Centinaia di migliaia di assunzioni ma il criterio di selezione va a rilento e usa metodi troppo vecchi. Il rischio? Perdere l’occasione per modernizzare la burocrazia

I posti di lavoro ci sarebbero, ma ottenerli è ancora troppo complicato. E comunque non ne vale la pena: si chiedono lauree, master ed esperienze lavorative in cambio di 1.600 euro al mese. Economicamente parlando, a un giovane in gamba conviene ancora l’espatrio. Sono tante le storture del sistema di assunzione della Pubblica Amministrazione, che avrebbe bisogno di un ricambio generazionale importante e di personale competente, ma al contrario non riesce ad arruolare il personale giusto, neppure in tempi biblici: al flop estivo del concorso pubblico per 2.800 tecnici per il Sud, con ogni probabilità in settembre se ne sommeranno altri tre. Se le regole di ingaggio non cambieranno c’è il rischio di far saltare - o rinviare a data da destinarsi - tre selezioni che potrebbero offrire un totale di cinquemila posti di lavoro. Più in generale, il sistema di selezione, senza un deciso cambio di passo, potrebbe frenare l’intero Piano di Ripresa e Resilienza - che per decollare ha bisogno di 24mila professionisti a tempo determinato -, e sempre la mala gestione delle assunzioni azzopperà il grande progetto di assunzioni (da 350 a 500mila) indispensabile per svecchiare la macchina burocratica dello Stato. Per capire cosa non funziona è sufficiente ricostruire la storia dei tre concorsi sbloccati in queste settimane e che, almeno in teoria, dovrebbero concludersi in autunno.

 

Il primo bando è quello per la ricerca di 2.736 funzionari amministrativi della Pubblica Amministrazione centrale, annunciato il 30 giugno del 2020 dall’allora ministro Fabiana Dadone, ma le cui prove selettive non hanno mai visto la luce; il secondo concorso per 1.541 profili per l’Istituto Nazionale del Lavoro, l’Inail e il ministero del Lavoro, era stato autorizzato a dicembre del 2018, più volte stoppato e insabbiato; infine il bando per la selezione di 1.052 dipendenti del ministero della Cultura, che risale addirittura al 2017.
Il bando per funzionari amministrativi è quello che sta creando maggiore sconcerto fra i migliaia di aspiranti candidati che quotidianamente comunicano sul gruppo Facebook creato appositamente per affrontare insieme il concorso. In tredici mesi di decantazione le regole di ingaggio sono cambiate così tante che alcuni candidati scrivono: «Ma si tratta dello stesso concorso o di uno nuovo?».

L’estate scorsa l’ex ministra Dadone aveva assicurato principi e criteri innovativi per favorire un «ripensamento globale dell’organizzazione del lavoro pubblico». Al contrario, prima l’emergenza sanitaria, poi un periodo di fermo - nonostante le dichiarazioni del ministro Brunetta del 30 marzo di quest’anno, che annunciava lo sblocco dei concorsi - hanno fatto sì che il concorso slittasse di oltre un anno e tornasse ad avere le sembianze di un concorsone vecchio stile. Infatti alla riapertura del bando si è scoperto che la prova preselettiva verrà abolita e che l’unico test di verifica sarà un quiz da 40 domande in 60 minuti. Abolita anche la prova orale e i titoli verranno valutati solo per i candidati che raggiungeranno la sufficienza nella prova scritta. Secondo gli esperti si profila rischia un flop, perché l’iter è molto simile a quello avvenuto per la ricerca dei 2.800 tecnici per il Sud, dove un numero molto basso di candidati ha raggiunto la sufficienza nel test, al punto che solo poco più di 800 persone sono risultate idonee. Il risultato è che sarà necessario indire un nuovo bando e fare un altro concorso per assumere gli altri duemila tecnici, con un’enorme perdita di tempo e risorse.


Del resto, se i concorsi puntano ad assumere i migliori talenti in circolazione e le prove scritte sono effettivamente complesse, non è detto che i più brillanti su piazza vogliano candidarsi per quei posti di lavoro, soprattutto perché gli stipendi si aggirano fra i 1.450 e i 1.700 euro al mese, non proprio un salario allettante per professionisti ad elevata specializzazione. Inoltre, nonostante un lungo periodo di gestazione, i concorsi sono stati fatti in fretta e furia, affidando alla roulette di un quiz l’assunzione di personale fondamentale per garantire il funzionamento del sistema pubblico.
Biblici i tempi per l’assunzione dei 1.541 ispettori del Lavoro, attesi dal 2018 per arginare gli infortuni sul lavoro e il caporalato. Invece, anche in questo caso, si è perso tempo: l’autorizzazione risale alla legge finanziaria del 2019 e le domande sono state presentate a ottobre di quello stesso anno, ma poi tutto si è fermato fino a luglio di quest’anno. Due anni dopo la pubblicazione è riapparso il bando e, anche in questo caso, si è scelto di sopprimere la prova preselettiva e l’orale, affidando la selezione a un test scritto a risposta multipla: non si è mai vista un’azienda privata affidare l’assunzione del personale a un quiz scritto senza neppure scambiare quattro chiacchiere con il futuro dipendente. Invece nel pubblico questa è la norma, con il risultato di favorire chi ha buona memoria, scartando persone con buona capacità di problem solving e gestionale.
Per la selezione dei dipendenti del Mibact dall’emergere del fabbisogno sono trascorsi cinque anni e quattro governi: ci sono 210mila persone che hanno presentato domanda, ma ancora siamo a metà delle prove e nessuno è stato assunto. E per far cosa? Come accade in quasi tutti i bandi, non c’è alcuna descrizione del lavoro da svolgere, se non una sintetica indicazione «unità di personale non dirigenziale a tempo indeterminato, profilo professionale di Assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del ministero».


