Giustizia e potere

I segreti di Piero Amara, il pentito spacca-procure che ha evitato due arresti

di Paolo Biondani   18 giugno 2021

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Un'indagine su tesori nascosti all'estero. E gravi accuse di calunnia contro i vertici dell'Eni. Ecco le inchieste che l’avvocato aggiusta-processi è riuscito a paralizzare. Presentandosi come super-testimone. Fino allo scontro tra pm sulla “lobby Ungheria”

Piero Amara, l’avvocato aggiusta-processi, negli ultimi tre anni è finito in carcere per tre volte. Con l’accusa-base di aver corrotto giudici e pm dalla Sicilia a Roma fino alla Puglia. Ora si scopre che ha rischiato altri due arresti. Li ha evitati, riuscendo a spaccare i magistrati-anticorruzione di Milano. Presentandosi come super-pentito alla stessa Procura che lo accusava di orchestrare false indagini, per accumulare soldi e potere. Un genio delle trame legali.


Fino al 2017 Amara è l’avvocato che risolve i problemi giudiziari dell’Eni in Sicilia, incassando parcelle da un milione all’anno per più di un decennio. Nel 2018 viene arrestato come grande corruttore di magistrati. Tre Procure (Messina, Roma e Milano) lo accusano di aver comprato un pm di Siracusa e diversi giudici del Consiglio di Stato, che vengono arrestati e condannati. Se ne parla poco, ma è il primo scandalo di sistema: investe l’organo di vertice della giustizia amministrativa, che ha il potere di modificare le nomine decise dal Csm. Amara confessa e patteggia una condanna a quattro anni e due mesi. Ma resta indagato per altre due accuse a Milano. E proprio qui annuncia di voler collaborare.


A partire dal 9 dicembre 2019, il grande corruttore racconta ai pm Laura Pedio e Paolo Storari, ancora uniti, che esisterebbe una lobby segreta, chiamata Ungheria dal nome di una piazza di ritrovo a Roma, che interferisce nei processi e nelle carriere giudiziarie. Dentro, a suo dire, c’è il gotha della giustizia italiana. Amara mette a verbale 74 nomi eccellenti, ma lui stesso avverte che non tutti erano associati, solo alcuni l’hanno usata per fini illeciti, altri furono strumentalizzati. Quelle dichiarazioni dividono i pm milanesi. Indagare tutti e subito? O cercare prima riscontri oggettivi? E quale reato ipotizzare? L’accusa di associazione segreta, prevista dalla legge Anselmi, era nata per contrastare logge massoniche deviate come la P2, che aveva liste di iscritti, tessere, ricevute di versamenti. Mentre Amara descrive una rete di potere informale, che si può ricostruire solo a parole. Le sue. Confermate da registrazioni private.


Nel febbraio 2020, quando Amara torna in carcere per scontare la pena, il suo collega (e complice) Giuseppe Calafiore fa l’agente provocatore: contatta i presunti associati e li registra di nascosto, per spingerli a confermare la lobby. Gli audio però, secondo due fonti che li hanno ascoltati, provano poco o nulla: parla quasi solo Calafiore. L’indagine intanto è ostacolata e rallentata dalla pandemia. E il primo scontro tra pm riguarda un’inchiesta diversa, ma collegata.


Pedio e Storari indagano su una società, Napag, nata negli anni Novanta come piccola ditta di ortofrutta a Reggio Calabria. Dopo il 2013 si è trasformata in azienda petrolifera, ha trasferito la sede a Roma, nello studio di Amara, e ha cominciato a fare grossi affari con l’Eni. E grazie a quell’accredito, con compagnie straniere. Fonti interne al colosso statale oggi precisano che la Napag avrebbe incassato «tra 70 e 100 milioni di euro solo dall’Eni», con «un margine del 25 per cento». Quindi i pm di Milano iscrivono Amara nel registro degli indagati con l’accusa di esserne «socio occulto».


I primi avvisi di garanzia partono a fine novembre 2019. Poco dopo il padrone della Napag, Francesco Mazzagatti, crea una nuova holding a Londra, registrata il 23 dicembre. Si chiama Viaro, è estranea alle indagini e ha molti soldi: nell’estate 2020 compra per 300 milioni una società petrolifera inglese, BlackRose Energy; poi acquista oleodotti e giacimenti dal gruppo Halo. I nuovi avvocati dell’Eni, intanto, denunciano la Napag a Milano. E il pm Storari scrive una richiesta d’arresto di Amara, che non convince la collega Pedio nè i vertici della procura. Mesi dopo, ne prepara un’altra, questa volta per calunnia. Neanche questa supera l’esame dei capi. Contro Storari si schiera l’aggiunto Fabio De Pasquale, appoggiato dal capo della Procura, Francesco Greco. È normale che i magistrati discutano e si dividano sui tempi o sulla gravità degli indizi. Ma è raro che si blocchino due arresti diversi per lo stesso indagato. A torto o a ragione, Storari si convince che Amara sia intoccabile per il suo legame con Vincenzo Armanna, l’ex manager che accusa l’Eni di aver concordato una maxi-corruzione in Nigeria.


