che dagli anni ’80 esprime il livello più alto della criminalità mafiosa. Un numero imprecisato di omicidi, estorsioni, intimidazioni rappresentano un passato da cui oggi la famiglia di Afragola prende le distanze. Così dichiarano. Per la procura di Napoli, invece, quello dei Moccia resta un clan potentissimo che estende la sua influenza ben oltre il territorio di provenienza. Quella ferocia di allora del resto ai Moccia non serve più. Basta il nome e soprattutto l’enorme disponibilità di capitali liquidi che gli consente di fare affari in molteplici ambiti dell’economia. C’è un settore però particolarmente redditizio, nel quale i fratelli Moccia si mimetizzano meglio che altrove: gli appalti pubblici, che condizionano da anni a livello nazionale e sempre più alto. Il clan a base familiare è diretto dal nucleo ristretto dei fratelli Angelo, Luigi, Antonio, Teresa e suo marito Filippo Iazzetta, che si alternano alla guida ogni qual volta uno di loro sia impedito a farlo, perché latitante o in carcere.

 

Luigi Moccia, Gigino, ’o colletto bianco che fino allo scorso luglio si trovava al 41 bis per mafia, ora è tornato libero per decorrenza dei termini della custodia cautelare. Anche la sorella Teresa è stata scarcerata ed è fuori con l’obbligo di firma. Gli altri due fratelli, Antonio e Angelo invece erano liberi fino allo scorso aprile, quando sono stati arrestati nell’ambito di due diverse inchieste. Desta particolare curiosità il caso di Antonio Moccia, sul quale pende un altro verdetto da oltre dieci anni in un processo dove compare come unico imputato e con un solo capo di imputazione: camorra. Cento udienze per un solo imputato.

 

GLI AFFARI
I Moccia sono una delle più potenti organizzazioni criminali del panorama nazionale; il loro non è un semplice clan ma una confederazione camorristica di vastissime dimensioni, per numero di affiliati ed estensione del territorio controllato: Afragola, Casoria, Arzano, Caivano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore, Frattaminore e tutti i comuni della cinta nord di Napoli. E poi Roma.

 

 

 

La passione dei Moccia per la Capitale, dove Angelo e Luigi hanno spesso vissuto, quest’ultimo tra l’altro in un appartamento di proprietà della famiglia Inzaghi, combacia con la necessità di riciclare immensi capitali, attraverso l’acquisizione di ristoranti, alberghi, appartamenti in zone prestigiose e Ferrari, mediante intestazioni fittizie a persone totalmente assoggettate al clan come Guido Gargiulo, che - intercettato nell’ambito dell’inchiesta condotta dai Carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo - riferendosi ai ristoranti già sequestrati a Francesco Varsi, prestanome di Angelo Moccia, dice: «I ristoranti sono di Angelo Moccia. Tu lo sai chi è? Vedi che c’hanno un’organizzazione che per spaventarmi io… ti dico spaventosa! Non sai quanto!». La forza d’intimidazione del clan è tale che i nuovi gestori dei ristoranti sequestrati erano costretti a versare ad Angelo 300 mila euro, a fronte del suo benestare. «Pensa di gioca’ ma questi ti ammazzano», dice ancora Gargiulo riferendosi a Vittorio Dominici a cui il tribunale aveva appena affidato quattro ristoranti. I Dominici che all’inizio avevano raccontato ai Carabinieri di essere vittime di estorsione, hanno poi ritrattato tutto.

