L’inchiesta
Covid, la catena delle colpe: per fermare la prima ondata l'Oms chiedeva aiuto a Giulio Gallera
La Procura di Bergamo ha sequestrato un'email inviata da Ginevra all'assessorato lombardo: la task-force contro la pandemia invece di fornire le linee guida, voleva ispirarsi al disastroso modello della Regione
Dal suo sito in inglese, l’Organizzazione mondiale della sanità ci rassicura attraverso i suoi quattro obblighi fondamentali. «Noi», dichiara l’istituzione diretta dall’ex ministro etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, «ci prepariamo alle emergenze identificando, mitigando e gestendo i rischi; preveniamo le emergenze e supportiamo lo sviluppo dei rimedi necessari durante le epidemie; rileviamo e rispondiamo alle emergenze sanitarie acute; sosteniamo la fornitura di servizi sanitari essenziali in ambienti fragili». All’inizio della pandemia provocata dal nuovo coronavirus, però, non è andata così. Cooperazione scientifica e protocolli operativi sono rimasti nei cassetti. Non soltanto in Cina, per volontà del regime comunista al potere. Anche in Europa, l’Oms ha mancato i suoi obiettivi. Ed è per questa ragione che la Procura di Bergamo, che da mesi indaga su uno dei focolai più letali al mondo, sta ora verificando l’attività dell’importante agenzia delle Nazioni Unite. Un’email del 6 marzo 2020 ha messo gli investigatori della Guardia di finanza su questa pista.
Finora gli accertamenti si erano fermati ai contatti tra Ranieri Guerra, vicedirettore generale dell’Oms per le iniziative strategiche, e il ministero della Salute. Guerra è per adesso l’unico dirigente formalmente sotto inchiesta. Il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, e il procuratore aggiunto, Maria Cristina Rota, lo hanno iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di false informazioni al pubblico ministero, in relazione alle sue dichiarazioni messe a verbale come testimone. E proprio partendo da lui, i magistrati hanno deciso di indagare su quanto è accaduto lungo tutta la catena gerarchica che porta sia a Copenaghen in Danimarca, dove ha sede l’ufficio per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità, sia a Ginevra, quartier generale dell’agenzia diretta da Tedros Ghebreyesus. Le prescrizioni dell’Oms sono infatti obbligatorie per i governi che vi aderiscono e in caso di ritardi o errori, gli effetti sulla popolazione possono essere catastrofici.
Esaminando i documenti sequestrati, gli investigatori bergamaschi sono rimasti sorpresi dalla singolarità di un’email della responsabile tecnica della task force e del centro dell’Oms per la prevenzione e il controllo delle infezioni. Il delicato incarico in quei mesi è ricoperto da una dipendente italiana specializzata in igiene e medicina tropicale, la professoressa Benedetta Allegranzi, che non è indagata. La sua richiesta via posta elettronica parte alle 13.59 del 6 marzo dell’anno scorso dalla stanza numero 4155 del quartier generale di avenue Appia 20 a Ginevra. Quel venerdì in Lombardia i morti sono centotrentacinque, ma l’incendio dei contagi sta ormai divampando ovunque. Destinatario dell’email è Luigi Cajazzo, direttore generale al Welfare della Regione lombarda, l’assessorato allora guidato da Giulio Gallera. Secondo quanto risulta dalle indagini, la professoressa Allegranzi spiega che l’Oms è fortemente interessata a acquisire informazioni sulle decisioni e i criteri scelti dallo staff di Cajazzo per far fronte all’emergenza e garantire i servizi essenziali. La responsabile tecnica rivela inoltre che l’Organizzazione mondiale della sanità vorrebbe imparare dall’esperienza della Lombardia e ispirarsi alle sue idee per preparare un documento ufficiale da indirizzare ai governi.
Evidentemente il 6 marzo nessuno a Ginevra è in grado di cogliere i clamorosi errori della strategia lombarda. A cominciare dal divieto di sottoporre a test tampone gli asintomatici, ordinato dalla Regione appena quattro giorni dopo l’email della professoressa Allegranzi, rinunciando così a contenere una delle principali vie di propagazione dell’infezione. Fino ad arrivare alla grottesca teoria dell’assessore Gallera sull’accoppiamento tra coronavirus, rivelata in diretta tv: «Per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette».
Il punto è proprio questo. A quale titolo l’Oms, nonostante i suoi doveri di indirizzo e di protezione della popolazione esposta alla pandemia, si fa ispirare da un ex poliziotto-avvocato, quale è Luigi Cajazzo, e dalle idee di un politico locale poi rimosso dall’incarico, come Giulio Gallera?
Questa prospettiva cambia perfino il significato del famoso rapporto firmato, tra gli altri, da Francesco Zambon, allora dipendente dell’ufficio Oms di Venezia. Il documento era stato pubblicato sul sito istituzionale al termine della prima ondata e subito rimosso. Secondo la corrispondenza poi sequestrata dalla Procura, Ranieri Guerra e la collega Cristiana Salvi chiedono a Zambon di addolcire le critiche nei confronti del governo italiano. Le loro note censurano anche la prefazione scritta dal direttore regionale per l’Europa, il belga Hans Henry Kluge. Lo scontro ormai frontale tra Guerra e Zambon nasconde però un importante dettaglio: il rapporto censurato boccia soltanto il governo di Roma, ma non affronta le fallimentari contromisure della stessa Oms che, invece di dettare la strategia contro l’epidemia in arrivo, cerca ispirazione addirittura tra gli smarriti manager della Regione Lombardia. Perché i funzionari europei che firmano l’analisi dell’Oms sull’Italia, oltre a Zambon, Wim Van Lerberghe, Leda Nemer e Lazar Nikolic, si fermano alla prima facciata del disastro e non guardano dentro i loro uffici?
