I dati del Viminale registrano una triplicazione degli episodi segnalati dai media. E l’allarme di magistrati e inquirenti conferma il problema: «Nel dopo pandemia molti più atti violenti, ma spesso si tratta di gruppi fluidi e non di gruppi criminali rigidi»

La morte di Cristian Martinelli a Casale Monferrato per un insulto e un paio di occhiali. Il centro commerciale di Marino preso di mira ogni fine settimana tanto da costringere i proprietari a vietare l’ingresso ai minori non accompagnati. A Roma il quattordicenne della scuola Armellini che si presenta in classe con una pistola a palline e la punta al compagno che lo infastidiva. E poi l’ennesima faida milanese legata a cantati trap con sparatoria nella centralissima corso Como e, ancora, la banda di giovanissimi che in centro a Palermo seminava il terrore la sera come atti di pura violenza.

 

Sono scene di un’Italia che ogni giorno si sveglia con una notizia di cronaca su minorenni violenti con il seguito di aggressioni, rapine e piccoli reati. Eventi tutti classificati sotto la definizione di “baby gang”. Secondo uno studio dell’Università Cattolica nei primi mesi dell’anno sono apparsi quasi duemila articoli su violenze legate a baby gang, in tutto il 2017 erano stati solo 217. Cosa sta accadendo in Italia allora? È solo una maggiore attenzione mediatica a certi fenomeni oppure davvero alcuni reati sono in aumento? E, soprattutto, sono tutte baby gang o il problema della violenza minorile recente è qualcosa di può profondo e difficilmente catalogabile?

 

Negli ultimi mesi sono apparse su moltissimi giornali le “mappe” delle baby gang. Gruppi criminali censiti, che hanno spesso una organizzazione e un capo, una sigla e dei riferimenti culturali ben precisi: a Milano a esempio ci sono i Ripamonti M5 ai giardini di via Fra Pampuri, il gruppo Z4 di corso Lodi, la K.O del quartiere Adriano, la gang Duomo alle Colonne di San Lorenzo e poi un’altra mezza dozzina di bande giovanili da Corvetto a Bicocca. A Palermo c’è la gang di via Maqueda, composta in gran parte da figli di immigrati della comunità Tamil, e gruppetti che si rifanno ai loro quartieri, dallo Zen al Cep; a Roma c’è la Anundo gang’s La18 o La17, protagonisti anche di aggressioni a disabili o di revenge porn nei confronti di coetanee minorenni. E poi i latinos in Lombardia, i magrebini a Torino. A Padova sono state identificate alcune gang che ripetutamente organizzavano risse tra loro con tanto di appuntamento con orari e indirizzi definiti. Sono tutti gruppi censiti, questi, e noti alle forze dell’ordine e agli investigatori. Ma davvero il fenomeno che raccontano ogni giorno le cronache è legato a questa tipologia di gruppi? Ascoltando chi vive “la strada” la risposta è no, non tutto è assimilabile alla frase “baby gang”.

Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità commentando i dati dell’osservatorio Transcrime-Università Cattolica è chiara: «Crescono i reati di gruppo, ma ciò che ha segnato una differenza e un’evoluzione nell’ultimo decennio, rispetto ai reati commessi dagli adolescenti - sia da soli e sia in gruppo - è il carattere di crescente efferatezza, violenza gratuita ed apparente insensatezza di alcune condotte, riconducibili spesso a gruppi agglomerati in maniera fortuita e contingente». Il rapporto, presentato qualche settimana fa, analizzando i dati delle forze dell’ordine e delle procure registra «come le gang giovanili siano presenti nella maggior parte delle regioni italiane e la loro presenza sia indicata come in aumento in diverse aree del paese… I crimini più spesso attribuiti alle gang giovanili sono reati violenti (come risse, percosse e lesioni), atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici». Secondo i dati dei carabinieri, in un sondaggio svolto tra i comandi provinciali, il 47 per cento dei reati che hanno a che fare con bullismo sono commessi da gruppi di minori, e lo stesso vale per il 65 per cento di reati per «risse, percosse e lesioni» e per il 56 per cento per reati che hanno a che fare con il disturbo della quiete pubblica.

 

Ed è questo un elemento chiave e nuovo rispetto al passato. Come spiega il prefetto Francesco Messina direttore centrale anticrimine della Polizia: «Dobbiamo stare molto attenti alla terminologia e ad analizzare quello che stiamo registrando nei mesi del dopo pandemia. Quando facevo il capo della squadra mobile a Milano, intorno ai primi anni Duemila, per la prima volta ci siamo trovati di fronte il fenomeno delle “pandillas”, legato all’immigrazione dal Sud America: lì avevamo una struttura criminale con capi e riti di affiliazione. E questo fenomeno si è poi esteso anche al resto del Paese. Ma oggi riscontriamo anche un altro fenomeno, parallelo a quello delle baby gang che conosciamo: quello della devianza minorile, aggravata dal post pandemia che ha visto i nostri ragazzi per due anni chiusi a casa senza frequentare la scuola se non in modo virtuale. In questi due anni i ragazzi hanno accumulato stress e una volta tornati a un contesto “normale” vediamo che spesso non sanno gestire le emozioni o alcune situazioni in momenti di aggregazione. Attenzione, questo malessere non ha nulla a che fare con lo status sociale delle famiglie di provenienza. È molto più trasversale e spesso lo si lega, anche qui sbagliando, a semplice violenza e malamovida. Ma non è questo il tema, quello che stiamo vedendo è più profondo: sono aumentate le risse, è aumentato il consumo di alcol e droghe. Su questo abbiamo dati evidenti: prima della pandemia questi fenomeni c’erano ma non erano così appariscenti». Secondo il prefetto Messina di fronte a questo fenomeno nuovo la risposta è stata quella di vedere il tutto come un problema di polizia e ordine pubblico: «Un approccio sbagliato. Qui dobbiamo affrontare il problema non più come una questione di polizia e di repressione: siamo di fronte a contesti fluidi, dove non c’è un programma criminale. C’è un problema nelle agenzie sociali».