Tutto questo sta avvenendo nel momento in cui la Pubblica Amministrazione ha toccato il minimo storico di dipendenti, che attualmente sono 3.212.450, vale a dire 31mila persone in meno rispetto al 2019, provocato dall’innestarsi dell’emergenza sanitaria sulle procedure selettive che le amministrazioni più impoverite e invecchiate fossero riuscite a compensare le fisiologiche uscite del personale. L’impatto del combinato disposto dell’invecchiamento della Pubblica Amministrazione, del blocco dei concorsi e della spinta di quota 100 al pensionamento anticipato ha fatto crollare del sei per cento il volume di dipendenti nelle Prefetture, nei Ministeri, all’Agenzia delle Entrate, negli enti pubblici e nelle Città metropolitane. Anche i Comuni, che nel 2019 avevano ripreso ad assumere riuscendo a invertire la persistente riduzione del personale, tornano oggi a perdere oltre il due per cento della forza lavoro.


Questa «desertificazione della Pubblica Amministrazione», come l’ha definita il ministro Brunetta, si inserisce in un quadro già mortificante rispetto al resto d’Europa: allo stato attuale, in Italia, 13,5 lavoratori su 100 lavorano nel pubblico, sei persone in meno rispetto alla Francia dove gli impiegati pubblici sono poco meno di 20 su 100. Il valore più basso lo troviamo in Germania (10,8), non perché abbiano meno impiegati pubblici in termini assoluti (sono 4,8 milioni), ma perché hanno il tasso di disoccupazione più basso d’Europa. Infatti se in Italia ci sono 5,6 dipendenti pubblici ogni cento abitanti, in Germania sono 5,9, in Francia 8,7, in Inghilterra 7,8 e nella vicina Spagna 6,8.
C’è poi da considerare l’aumento vertiginoso degli over 60, che nelle nostre pubbliche amministrazioni rappresentano il 16,3 per cento del personale, mentre gli under 30 sono appena il 4,2 per cento, dovuto per lo più alla presenza nei corpi di Polizia e nelle forze armate. Sono oltre 500mila i dipendenti pubblici over 62enni e superano i 183mila quelli che hanno oltre 38 anni di anzianità.


Nelle pagine del Pnrr si legge che l’attesa di uscite dal pubblico impiego nel prossimo triennio si attesterà intorno alle 300mila unità, ma in base alle stime del Forum Pubblica Amministrazione con questa anagrafica del pubblico impiego si tratta di stime ottimistiche.


Non va meglio se si esamina il pubblico impiego dal punto di vista della qualificazione. I laureati sono il 41,5 per cento e, di questi, la laurea più comune è in Giurisprudenza (30%), seguono Economia, Scienze Politiche, Sociologia. Dunque, il candidato ideale della Pubblica Amministrazione ha un profilo generalista, esperto di procedimenti amministrativi e in grado di lavorare in un contesto burocratico, con processi lavorativi rigidi e un’organizzazione gerarchica. Inoltre la foto scattata dall’ultimo rapporto Aran, Agenzia per la rappresentanza negoziale pubbliche amministrazioni, mostra un’immagine della Pa con molti lavori a bassa qualifica professionale, lontanissimi dall’urgenza di innovazione tecnologica di cui la macchina burocratica statale avrebbe bisogno. Ad esempio, i due terzi dei posti nei ministeri richiede un diploma e consiste in un lavoro impiegatizio, il sei per cento richiede solo la scuola dell’obbligo. I posti che prevedono una laurea sono poco sopra il 30 per cento: pochi se si considera che nei ministeri dovrebbero avvenire le attività a più alto contenuto professionale. Nelle Regioni i posti per i laureati sono il 25 per cento, per i diplomati il 46 per cento, mentre il 29 per cento dei posti è per lavoratori manuali o esecutivi, per cui è richiesta appena la scuola dell’obbligo.


La Pubblica Amministrazione, dunque, non è solo impoverita numericamente, ma non possiede e non ha richiesto quelle professionalità che sarebbero necessarie per far fronte alle sfide della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica. È ancora il Forum Pubblica Amministrazione a stimare che almeno i due terzi degli oltre 300mila rimpiazzi dovrebbero avere in tasca una laurea in discipline Stem - Science, Technology, Engineering and Mathematics -, per riequilibrare una tenace maggioranza di profili giuridici. Al contrario i bandi continuano ad essere scritti su misura degli azzeccagarbugli, si punta quindi a stendere altro gesso su una burocrazia già parecchio ingessata.