Emergenza salute

Sanità pubblica allo sfascio: così gli italiani sono costretti a ricorrere al privato

di Gloria Riva   19 dicembre 2022

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Medici in fuga. Pochi infermieri. Spesa privata in crescita. Malgrado le promesse il Ssn rimane senza finanziamenti né strategie. E per i cittadini meno abbienti curarsi diventa sempre più difficile

A novembre il cardiologo milanese Stefano De Vita ha fatto i bagagli ed è partito per Lione. Lavorava nella cardiochirurgia dell’ospedale statale Luigi Sacco, chiuso in aprile per essere inglobato dal Policlinico cittadino. Un’opera di razionalizzazione. O almeno, questa era l’intenzione. Nei fatti il Policlinico si è dato tempo fino al 2024 per ultimare la struttura e nel frattempo effettua due interventi a settimana, contro le tre operazioni al dì che faceva il Sacco. In attesa del completamento del reparto e mentre i professionisti del Sacco se ne vanno all’estero, «dove si guadagna il doppio e c’è maggior stima per la professione», conferma il cardiologo De Vita, a Milano s’avvantaggia un nosocomio privato. Si tratta della nuova Cardiochirurgia dell’Ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio che fa capo al gruppo San Donato che sorge sull’ex area Expo, in quello che oggi è Mind, Milano Innovation District: le sale operatorie inaugurate a settembre sono pronte a offrire ai cittadini il servizio in precedenza assicurato da un ospedale pubblico.

Il caso lombardo è la rappresentazione plastica di quanto sta avvenendo nel Paese: dopo esserci resi conto che il Ssn era stato per decenni sotto finanziato e quindi era totalmente impreparato ad affrontare l’emergenza Covid; e dopo una sbornia di promesse, di ridare adeguate risorse al Ssn; oggi il pubblico batte in ritirata, mentre cresce la dipendenza dai centri di cura privati. Il tutto avviene nell’assenza totale di una regia statale, lasciando al cittadino l’onere e l’onore di “scegliere” fra sanità pubblica e privata, sapendo che i tempi della salute non coincidono con le interminabili liste d’attesa degli ambulatori pubblici. Di riflesso i medici fanno i conti con condizioni di lavoro spesso al di sopra delle loro forze, il che favorisce l’emorragia di personale verso il privato o all’estero.

A proposito di ricorso al privato, il centro di ricerca Cergas Bocconi, che monitora il Ssn, stima che sette famiglie su dieci a causa di impreviste spese per la salute stanno rischiando di impoverirsi e oltre il nove per cento ha impegnato per le cure più del 40 per cento del denaro a propria disposizione, ovvero per le cosiddette spese catastrofiche. Si tratta di un record negativo italiano al confronto con gli altri Paesi dell’Europa occidentale. I tre quarti di queste famiglie scivolate in povertà hanno un reddito inferiore ai 1.300 euro mensili, più della metà vive al Sud e molti sono pensionati. «Il Ssn non può continuare ad auto-rappresentarsi come un’istituzione universale e autosufficiente, con qualche residuale presenza del mercato a pagamento di contorno, perché nei fatti il servizio pubblico controlla solo i due terzi delle risorse complessive», è impietosa la fotografia del Ssn scattata da Francesco Longo, responsabile scientifico del Cergas, che ha calcolato come, a fronte di 126 miliardi spesi dallo Stato, gli italiani aggiungono di tasca propria altri 41 miliardi per curarsi: un record. Vanno poi aggiunti altri 9,6 miliardi sborsati per assistere figli disabili e genitori anziani, più altri 9,1 miliardi di trasferimenti diretti alle famiglie dall’Inps che, sotto la veste di assegni di accompagnamento, alimentano il mercato privato e spesso informale delle badanti. In sintesi, ogni famiglia spende di tasca propria 2.200 euro l’anno per curarsi.

Eppure l’impressione è che negli anni del Covid qualcosa sia stato fatto per il bistrattato Ssn. «Fatta eccezione per i frangenti più drammatici del 2020, in questi tre anni il Ssn ha garantito a tutti i malati più gravi la possibilità di un ricovero, le vaccinazioni sono state fatte a tappeto e molti cittadini hanno effettuato tamponi in regime pubblico», dice Longo, che continua: «Questo ha alzato le aspettative di un servizio statale in espansione, proiettato verso un universalismo sostanziale, con finanziamento e standard attesi simili a Francia e Germania». Nei fatti è successo l’opposto: l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil scende al 6,5 per cento nel 2023 e al 6,1 nel 2025, in calo di oltre un punto e mezzo rispetto al 2022, al di sotto dei livelli pre-pandemici (era al 6,4 per cento nel 2019) e parecchio distante dalla media europea del 7,9. Inoltre otto assunzioni su dieci fatte nei mesi della pandemia sono state a termine e quindi sono soltanto 17 mila gli ingressi a tempo indeterminato. Un numero non sufficiente a compensare le uscite per pensionamenti e burnout dovuti all’elevata età del personale e ai livelli di stress subiti in reparto e negli studi medici. Avverte Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che oggi sono in servizio 103mila medici e 264mila infermieri, ma entro il 2027 andranno in pensione 41mila medici e 21mila infermieri. Già oggi, stima la Federazione Nazionale Ordine dei Medici, mancano all’appello 20mila medici, di cui 4.500 nei pronto soccorso, 10mila nei reparti ospedalieri, sei mila medici di base. Le università si preparano a formare 2.779 medici di base all’anno e 14.387 specialisti: pochi per stare al passo con le uscite. E se il numero di medici in servizio, nonostante le criticità, continua a essere in linea con quello europeo è invece l’infermieristica il tallone d’Achille. Sempre Agenas dice che l’Italia registra un tasso molto inferiore alla media europea con 6,2 infermieri per mille abitanti, contro gli 11 della Francia e i 13 della Germania. «In risposta alla carenza di medici, diversi Paesi hanno iniziato a implementare ruoli più avanzati per gli infermieri», scrive Agenas nel report, dove cita la Finlandia a titolo di esempio: «Qui le competenze più avanzate degli infermieri hanno migliorato l’accesso ai servizi e ridotto i tempi d’attesa, fornendo la stessa qualità delle cure». L’assenza di infermieri significa che i medici svolgono compiti che nei sistemi sanitari più moderni sono eseguiti dalle professioni sanitarie. Invece quello dell’infermiere continua a essere un mestiere poco pagato e non attrattivo, con 1,6 candidati per ogni posto (contro il rapporto 7 a 1 del concorso a medicina), determinando un tasso di abbandoni addirittura del 25 per cento. Risultato: nei prossimi cinque anni usciranno dall’università molti più medici specializzati che infermieri e paradossalmente questa situazione aumenterà la percezione che mancano dottori, semplicemente perché ci abitueremo a pensare che funzioni assistenziali, tipiche delle professioni sanitarie, vengano assolte dai camici bianchi.

