Inchiesta
Scuola, il “merito” è un finto problema. Servono più risorse per evitare un’istruzione classista
Dispersione, divario di apprendimento, tagli ai budget di scuole e università: rettori, docenti e studenti chiedono interventi urgenti al governo Meloni, al di là di slogan dal sapore conservatore
Il problema non è la parola “merito”, ma i mancati investimenti. Il problema non è un nome aggiunto al ministero, ma la situazione difficile che vive tutto il mondo della scuola dopo anni di riforme e tagli per assunzioni e formazione. Occorrono finanziamenti e cambiamenti strutturali per migliorare la scuola italiana e rendere davvero attuale quella parola tanto cara al nuovo governo: “merito” appunto, una parola che è anche nella Costituzione ma che dovrebbe arrivare alla fine di un percorso che consente a tutti, ricchi e poveri, del Nord o del Sud, di poter accedere alla migliore istruzione. Dagli studenti ai dirigenti scolastici, dai docenti di periferia a quelli dei centri benestanti delle città, tutti chiedono in fondo la stessa cosa al nuovo governo guidato da Giorgia e Meloni e dalla destra: investimenti, riforme profonde, e pari opportunità per tutti i bambini e i ragazzi del Paese.
L’Espresso ha ascoltato diverse voci dal mondo della scuola e dell’università per capire quali sono le urgenze dell’istruzione in Italia che il governo dovrebbe affrontare. Il responsabile dell’Associazione presidi nazionale, Antonello Giannelli, ha pronto una sorta di dossier da inviare al neo ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sulle principali emergenze: «Abbiamo un problema grave che riguarda la dispersione scolastica ovvero il gran numero di alunni che escono dal sistema educativo, prima di conseguire un diploma. Un fenomeno di disagio giovanile al quale si aggiunge anche il problema di trovare lavoro. Poi c’è il tema dei divari di apprendimento nei vari territori. Invalsi ci fa vedere che l’efficienza del sistema educativo è molto differenziata non solo a livello geografico ma, a volte, anche nello stesso istituto scolastico. A questo si aggiunge il problema del basso livello di competenze dei nostri diplomati: cosa questa che, a cascata, si riflette sul prodotto interno lordo. Come affrontare questi problemi enormi? Innanzitutto con maggiori investimenti in personale docente, amministrativo e nell’edilizia scolastica. Riprenderei quindi proprio una frase della presidente del Consiglio Giorgia Meloni detta durante il discorso che ha tenuto alla Camera: l’Italia non è un Paese per giovani. Noi infatti investiamo nella spesa sanitaria, visto che siamo molto anziani, ma diminuiamo ogni anno il budget riservato all’istruzione».
Per i dirigenti scolastici la parola “merito” non è un problema: «Questa parola è presente nell’articolo 34 nella Costituzione, dove si dice che “i capaci e i meritevoli” devono arrivare ai livelli più alti dello studio e lo Stato deve favorire questa dinamica aiutando chi ha minori possibilità. Sarebbe quindi il caso di reintrodurre vere borse di studio, come avviene in diversi paesi anglosassoni, evitando sistemi elitari. Ma il concetto del merito va poi applicato anche al personale docente e a tutti gli attori che animano la scuola».
Ma poi è nelle classi che si vivono i problemi, altro che merito calato dall’alto. Secondo Piero De Luca, Preside dell'Istituto Comprensivo Sauro Errico Pascoli di Secondigliano, nella periferia di Napoli, «il problema sta nel capire cosa intendono col legare la parola merito all’istruzione»: «La scuola deve dare uguali opportunità a tutti, occupandosi, paradossalmente, proprio di chi potrebbe essere definito come meno meritevole. Parlare di merito fa pensare all’idea di riportare in auge una concezione conservatrice della scuola che ripete negli istituti le logiche classiste che ci sono in società. Invece la scuola, almeno secondo me, dovrebbe essere rivoluzionaria affinché venga rispettato l’articolo 3 della Costituzione secondo cui tutti “hanno pari dignità, senza distinzioni”. Credo che il merito nasconda dentro di sé un’idea dell’istruzione legata a voti, classifiche e graduatorie, tremenda. Come quella messa in atto con le prove Invalsi che hanno lo scopo di identificare scuole di serie A e B.
Come se non fosse già chiaro a tutti che i risultati migliori arrivano dalle aree di paese in cui il benessere è maggiore. Noi che lavoriamo in contesti deprivati dal punto di vista sociale e economico, sappiamo bene come accrescere l’idea di competizione qui significa far morire la scuola: perché crea frustrazione tra chi ha opportunità diverse e scatena disaffezione tra chi non vede già la scuola di buon occhio. La scuola dovrebbe educare non all’eccellenza ma alla cittadinanza». Da Secondigliano alle aule del centro di Milano, in fondo il punto di vista non cambia: «Come docenti abbiamo difficoltà nel valutare con dei numeri la preparazione degli studenti», dice Felice Moramarco, docente di storia e filosofia al Liceo Carlo Tenca. «La scuola degli ultimi anni ha cercato di avere più attenzione al benessere degli studenti. Le condizioni di partenza, il contesto familiare e sociale, oggi sono fattori di cui teniamo conto. Introdurre il concetto neoliberale del merito va nella direzione opposta. Rafforza l’idea falsa secondo cui una persona può farsi da sola. Non è vero, non esiste nessuno che è stato in grado di raggiungere il successo senza il supporto degli altri».
La parola merito comunque non piace non solo ai docenti, ma anche agli studenti: «Di che tipo di merito può farsi portavoce il nuovo ministro Valditara con un sistema scolastico che priva migliaia di studenti dall'accesso al diritto allo studio?» si chiede Daniele Agostini, responsabile scuola Fronte giovani comunisti: «Circa 100 mila persone ogni anno lasciano gli studi e tra le cause principali c’è l’aumento dei costi come il caro libri, trasporti e i contributi scolastici». Aggiunge Tommaso Biancuzzi, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi: «Il merito è un concetto che esclude senza criterio, che non considera il libero sviluppo delle personalità, che si basa sulla competizione sfrenata e non permette di crescere. La scuola che vogliamo è tutto il contrario. Vogliamo una scuola aperta».
Ma una riforma che ha già introdotto certi concetti di “merito”, legandoli anche ai finanziamenti da dare agli atenei e provocando fratture sempre più profonde, è quella dell’università. Non a caso qui la richiesta alla neo ministra Anna Maria Bernini è unanime: più finanziamenti agli atenei per consentire loro di competere, a Milano come a Palermo. Dice Antonella Polimeni, rettrice de La Sapienza di Roma: «Auspico che il governo tema attenzione ai finanziamenti al sistema di formazione e ricerca che negli ultimi anni hanno avuto seppur debole incremento e mi auguri che continui perché un Paese che non investe in formazione non investe sul capitale umano. Va respinto comunque con forza alla radice il tema degli atenei di serie A e B, garantendo accesso egualitario a tutti nei nostri atenei. Il dibattito sul merito è vuoto. Dobbiamo garantire invece il diritto allo studio, supportare gli studenti con attività di orientamento fin dalle medie e costruire ponti importanti tra università e mondo del lavoro».
Gli studenti universitari comunque vivono sulla loro pelle le riforme basate su “meriti” delle università fatte dagli ultimi governi, a partire dalla riforma Gelmini. Secondo Camilla Piredda, dell’Udu, l’Unione degli universitari, «performatività, competitività, individualismo sono stati i filoni che hanno guidato il trattamento dei giovani negli ultimi decenni e le due figure che oggi sono a capo dei ministeri di Istruzione e Università non fanno pensare ad alcun miglioramento. Come possiamo basare ogni scelta che concerne le nuove generazioni sul concetto di merito in un Paese con delle disuguaglianze socioeconomiche che non fanno altro che crescere?». «Il concetto di merito è presente da anni all’interno delle scuole e delle università e infatti ha indebolito il sistema di welfare e piegato il sapere alla certificazione dei crediti: è stato utilizzato anche in chiave ideologica per rafforzare l’idea che tra studenti debba vigere la competizione invece del confronto», spiega Antonio Corlianò dell’associazione studentesca universitaria Cambiare Rotta. «Il merito è stato utilizzato come strumento per smantellare alcune tutele: come la possibilità di accedere alle borse di studio, che sono sempre meno, o di alloggiare nelle residenze universitarie, sempre più in mano ai privati. Oppure come succede nei bandi per la ricerca e per l’accesso nelle università a numero chiuso che danno vita a un sistema di concorrenza sfrenata. La narrazione del “se te lo meriti ce la fai“ porta sempre meno persone a iscriversi all’università».