 

L’abilità imprenditoriale dei Moccia emerge con chiarezza nell’ultima inchiesta che li riguarda, Petrol-mafie Spa, condotta dallo Scico della Guardia di finanza con il Ros dei carabinieri, coordinati dalle procure di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria; un maxi-bliz che ha portato a 71 misure cautelari e al sequestro di quasi un miliardo di euro. Spicca la centralità dell’organizzazione che ruota intorno al più giovane dei fratelli Moccia, Antonio, elemento di vertice della cosca, che con l’aiuto di commercialisti e faccendieri, aveva messo in piedi una macchina per reinvestire denaro sporco e per moltiplicare i guadagni attraverso le frodi fiscali nel commercio del gasolio, venduto poi a prezzi troppo bassi per qualsiasi operatore onesto. L’egemonia dei Moccia nel business dei carburanti era tale da allarmare gli altri clan operanti nel settore, in particolare i Mazzarella che per mandare un segnale preciso ai rivali tentarono due agguati con colpi di pistola esplosi verso Alberto Coppola, braccio destro di Antonio Moccia. Ne derivò una pax mafiosa imposta da quest’ultimo attraverso la cessione di una quota dell’impianto di carburanti ai Mazzarella.

 

 

Luigi Moccia

 

Proprio l’affare del petrolio potrebbe essere tra i possibili moventi ipotizzati per un omicidio eccellente e ancora da capire, avvenuto ad Afragola nel 2017, nel cuore del feudo dei Moccia: quello di Salvatore Caputo, detto Usain, facoltoso imprenditore, molto vicino alla famiglia Moccia, attivo in diversi settori, tra cui proprio i carburanti. Il killer sceso da un furgone gli ha scaricato addosso un intero caricatore, lasciandolo in una pozza di sangue. Un’esecuzione esemplare, avvenuta nel territorio epicentro dei Moccia, un’offesa gravissima rimasta però, inaspettatamente, senza vendetta. A complicare il quadro (o forse a chiarirlo), sono le dichiarazione rese da un pentito, ex affiliato di peso del clan Moccia, Salvatore Scafuto, detto Tore a’ Carogna, che pochi mesi prima che Caputo fosse assassinato, dichiarò che fu proprio Anna Mazza, la potentissima vedova di Gennaro Moccia a chiedergli di ucciderlo: «Quando sono iniziate le pressioni dei Moccia …mi sono reso conto che l’unica via di uscita per me, non era quella di scappare, ma di collaborare con la giustizia. Dopo aver ucciso Caputo, avrei rischiato di morire anche io ovvero di imbrigliarmi ancora mani e piedi con i Moccia». Salvatore Caputo si sentiva autonomo? Non aveva restituito dei soldi transitati nelle sue mani? Oppure non aveva favorito l’ingresso dei Moccia nel business del gasolio? Solo ipotesi, tutte da accertare.

 

FIORI D’ARANCIO E TRENI
Fatto sta che Antonio, il fratello di Salvatore Caputo, quattro mesi dopo l’omicidio figura tra gli invitati al matrimonio di Lucia Moccia, la figlia che Angelo accompagna all’altare appena uscito dal carcere, nella Basilica di San Lorenzo in Lucina, accanto al Comando provinciale dei carabinieri. Molto interessante è scorrere la lista dei numerosi invitati, che hanno poi proseguito i festeggiamenti nella prestigiosa Villa Miani. Oltre ad alcuni affiliati, finiti poi in carcere per indagini che hanno riguardato la famiglia, come Maurizio Esposito e Pasquale Puzio, a festeggiare le nozze di Lucia Moccia con Giosafatte Laezza erano presenti molti imprenditori dell’area nord-est di Napoli, affidatari d’importanti appalti, come Giovanni Esposito, padre di Manlio e Angelo, proprietari della Kam Costruzioni con sede ad Afragola, che risulta nella lista degli operatori a cui Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha affidato appalti per una serie di attività, in un caso addirittura per 13 milioni. A ben vedere risultano altre ditte, vicino ai Moccia, che lavorano per Rfi, come ad esempio la Railway Enterprice srl, per una classe d’importo pari anche qui a 13 milioni, intestata a Concetta Credentino, moglie di Giuseppe De Luca (condannato in passato per mafia), cognato di Angelo Moccia e ai figli Antonio e Leonardo De Luca. Anni prima, Railway, in un complicato valzer di passaggi societari, aveva acquisito la Del Gap Costruzioni srl, già destinataria di un’interdittiva antimafia perché sussistevano tentativi d’infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata. La lista degli amici imprenditori dei Moccia che si sono aggiudicati un appalto pubblico da Rfi incredibilmente non finisce qui. Nell’elenco degli operatori che lavorano per l’azienda pubblica compare anche la Edil-Fer srl, di proprietà dei figli di Enrico Petrillo, Gennaro e Antonio e amministrata da sua sorella da Orsola Petrillo. Chi è Enrico Petrillo? Un imprenditore edile, che entra molti anni fa nell’orbita dei Moccia attraverso amicizie pericolose con cui era in affari: Giorgio Salierno e sua moglie Immacolata Capone, tramite di Michele Zagaria, al vertice del clan dei Casalesi. Salierno e la Capone verranno assassinati in due distinti agguati camorristici, Enrico Petriello invece resterà contiguo alla famiglia Moccia, tanto che, la Edil.Mer, la società di cui Petrillo era titolare, sarà poi colpita da due interdittive antimafia proprio perché ritenuta condizionata dal clan di Afragola. Anche la famiglia della moglie di Petrillo, Francesca Mormile appare molto vicina ai Moccia: suo fratello Luigi fu arrestato a Gaeta per favoreggiamento, sorpreso in barca con i latitanti Angelo e Antonio Moccia e sua sorella Giuseppa Mormile è la dama di compagnia di Teresa Moccia.

