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Inchieste
dicembre, 2022

L’Italia e il mondo tornano al carbone. E per il clima è un disastro

Per sostituire il gas russo aumenta in Europa il ricorso al combustibile più inquinante. Che in Cina e in India è ancora di gran lunga la fonte energetica principale. Così crescono le emissioni di CO2 e la transizione green si allontana

Non è il gas, e neppure il petrolio, la minaccia più grave per il clima. Se il mondo vuole mettere un freno alle emissioni di CO2, e quindi anche al riscaldamento globale, deve liberarsi in fretta del carbone, la fonte di energia di gran lunga più dannosa per l’ambiente. È questo l’obiettivo da anni al centro delle discussioni di scienziati e politici, ma come dimostra l’esito deludente dell’ultima conferenza dell’Onu sul clima, la Cop 27 chiusa due settimane fa a Sharm el-Sheikh, il traguardo appare ancora molto lontano.

 

L’ultimo allarme sugli effetti nefasti del carbone arriva da un rapporto appena pubblicato dalla Iea, l’Agenzia Internazionale dell’Energia. L’uso del più inquinante tra i combustibili fossili dovrà essere ridotto del 90 per cento entro il 2050 per rispettare la tabella di marcia che permetterebbe di limitare l’aumento della temperatura globale intorno a 1,5 gradi entro la fine del secolo, come fissato dall’Accordo di Parigi del 2015. Questa, in sintesi, la conclusione dell’Agenzia. Difficile negare che, alla luce della situazione attuale, l’obiettivo di decarbonizzazione fissato nel report sembra a dir poco irrealistico. Per mettere un freno al surriscaldamento del pianeta, entro il 2040 dovrebbero essere infatti dismesse le 9 mila centrali a carbone ora in funzione in tutto il mondo, per due terzi situate in Cina e in Paesi via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il rapporto traccia un quadro per nulla rassicurante della situazione. Secondo gli analisti dell’Agenzia, è probabile che nel 2022 la produzione di energia con il carbone toccherà il suo massimo storico. A trainare la crescita sarà l’India, che vale il 12,5 per cento del consumo globale. Più di metà del minerale estratto nel mondo viene invece assorbito dalla Cina, dove però il rallentamento della crescita economica previsto per quest’anno dovrebbe finire per stabilizzare anche il ricorso al carbone come fonte di energia. Bastano questi dati per intuire come mai i due giganti asiatici, anche nella recente Cop 27, abbiano preso solo impegni generici sulla riduzione delle emissioni da combustibili fossili.

 

Il governo di Nuova Delhi, in particolare, avrebbe voluto che la dichiarazione finale della conferenza non citasse espressamente il carbone, ma la richiesta è stata respinta. Nel testo però si parla di graduale riduzione (“phase down”) e non di eliminazione (”phase out”).

 

D’altra parte, va considerato che per Paesi come India e Cina il carbone è di gran lunga la fonte più importante per la produzione di energia elettrica: vale tra il 60 e il 70 per cento del totale. Una quota dieci volte superiore rispetto all’Unione Europea, dove le miniere locali (soprattutto Polonia e Germania) insieme all’import da altri continenti, forniscono materia prima per meno del 6 per cento dell’energia. Quest’anno, però, il taglio delle forniture di gas da parte della Russia ha spinto i governi a rimettere in funzione decine di centrali con combustibili ben più inquinanti del metano.

«Si va a carbone con le centrali che sono ancora operative, per un periodo transitorio che serve per risparmiare, mentre sostituiamo il gas russo con il gas nuovo», ha minimizzato nel giugno scorso l’allora ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani. A settembre, lo stesso Cingolani ha firmato un atto di indirizzo che consente alle centrali a carbone italiane di riprendere a marciare a pieno regime. Il provvedimento riguarda in massima parte Enel, che possiede quattro dei cinque impianti ancora attivi nel nostro Paese. Il più grande è a Brindisi, gli altri tre a Civitavecchia, a Fusina (vicino a Venezia) e nel Sulcis, in Sardegna. Una seconda centrale sarda si trova nel nord dell’isola ed è controllata dal gruppo Eph del miliardario ceco Daniel Křetínský, azionista, tra l’altro, del quotidiano parigino Le Monde.