Quel processo si chiude nel marzo scorso con un’assoluzione generale e mille polemiche. Il tribunale per la verità riconosce che l’Eni ha versato un miliardo e 92 milioni di dollari, nel 2011, su un conto del governo nigeriano, che però risulta totalmente svuotato: allo Stato (e al popolo) africano non è arrivato un soldo. Circa mezzo miliardo è finito a un ex ministro pregiudicato, Dan Etete, che si era auto-assegnato il giacimento durante la dittatura militare. Nel tentativo di provare la complicità dell’Eni, il pm Fabio De Pasquale aveva puntato molto su Armanna. Ora il magistrato è indagato a Brescia con l’accusa, da lui smentita, di non aver depositato prove favorevoli alle difese. Quelle trovate da Storari, con la sua indagine per calunnia. Che riguarda un coacervo di accuse e ritrattazioni di Armanna e Amara.


La premessa è l’interrogatorio del 30 luglio 2014 che coinvolge per la prima volta il numero uno dell’Eni, Claudio Descalzi, nello scandalo nigeriano. Una videoregistrazione privata, sequestrata all’imprenditore Ezio Bigotti, mostra che Armanna, due giorni prima, ha preannunciato ad Amara che i loro nemici interni all’Eni verranno colpiti da «avvisi di garanzia da Milano». Il video viene depositato in tribunale solo quando lo scopre un difensore.


Nel 2015 la trama si capovolge. Amara e Armanna orchestrano una falsa indagine, con il pm corrotto di Siracusa, per far saltare lo stesso processo Eni-Nigeria. Fallito l’obiettivo, tutti confessano il depistaggio, ma non rivelano il mandante, che i pm Pedio e Storari identificano nell’allora capo dell’ufficio legale dell’Eni, Massimo Mantovani, che nega, ma viene licenziato.


La terza manovra somiglia alla prima. Armanna, che nel 2016 aveva ritrattato le accuse a Descalzi, contro-ritratta. E sostiene che il mandante sarebbe un fedelissimo di Descalzi, Claudio Granata. A confermarlo è il solito Amara, che parla di un incontro a Roma riscontrato dai loro messaggi. Nell’autunno 2020, il pm Storari acquisisce i telefonini e conclude che è tutto falso: i messaggi sono manipolati e l’incontro non c’è stato, perché Granata era nel suo ufficio a Milano.

 

Armanna avrebbe anche cancellato una frase su 50 mila dollari destinati a un testimone nigeriano. I capi della Procura però congelano l’accusa di calunnia, contestando le modalità di acquisizione dei messaggi, da regolarizzare con una perizia (tuttora in corso). Il pm Storari non si fida più. E dopo l’ultima lite consegna i verbali segreti sulla lobby Ungheria a Piercamillo Davigo, che ne parla ai vertici del Csm. Secondo l’accusa, invece, bisognava fare un esposto formale.


Il caso scoppia quando due giornalisti denunciano di aver ricevuto pezzi dei verbali da una fonte, poi identificata con la segretaria di Davigo. Lei nega, ma non si fa interrogare. Di certo gestiva la posta del magistrato, aveva la sua password e ha copiato i verbali. Ed è una funzionaria del Csm con un profilo notevole: prima di Davigo, ha lavorato per altri capi-corrente, tra cui spicca Cosimo Ferri; convive con un ex giudice; e qualche anno fa frequentava anche Fabrizio Centofanti. Il presunto corruttore di Luca Palamara, l’ex magistrato (radiato) nemicissimo di Davigo e dei pm di Roma.


In attesa dei primi verdetti, va sottolineato che Mazzagatti e la Napag hanno sempre smentito le accuse (intentando anche una causa contro l’Espresso a Londra, senza successo). Amara nega di avere tesori nascosti, ma è tornato in cella con l’accusa di aver dimenticato di confessare la presunta corruzione del procuratore di Taranto. Mentre i nuovi avvocati dell’Eni accusano la procura di Milano di aver creduto ai calunniatori. E vedono nell’operazione Ungheria l’ennesima trama per salvare soldi e potere: un’arma di distrazione di massa. Ora tocca ai pm di Perugia il difficile compito di distinguere il vero dal falso nei verbali di Amara. E smascherare i suoi mandanti.