L’appello

In Italia la spesa per la scuola è bloccata da decenni. È questo l’investimento che serve al Paese

di Franco Lorenzoni e Andrea Morniroli   10 ottobre 2022

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Oggi il sistema dell’istruzione allarga le disuguaglianze invece di ridurle. Ma sviluppare competenze e conoscenze è vitale per il futuro di tutti, anche se la politica sembra non volerlo capire

In Italia ci sono 6 ricercatori ogni mille abitanti mentre la media europea è di 9. Un terzo di meno è una cifra impressionante. Vuol dire che in tempo di crisi ecologica, economica, sanitaria e sociale, aggravata dalla presenza di una guerra di cui non si vede la fine nel cuore dell’Europa, il nostro Paese non ha ancora compreso che lo sviluppo di conoscenze e competenze capaci di aprire nuove strade è essenziale, perché non c’è conversione ecologica né credibile contrasto alle disuguaglianze senza una più ampia diffusione di consapevolezza e saperi da possedere a ogni età e in ogni strato sociale.

La spesa per l’istruzione è ferma da decenni e non riesce a crescere fino al 5% del Pil, come giustamente pretende la rete di reti “educAzioni”.

E allora serve un vero e proprio ribaltamento politico e culturale nel modo in cui si affronta la questione educativa: gli investimenti in istruzione sono infatti indispensabili al rinnovamento del Paese perché ne sono presupposto. Sono infatti le disuguaglianze nell’accesso alle opportunità educative ad orientare molte dimensioni della vita fin dalla primissima infanzia, e il mancato accesso a una istruzione di qualità per tutte e tutti amplia e cronicizza le disuguaglianze.

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I numeri della povertà educativa ci dicono che l’aver messo il sistema educativo in secondo piano ha avuto conseguenze negative non solo dal punto di vista della qualità culturale del Paese, ma anche della nostra economia, avvilendo le capacità di crescita e, soprattutto, ostacolando la ricerca di modelli alternativi meno distruttivi, non più rinviabili.

A 50 anni dalla denuncia dei ragazzi di Barbiana a disperdersi o a scivolare in percorsi scolastici non qualificanti sono ancora le figlie e i figli dei poveri, insieme ai ragazzi e alle ragazze più fragili o con background migratorio. In questo modo la scuola rischia di perdere il suo ruolo costituzionale di argine alla discriminazione, nonostante l’impegno di tante e tanti di farne un luogo di incontro interculturale capace di contrastare ogni forma di razzismo.

Le disparità geografiche nel tempo della pandemia sono ulteriormente cresciute perché nel Sud l’abbandono scolastico è tra il 15% e il 22% mentre nel Centro-Nord è circa dell’11%.

Da almeno un trentennio la scuola, degradata da processi di disinvestimento politico e culturale ancor prima che economico, ha smesso di essere ascensore sociale, finendo col certificare le disuguaglianze e determinare una sorta di profezia che si auto-avvera, perché nella scelta del tipo di scuole superiori da frequentare sono evidenti i connotati di classe, aggravati dall’indecente presenza, in troppi Istituti, di sezioni ghetto dove sono ulteriormente confinati i più deboli e fragili, la cui sorte sembra segnata fin dalla prima adolescenza.

Che fare, allora? Innanzitutto, va aumentata la spesa pubblica in istruzione perché quella italiana è tra le più basse d’Europa, investendo sulla qualità della formazione iniziale e in servizio del corpo docente, ben oltre le piccole modifiche introdotte dall’ultimo governo, assai criticabili e del tutto inadeguate. Non rinnovare un contratto di lavoro scaduto da anni mantenendo bassi salari, tollerare la presenza di un numero abnorme di precari e affidare il sostegno a insegnanti non qualificati per questo delicato compito sono segni tangibili della sottovalutazione dei problemi. C’è poi l’ingiustizia profonda che caratterizza la durata oraria della scuola di base, che vede il tempo pieno largamente presente nel Nord e quasi del tutto assente al Sud, condannando bambine e bambini meridionali a frequentare di fatto il corrispettivo di un anno in meno di scuola in territori dove spesso l’offerta culturale è già povera.

Vanno potenziati e diffusi in tutto il Paese, come ci chiede l’Europa e come si è iniziato a fare con il Pnrr, seppure con forti limiti, i servizi 0-6 con politiche che sostengano la costruzione di nidi, rendano obbligatoria e gratuita la scuola per l’infanzia e portino a una maggiore diffusione del tempo pieno dai 3 ai 14 anni, utilizzando al meglio il personale, che non va diminuito nonostante la crescente denatalità.

Un altro intervento prioritario riguarda l’edilizia. È difficile infatti per una ragazza o ragazzo pensare che il mondo adulto creda all’importanza dello studiare se l’edificio della scuola che frequenta è brutto e degradato. Ci sono buone linee guida per la costruzione di scuole innovative, ma ancora non si è messo mano alla legge sull’edilizia scolastica che risale incredibilmente ancora al 1975. E invece la costruzione o ristrutturazione delle scuole perché siano sicure, belle, accessibili a tutti e sostenibili, potrebbe costituire incentivo ed esempio per una più vasta rigenerazione urbana, che potrebbe vedere coinvolti attivamente studentesse e studenti.

È necessario inoltre trasformare i patti educativi di comunità in politica ordinaria di contrasto alla povertà educativa, facendo tesoro delle migliori esperienze in cui le scuole, in contesti difficili, sono state al centro di innovazioni che hanno coinvolto i comuni e diversi soggetti dell’impegno civico e del privato sociale, reagendo alla crisi educativa aggravata dall’emergenza sanitaria. Sperimentare il duplice intreccio tra scuola e territorio e tra educazione curriculare ed extra-curriculare si è visto che in molti casi ha aperto a nuove pratiche capaci di affrontare il crescere delle fragilità, migliorando la scuola di tutti.

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Insomma, l’educazione delle nuove generazioni, a partire dalla prima infanzia, deve tornare a essere obiettivo e investimento strategico delle politiche perché la scuola pubblica torni ad essere il principale presidio di cittadinanza della nostra Repubblica.

Gli ultimi governi di destra non lo hanno fatto ed è bene non dimenticare la sottrazione di 8 miliardi da parte del duo Tremonti-Gelmini, che penalizzò gravemente la scuola di base.

Il rischio concreto è che si vada verso una scuola che accresca i divari invece di colmarli e che la corsa verso l’autonomia differenziata, aggravi ulteriormente le disuguaglianze tra Nord e Sud in un tempo in cui ogni scelta lungimirante chiede, per ogni territorio del nostro Paese, più formazione, più scienza e più cultura per affrontare i nodi di una crisi che pretende innovazioni radicali.

Al nuovo Governo va dunque chiesto un ribaltamento di priorità a partire da un uso sensato e non irrazionale dei fondi del Pnrr, visto che le risorse europee non sono un regalo, ma un debito che stiamo ulteriormente mettendo sulle spalle di figli e nipoti, altrimenti l’Italia non sarà solo uno dei paesi più vecchi al mondo, ma anche uno dei più egoisti.

Franco Lorenzoni è Maestro elementare

Andrea Morniroli è Co-coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità