Galeotto fu quell’annuncio su Facebook, ripetuto più volte. Diceva: «Cerchiamo ragazzi alti almeno 1 metro e 95, di 13, 14, 15 anni, da mandare in Europa per giocare a basket». In alto a sinistra c’era il nome della società sportiva, l’Apds di Bamako, Mali; in basso un numero di telefono da contattare. Fu così che la famiglia di Mamadou - che a 13 anni era già alto 2,05 – si fece coraggio e chiese un provino per lui, con la speranza di dargli un destino migliore, magari in America, in Nba, e comunque lontano da Kayes, la sua polverosa e misera città. Poco importava che al basket il ragazzo non avesse mai pensato, preferendo giocare a calcio, come portiere. C’era il nonno, alto 2 metri e dieci, a garanzia che Mamadou poteva rappresentare una miniera d’oro.
Fu così che nel giro di qualche mese, come nelle migliori favole, il più giovane di casa Diop si è ritrovato in Italia, catapultato in un mondo nuovo, quello dei nostri campionati giovanili di basket, in cui si fa sempre più incetta di giovani talenti, dell’Africa ma anche dell’Europa dell’Est. «Alti così nei nostri vivai si fa fatica a trovarne e se un ragazzino italiano di 14 anni si trova come avversario un gigante di questa stazza, beh, lo soffre di brutto», ci dice un allenatore che preferisce restare anonimo. «In più costano poco e rispetto a quelli che vengono dall’Europa dell’Est non creano problemi. Se sei bravo a formarli possono rappresentare un ottimo investimento», aggiunge poi a bassa voce.
Secondo gli ultimi dati della Federazione Italiana Pallacanestro (Fip) sono 389 gli atleti nati in paesi africani e con cittadinanza di un paese africano che giocano nei nostri campionati giovanili. Vengono soprattutto dal Senegal (136), Nigeria (51) e Mali (36). Secondo Giacomo Galanda, ex capitano della nostra nazionale e oggi consigliere federale della Fip, questo boom è positivo perché «in tempi di globalizzazione anche il basket dev’essere un movimento aperto a tutti». Poi però aggiunge: «Servono in ogni caso regole chiare, per evitare che gli interessi economici siano prevalenti. In parole povere va evitata la tratta. Lo so, è un termine forte, ma rende l’idea».
In concreto il rischio è che Mamadou e quelli come lui siano trattati come carne da canestro, da spremere fino all’ultima goccia, lucrando sui loro sogni. Perché, per uno di loro che riesce a realizzare il suo sogno, ce ne sono altri cento che finiscono per arrancare, soli e disadattati. Altro che favole. Mamadou, ad esempio, in poco più di due anni è già stato spostato come un pacco postale da una città all’altra per ben quattro volte – Vado Ligure, Fidenza, Bologna e ora Brescia – al solo scopo di accrescere il valore del suo cartellino. «L’ultimo suo passaggio è fruttato a chi lo possiede fra i 10 e 15mila euro. E più il ragazzo cresce, come atleta, più il suo prezzo sale», ci dice un dirigente sportivo.
Basta poco per capire che la favola di Mamadou fa acqua da tutte le parti. Tanto per cominciare non è chiaro chi si sia accollato le spese del suo trasferimento in Italia. «La sua famiglia, che è poverissima, ha venduto 4 delle 11 pecore che possedeva», ci racconta il suo tutore legale, Sibelius Zanardi, già coach della Accademy Basket Fidenza, a cui le favole piacciono. In verità il general manager dell’Apds, Ibrahim Coulibaly, a Tv7 prova a raccontarla diversamente: «Non è vero, sono i club a pagare le spese di viaggio e di soggiorno dei nostri ragazzi. Si occupano anche di dare un sostegno alle loro famiglie». Interpellato, il fratello di Mamadou, Abdu, prima tentenna e poi conferma che sì, la sua famiglia ha fatto grandi sacrifici per mandare Mamadou in Italia. «E la storia delle pecore è vera. Preferisco però non entrare nei dettagli».
Alla fine è Zanardi, messo alle strette, che racconta tutta la verità: «In questa storia è l’Apds che ha intascato due volte: dalla famiglia di Mamadou, che ha dovuto vendere le sue pecore, e dalla squadra italiana che l’ha voluto, che ha pagato a Coulibaly una provvigione di almeno 2000 euro».
Ma i dubbi non finiscono qui. Per ammissione dello stesso Coulibaly sono una quarantina i giovani talenti maliani che, come Mamadou, sono stati instradati finora verso l’Europa per giocare a basket, soprattutto in Italia. E 17 quelli che giocano attualmente nei nostri campionati giovanili. Quasi tutti, però, prima di sbarcare nel nostro Paese, sono passati dalla Spagna. Con un visto d’ingresso «per motivi di studio» che in realtà – scopriamo - era solo un pezzo di carta che serviva da lasciapassare per lo spazio Schengen, in modo da spalancare cioè a questi ragazzi le porte dell’Italia. Visti elargiti con troppa facilità? Quel che è certo, dai documenti acquisiti, è che questa rotta Mali - Spagna - Italia è una costante, che desta qualche sospetto. Lo stesso giorno infatti in cui mettono piede su terra spagnola – Mamadou alle Canarie, altri a Madrid – oppure al massimo una decina di giorni dopo, questi giovani atleti vengono fatti salire su un aereo con destinazione Italia. «È certamente un giro strano. C’è un uso distorto delle normative, che sono scritte nell’interesse del minore e che in questo caso vengono utilizzate ad altro scopo», commenta l’avvocato Stefano Molfino, esperto in diritto minorile.
Le stranezze non si fermano qui. Una volta giunti in Italia, questi minori vengono consegnati mani e piedi ai dirigenti delle società sportive per cui vanno a giocare, che ne diventano tutori legali oppure affidatari. E spesso a designarli, con una procedura inconsueta, sono i Tribunali ordinari. «Un doppio pasticcio: stupisce innanzitutto che ad esprimersi in diversi casi non sia stato il Tribunale dei minori, come esige invece la legge Zampa del 2017, quella che ha riordinato la normativa in fatto di accoglienza dei minori non accompagnati», spiega la professoressa Joelle Long, un’autorità nel campo dei diritti dei minori. E lascia interdetti, aggiunge, il fatto che vengano nominati come tutori o affidatari i dirigenti delle società sportive in cui giocano questi baby-cestisti. «C’è un evidente conflitto di interessi almeno potenziale, di cui un giudice non può non tener conto. La scelta mi pare inopportuna per il semplice fatto che un dirigente sportivo avrà interesse alle prestazioni atletiche del ragazzo, ma non è detto che si preoccupi davvero della sua formazione scolastica e del suo supremo interesse, come la vuole la legge».
Eppure, quasi tutti i giovani talenti del basket giunti in questi ultimi anni dal Mali grazie alla rete di contatti dell’Apds sono stati messi in regola e tesserati con queste modalità di accoglienza. Stando ai documenti è successo ad Isernia, a Lanciano, a Vado Ligure, ma anche a Udine, Padova e in altre città.
C’è dunque una sorta di sistema che sottovaluta la vulnerabilità oggettiva di questi minorenni e punta solo a farli crescere sul piano sportivo, in modo da far fruttare il capitale investito su di loro. È il caso di Ousmane Diop, senegalese, 2 metri e quattro centimetri, che oggi gioca in serie A. Intervistato da La Nuova ha raccontato che per una stagione, quando stava a Udine, ha giocato contemporaneamente in ben quattro campionati: under 18, under 20, serie C e serie A2. «Praticamente ero sempre sul parquet. E in sei anni non ho mai rivisto la mia famiglia». Altro che favole. Moussa, che ha 15 anni e gioca nelle giovanili di una grande squadra, racconta che prima di arrivare in Italia è transitato dalla Serbia, dove per quattro mesi non ha parlato con nessuno. «Lì nessuno parlava francese. Mi allenavo e basta. Niente scuola e niente corsi di lingua».
È questa la nuova frontiera del colonialismo, in salsa sportiva? «Ci sono tutte le caratteristiche per parlare di colonialismo sportivo e di saccheggio di risorse, vale a dire di muscle drain, drenaggio di muscoli», ci spiega Pippo Russo, sociologo dello sport. «Il sogno di questi ragazzi può essere tutelato solo facendoli crescere nei loro Paesi, evitando cioè che emigrino giovanissimi ed evitando poi che prevalgano nella loro formazione sportiva gli interessi economici esterni».
La Fip ribadisce che le regole di tesseramento prevedono tutta una serie di garanzie: sui tutor dei ragazzi, così come sulla loro formazione scolastica e sul perseguimento del loro «supremo interesse», come prevede la legge. «Poi però ci sono situazioni che sta agli organi competenti verificare, in primo luogo la regolarità dei permessi di soggiorno, che a noi non compete», ammette Giacomo Galanda. «Le regole a tutela dei minori ci sono eccome e la legge Zampa del 2017 ci ha fatto fare un bel passo avanti, riordinando la materia. Ma ci sono situazioni come queste, che rischiano di farci fare dei passi indietro», precisa Joelle Long.
Della nostalgia le leggi italiane in fatto di minori non parlano. Ma c’è anche quella se, a 13 o 14 anni, si è costretti a stare a lungo lontani da casa. Mamadou la combatte con il ferro da stiro: «È stata mia madre a insegnarmi ad usarlo. Quando sono triste o stanco mi metto a stirare le mie tute sportive e così penso a lei». «Parlo con mia madre tutti i giorni e lei mi dice di resistere, perché prima o poi riuscirò a sfondare e a realizzare il mio sogno. È dura, lo so, ma sento che posso farcela», racconta invece Moussa.
Mamadou, Moussa e gli altri prendono una sorta di paghetta. Un pocket-money che le società sportive mettono a loro disposizione per le piccole spese correnti, ma che i ragazzi in realtà finiscono molto spesso per spedire a casa, alle rispettive famiglie. Si tratta di un centinaio di euro al mese, o poco più, che però non sono pochi, se si considera ad esempio che a casa di Mamadou l’unico a guadagnare è il fratello, che lavora in dogana e guadagna 42 euro al mese. Mamadou quindi aiuta già da adesso la sua famiglia. Ma è abbastanza per dire che è felice? «Certamente no. Il sistema con cui vengono reclutati e poi accolti va messo in discussione. Assolutamente. E la valutazione, sul piano morale, non può che essere negativa», risponde Vera Tagliaferri, docente di diritto della famiglia all’università di Milano.
Amedeo Ricucci è un giornalista Rai. Il suo reportage è andato in onda venerdì 16 aprile a Tv7, il settimanale del Tg1, ed è ora disponibile su Rai Play