 

LA STORIA
Parte dagli anni ’70, il capostipite era Gennaro Moccia, benestante imprenditore agricolo e in possesso di un ingente patrimonio immobiliare. Considerato un “uomo di rispetto” secondo il linguaggio e la cultura di allora, ben altro probabilmente secondo le leggi in vigore oggi. Una sera Gennaro, trovato in possesso di un’arma detenuta illegalmente, fu arrestato dal maresciallo Gerardo d’Arminio. Il 5 gennaio del ’76, mentre il sottoufficiale era con suo figlio di quattro anni, Vincenzo Moccia, il figlio sedicenne di Gennaro, gli spara. Un tragico errore, dirà Vincenzo, arrestato. Il vero obiettivo riferisce sarebbe stato Luigi Giugliano, esponente del gruppo rivale dei Moccia ad Afragola, che dopo qualche mese risponderà, colpendo il bersaglio più grosso: il capo. Gennaro Moccia viene assassinato il 31 maggio del ’76. Da quel momento, sua moglie Anna Mazza (oggi deceduta) diventa la temutissima “vedova nera” e il sodalizio passa nelle sue mani e in quelle dei figli, che si vendicheranno uccidendo uno ad uno tutti quelli coinvolti nell’omicidio del padre. Una guerra che durerà trent’anni, una catena infinita di vendette e lutti. Nel ’78 il tredicenne Antonio Moccia uccide nel cortile del tribunale di Napoli un esponente dei Giugliano, dieci anni dopo Vincenzo Moccia, 28 anni, appena uscito di galera viene assassinato; dopo quattro giorni, Giuseppe Fusco, ritenuto il killer di Vincenzo, viene torturato e ucciso. Accanto al cadavere faranno trovare una croce di legno, un modo per far sapere che la faida non era finita. «Ammetto anche l’omicidio di Fusco Giuseppe», dirà in un interrogatorio Angelo Moccia. «Anche» quell’omicidio, dice, compiuto insieme a Michele Senese detto ’o Pazzo, che diventerà capo indiscusso della camorra romana. Un legame indissolubile, se ancora nel 2016 Senese, intercettato in un colloquio in carcere affida alla moglie un messaggio per Antonio Moccia: «Devi dire di non avere paura, quello sa morire»: nonostante la condanna definitiva, cioè, può contare sul silenzio di Michele ’o Pazzo. Ma rispetto a cos’altro ancora?