La speranza di invertire la rotta con i 18,12 miliardi portati in dote dal Pnrr per creare nuovi ospedali, case della comunità, sistemi digitali di medicina territoriale a domicilio e ammodernamento tecnologico svanisce quando si considera che per far funzionare le nuove strutture servono fra i 30 e i 100 mila infermieri, che costano fra i 3 e i 7,8 miliardi annui. Soldi e personale che non sono neppure stati preventivati.

Nonostante le buone intenzioni del ministro alla Salute, Orazio Schillaci, di destinare nuove risorse ai medici, specialmente a quelli dell’Emergenza- Urgenza, e di aprire un dossier sugli standard dell’assistenza, il governo Meloni sta seguendo il tracciato del precedente governo Draghi che ha di fatto ridotto i fondi alla sanità a poco più del sei per cento del Pil. Questa manovra finanziaria stanzia circa tre miliardi extra, sufficienti a coprire l’inflazione e i rincari energetici degli ospedali. Non che i governi precedenti abbiano fatto diversamente, perché come puntualizza l’indagine Cergas «da tempo la politica privilegia misure di trasferimento monetario alle famiglie, la riduzione delle imposte o contribuiti cash come il bonus 110 per la casa, sacrificando qualsiasi ipotesi di servizi reali di welfare, come la scuola e la salute».

E se lo Stato taglia i servizi, il cittadino che fa? Paga di tasca propria o decide di non curarsi. Come fanno molti cittadini del Sud, dove le Regioni sono le più carenti dal punto di vista dell’offerta pubblica, ma non per questo hanno denaro da investire nelle cliniche. Al contrario, ad avere alti livelli di spesa privata, sono lombardi, veneti ed emiliani che spendono più di 700 euro a testa. Mentre in Campania la spesa sanitaria procapite è di 423 euro, in Calabria 537 euro. Sono infatti le famiglie più abbienti e meglio istruite che da un lato hanno le competenze per accedere al Servizio Sanitario Nazionale e dall’altro hanno le risorse per ricorrere ai privati, «generando un quadro di iniquità sostanziale nell’accesso alle cure e di frammentazione del sistema, perché il Ssn non ha attivato processi di ricomposizione dei due sistemi, ovvero quello privato e quello pubblico», scrive il rapporto Cergas, che offre tre soluzioni possibili.

Il primo scenario, il meno credibile, è quello in cui lo Stato investe 25 miliardi in più all’anno per il Ssn e porta la spesa sanitaria al 7,5 per cento del Pil, in linea con la media europea, consentendo il rispetto dei livelli minimi assistenziali e offrendo la possibilità alle regioni, soprattutto a quelle meno avanzate, di ridurre al minimo le disuguaglianze.

Il secondo scenario è quello più complesso da attuare, perché implica la presa di coscienza del Ssn di non avere sufficienti risorse per offrire un servizio universale, innescando un dibattito altrettanto complicato, e arrivando a scegliere di governare un sistema misto, pubblico e privato, dove quest’ultimo, imbrigliato da limiti e soglie, non svolge più un ruolo aggressivo e incontrollato, come avviene ora, con le cliniche private che scelgono di concentrarsi sulle aree mediche più redditizie e competono applicando contratti di lavoro al ribasso ed esternalizzazioni.

Il terzo scenario, contro cui si andrà a sbattere se non si sceglierà fra una delle due soluzioni precedenti, è mantenere inalterato - al 6,1 per cento del Pil - il finanziamento della sanità, ma promettendo livelli di cura universali e gratuità del servizio, rischiando di replicare quello che gli economisti chiamano “modello Grecia” o “modello Argentina”, con sempre maggiori buchi nell’offerta, come già sta avvenendo in alcuni ambiti, per esempio con il cronico definanziamento della Salute Mentale, a cui dovrebbe andare il cinque per cento del fondo sanitario, ma nella pratica ne riceve meno della metà. L’esito previsto dal Cergas è catastrofico: fallimento de facto della sanità pubblica, incontrollata espansione della sanità privata, esponenziale aumento delle disuguaglianze, con i ricchi che potranno scegliere dove e come curarsi e i poveri che abdicheranno al diritto alla salute.