Il procuratore del tribunale dei minori di Milano, Ciro Cascone, da tempo chiede maggiore attenzione su quello che si sta muovendo nel sottosuolo del mondo giovanile: «Voglio essere chiaro, anche io ho cavalcato nei primi anni Duemila il modello “baby gang”, ma l’ho fatto da Milano per attirare l’attenzione sul fenomeno delle bande sudamericane. Oggi invece ci troviamo di fronte sempre più spesso a gruppi fluidi e non strutturati, che cambiano ogni giorno e che sono composti sia da italiani sia da stranieri. L’aggregazione giovanile è un fenomeno normale: serve a creare identità e sviluppo della personalità. Ma oggi la novità è che abbiamo aggregazioni non strutturate che in comune hanno solo un inizio di devianza. Dalla mia esperienza vedo che spesso questi ragazzi sono soli, non sono seguiti, spesso vivono in famiglie con genitori che non arrivano da contesti criminali ma sono impegnati, per lavoro o per assistere anziani, e la sera non parlano con i figli. Ma c’è dell’altro che stiamo notando: molti giovani non sanno gestire la rabbia, non hanno un pensiero critico che media. Scattano così le esplosioni di violenza: e quando rompi certe barriere vai avanti e iniziano le aggressioni fini a se stesse che non hanno motivi economici e intenti predatori, poi magari avviene la rapina ma è secondaria. In generale questi gruppi non sanno dove andare, non hanno progetti e sono imprevedibili. Sento parlare di riduzione dell’età penalmente perseguibile: una follia, non abbiamo capito nulla se prendiamo questa strada. Dobbiamo invece pensare che oggi i giovani e gli adolescenti vivono una totale assenza di progetti e iniziative: dobbiamo tenerli impegnati e invece veniamo da decenni di tagli alla scuola, al sociale, allo sport, ai centri di aggregazione».

 

Ma in contesti sociali poveri, è chiaro che il fenomeno della voleva giovanile si lega a doppio filo con la difficoltà di vivere in certi ambienti: e allora scatta qualcosa di identitario. Come racconta Massimo Russo, magistrato della procura minorile di Palermo, che ha lavorato anche a Napoli: «In alcuni casi il gruppo giovanile chiede spesso riconoscimento di identità attraverso aggressioni e atti violenti, e non ha uno scopo criminale. Anche se vivono in un brodo di coltura che enfatizza il denaro facile frutto non del lavoro ma di altro. A Palermo, come a Napoli, si fa molta antimafia di facciata, ma ci sono interi quartieri abbandonati dove questi ragazzi crescono volendo comprare abiti firmati. Da qui la violenza in centro, il furto di orologi e vestiti ai coetanei. Stiamo attenti: la mafia coglie questo consenso e poi pesca da questi gruppi, come una sorta di talent scout criminale, i “migliori”. E li recluta».

 

Ma proprio a Palermo si è assistito a un altro fenomeno che lega violenza giovanile e percorso identitario. Racconta Marco Basile, capo della squadra mobile: «La scorsa estate nelle vie del triangolo del centro storico tra via Maqueda e corso Vittorio Emanuele tutte le sere si registravano episodi di violenza e furti ai danni di minori, ma anche di adulti, da parte di un gruppo di ragazzi. In due episodi sono stati coinvolti anche dei nostri poliziotti fuori servizio che erano con le loro famiglie e tornavano a casa da una cena in pizzeria. Abbiamo iniziato a indagare e abbiamo scoperto che si trattava di un gruppo di palermitani figli di immigrati di origine Tamil ma che sono nati e cresciuti in Sicilia. Sui social si chiamavano “Arab zone” e rivendicavano le loro azioni violente, i loro furti. In una sorta di rivendicazione della loro identità in un contesto dove però erano integrati perché qui sono cresciuti. Volevano rivendicare per sé un pezzo della città e le strade dove vivono. Un fenomeno per noi del tutto nuovo e molto delicato».

 

Resta il tema che chi vive la strada, chi segue i fenomeni giovanili legati a reati più o meno gravi, registra negli ultimi mesi un aumento della violenza e una assenza di agenzie sociali. Due elementi che rischiano di diventare il vero fenomeno preoccupante dei prossimi anni. E non chiamiamole tutte e solo baby gang.