 

Il salto nella carriera criminale della famiglia di Afragola avviene con l’ingresso nella Nuova Famiglia, una confederazione di clan, fondata dai boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso per mettere fine all’espansione della Nco di Raffaele Cutolo. La potenza militare e le capacità strategiche dei Moccia emergeranno subito, così come la ferocia. «Quanti omicidi ha commesso come esecutore?», gli chiederà nel ’96 l’allora pm Giovanni Melillo. «Una ventina», dice Angelo Moccia. «E come mandante?», replica il pm. «Abbastanza», risponde Angelo.

 

I PROCESSI
Nel frattempo, l’altro fratello, Luigi si rende protagonista insieme al terrorista Cesare Battisti di una clamorosa evasione dal carcere di Frosinone dove entrambi erano reclusi. La conoscenza con il mondo delle organizzazioni terroristiche fa scattare la scintilla per quella che sarebbe stata la strategia difensiva adottata per primi dai Moccia: la “dissociazione”, lo strumento utilizzato durante gli anni di piombo dai terroristi per ottenere vantaggi processuali, senza svelare nulla. In quegli anni a Napoli, molti camorristi stavano terremotando il sistema criminale attraverso la scelta della collaborazione. Angelo Moccia, allora latitante, aveva accumulato troppi capi d’imputazione e soprattutto troppi omicidi. Il 3 febbraio del 1992, Angelo si consegna al carcere dell’Aquila e dopo un anno dichiarerà le sue intenzioni: ammettere le proprie responsabilità, senza però fornire alcuna collaborazione né sull’organizzazione di cui faceva parte né su altri, a meno che non fossero morti o collaboratori; «La mia non è omertà, mi creda, non me la sento di fare qualcosa che è fuori della mia coscienza», dirà. Una strategia unitaria quella della dissociazione scelta dal gruppo Moccia per evitare l’ergastolo e per arginare il fenomeno del pentitismo, depotenziando il peso dei collaboratori. Consegnare le armi allo Stato e riferire solo di fatti di sangue era un modo, inoltre, per conservare il potere criminale sul territorio e soprattutto per preservare gli affari. La battaglia dei Moccia verrà sostenuta da importanti esponenti ecclesiastici come il vescovo di Acerra don Antonio Riboldi che si fece ambasciatore presso le istituzioni per veder riconosciuta processualmente la dissociazione anche per i camorristi. Che quella di Angelo Moccia invece fosse una linea difensiva meramente strumentale è dimostrato dal comportamento del fratello Luigi che, mentre in pubblico sosteneva la politica della dissociazione, contemporaneamente cercava di convincere, in un modo o nell’altro, i collaboratori a retrocedere dalla decisione di pentirsi. Il progetto era quello di far fuori i pentiti Umberto Ammaturo, Mario Pepe e Pasquale Galasso, il più pericoloso di tutti, attraverso le informazioni che passava al clan l’ex maresciallo dei Carabinieri Giovanni Russo responsabile della sicurezza personale proprio di Galasso. Nel frattempo la “vedova nera” Anna Mazza, faceva minacciosamente arrivare al pentito Dario De Simone, tramite suo fratello Aldo, «i saluti» da parte del figlio Angelo Moccia. Dopo due mesi, Aldo muore, raggiunto da colpi sparati in faccia. Negli anni successivi alcuni pentiti faranno un passo indietro, altri invece come Rocco D’Angelo, Angelo Ferrara e Antonio Giustino saranno trovati morti in cella: suicidi, come si è detto. La procura di Napoli non ha mai creduto alla dissociazione dei Moccia, altri magistrati invece sì: nel 2015 Angelo ha pubblicato la sua autobiografia “Una mala vita”, scritta con Libero Mancuso, un magistrato che è stato anche presidente della corte di Assise di Bologna. La prefazione è firmata da Nicola Quatrano, altro magistrato poi diventato avvocato dei Moccia. La postfazione è scritta da Paolo Mancuso, un pm che si è occupato a lungo di camorra e anche dei Moccia. «Questi hanno soldi e potere politico inimmaginabile», diceva il sodale Gargiulo: «Non è camorra, questi stanno a livelli istituzionali, politici, con i tribunali».