Il direttore generale Tedros Ghebreyesus non sarà certo ricordato per la sua indipendenza dalle lusinghe della dittatura di Pechino. Ed è proprio questo il salto che l’inchiesta sta per compiere. L’obiettivo è stabilire quanto dell’ecatombe bergamasca sia attribuibile agli errori del governo di Giuseppe Conte, quanto alle decisioni della giunta lombarda di Attilio Fontana e quanto alla fallimentare risposta dell’Oms.
Varie testimonianze confermano infatti come, fin dal 21 gennaio 2020, l’allora governo italiano venga informato del pericolo imminente, dovuto essenzialmente a due circostanze: il massiccio flusso di turisti cinesi in Italia e le analogie della nuova infezione con la prima pandemia di Sars. La sindrome respiratoria acuta grave era già apparsa in Cina nel biennio 2002-2003 ed era stata contenuta grazie ai severi provvedimenti adottati dall’Organizzazione mondiale della sanità, allora guidata dalla direttrice norvegese Gro Harlem Brundtland e ispirata sul campo dal microbiologo marchigiano, Carlo Urbani, morto nel giro di pochi giorni per quella stessa infezione.
Come fa notare il legale delle famiglie delle vittime, l’avvocata Consuelo Locati, il ministro della Salute già il 30 gennaio 2020 è consapevole dei rischi che stanno per correre gli italiani e tutte le nazioni che, come l’Italia, continuano a mantenere strette relazioni con la Cina. «Il nuovo virus», dice quel giovedì Roberto Speranza nella sua informativa a Camera e Senato, «pur essendo per il momento classificato come di tipo B quanto a pericolosità (al pari di quelli della Sars, dell’Aids e della polio), viene gestito come se fosse appartenente alla classe A, la stessa del colera e della peste». E ancora: «Le informazioni attualmente disponibili suggeriscono che il virus possa causare sia una forma lieve, simil-influenzale, che una forma più grave di malattia. Una forma inizialmente lieve può progredire in una forma grave, soprattutto in persone con condizioni cliniche croniche preesistenti... Il nuovo coronavirus è strettamente correlato a quello della sindrome respiratoria acuta grave». Esattamente ciò che la dittatura di Pechino non vuole che si sappia, tanto da punire i medici di Wuhan che per primi avevano dato l’allarme.
Speranza, riferendo quanto gli esperti del ministero gli hanno preparato, dimostra così di conoscere perfettamente la pericolosità della nuova epidemia. Non solo, la sua fiducia nell’Organizzazione mondiale della sanità e nel suo dirigente italiano è totale: «Siamo in constante collegamento con l’Oms», rivela il ministro al Parlamento: «Alla riunione della nostra task-force del 27 gennaio scorso ha partecipato il vicedirettore generale Ranieri Guerra che ha dichiarato: “Tra i Paesi occidentali l’Italia è la più fornita e la più attenta”». Più fornita? Sicuramente non di mascherine, né di ventilatori polmonari. Passano soltanto ventiquattro ore e il 31 gennaio, quando il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza ancora oggi in vigore, dal provvedimento firmato dal premier Conte scompaiono le parole che potrebbero dare la giusta dimensione dell’allarme: Sars, agente patogeno di classe A, peste e flussi di passeggeri cinesi e italiani in arrivo dalla Cina. Lo stesso si ripete il 3 febbraio, quando l’allora capo dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli, con un’ordinanza di dodici pagine si attribuisce i poteri per operare, nomina il comitato tecnico scientifico e coinvolge i “soggetti privati”: cioè una costellazione di piccole società a responsabilità limitata che presto dimostreranno appunto i propri limiti, mentre al nord i malati cominciano a morire a grappoli.
Alla fine il Cts, istituito da Borrelli e guidato da Agostino Miozzo, un medico della Protezione civile con corso di perfezionamento in ginecologia conseguito all’Università di Harare in Zimbabwe, scalzerà nelle decisioni quanto Roberto Speranza aveva annunciato a Camera e Senato: «Il 22 gennaio 2020 presso l’ufficio di gabinetto del ministero della Salute è stata istituita e si è contestualmente riunita la task-force coronavirus, composta da rappresentanti del ministero, dei carabinieri dei Nas e dai rappresentanti dell’Istituto superiore di sanità, dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, dell’Agenzia italiana del farmaco, dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, dalla Protezione civile, da un rappresentante delle Regioni, degli Ordini dei medici e degli infermieri, delle società aeroportuali Sea e Adr e dallo Stato maggiore della difesa».
Un comitato tecnico scientifico quindi esisteva già. E non era quello di Miozzo. Cosa accade allora in quei giorni tra la Protezione civile, la Presidenza del consiglio, il ministero della Salute e l’Organizzazione mondiale della sanità, rappresentata proprio da Ranieri Guerra? Quali sono le pressioni sul governo italiano dell’ambasciatore cinese Li Junhua, che tra gennaio e febbraio 2020 incontra più volte sia il ministro Speranza, sia il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio? Perché i successivi decreti di Conte e Borrelli e le linee guida dell’Oms eliminano ogni riferimento alla prima epidemia cinese di Sars? Dopo aver dovuto inseguire per mesi il rapporto Zambon, la vera inchiesta a Bergamo comincia ora.
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