 

Già nel marzo scorso, pochi giorni dopo l’attacco russo all’Ucraina, il governo Draghi aveva dato luce verde al ritorno al carbone. Il piano di risparmi concordato da Roma con la Ue per far fronte allo stop delle forniture di gas da Mosca prevede da agosto un taglio dei consumi fino a 8 miliardi di metri cubi (su 74 miliardi complessivi all’anno) da raggiungere entro il marzo prossimo. Secondo Cingolani, un contributo complessivo di 1,8 miliardi potrebbe arrivare dai vecchi impianti dell’Enel e da quello targato Eph. Indietro tutta, quindi. Le centrali del gruppo pubblico, tutte in via di smantellamento o di riconversione a gas, hanno di nuovo riacceso i motori al massimo. «L’impatto ambientale sarà piccolissimo - ha garantito il ministro - largamente compensato dalla crescita molto forte delle rinnovabili».

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È ancora presto per fare un bilancio dell’anno, ma i dati relativi a questi ultimi mesi sembrano smentire le previsioni rassicuranti di Cingolani. Già nel primo trimestre del 2022, con il prezzo del gas volato ai massimi storici, le emissioni sono aumentate dell’8 per cento sullo stesso periodo del 2021 per effetto del «maggior consumo di fonti fossili concentrato su carbone e petrolio», come rilevato a suo tempo dall’Enea, l’Agenzia pubblica per l’energia e lo sviluppo sostenibile. Tra settembre e ottobre, segnalano le stime più recenti, il tasso di crescita della CO2 in atmosfera è un po’ calato, ma la buona notizia si spiega più che altro con il rallentamento del sistema industriale accompagnato da un clima insolitamente mite nelle prime settimane d’autunno. Di conseguenza, insieme alla domanda di energia per le aziende e per il riscaldamento, sono diminuite anche le emissioni. A ottobre, per dire, l’Italia ha consumato il 6,6 per cento di elettricità in meno rispetto allo stesso mese del 2021. Il trend, però, potrebbe invertirsi quanto prima, con l’arrivo dell’inverno e il calo delle temperature.

 

E le rinnovabili? Qui le previsioni di Cingolani non hanno retto alla prova dei fatti, almeno finora. Abbiamo consumato più carbone, certo, ma anche meno energia da fonti pulite, perché nei primi dieci mesi dell’anno il sistema ha dovuto fare i conti il crollo della produzione idroelettrica, meno 37,6 per cento, dovuto a un’eccezionale siccità che prosegue ormai da più di un anno. A conti fatti, quindi, la crescita di fotovoltaico (circa 2 mila gigawattora in più) e quella, molto più ridotta, dell’eolico (circa 500 gigawattora) non hanno affatto compensato l’aumento dell’energia elettrica prodotta nelle centrali a carbone, pari a circa 7 mila gigawattora in più rispetto ai primi dieci mesi del 2021, un incremento del 71 per cento. Secondo le rilevazioni di Terna, l’elettricità prodotta grazie al carbone ha così raggiunto il 6,7 per cento del totale, quasi il doppio del 3,7 per cento fatto segnare tra gennaio e ottobre del 2021. Le emissioni di CO2 sono aumentate di conseguenza, come segnala Enel. Le centrali gestite dal gruppo pubblico hanno prodotto nel primo semestre dell’anno 237 grammi di CO2 per kilowattora contro i 207 grammi registrati nello stesso periodo del 2021, un dato che nei documenti ufficiali dell’azienda viene spiegato con «l’aumento della produzione termoelettrica a carbone».

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Il riavvio delle quattro centrali che da tempo funzionavano a mezzo servizio ha costretto Enel a fare scorta di minerale proprio mentre i prezzi si impennavano al rialzo. Da gennaio a luglio le quotazioni del carbone sui mercati internazionali sono più che raddoppiate e il calo estivo ha ridimensionato solo in parte il rialzo dei mesi precedenti. Come se non bastasse, la società italiana, al pari degli altri concorrenti europei, ha dovuto fare a meno anche della materia prima proveniente da un importante fornitore come la Russia, colpita dalle sanzioni occidentali. Adesso Enel importa carbone soprattutto da Sudafrica, Indonesia e Colombia. Tutto combustibile che serve a compensare almeno in parte il taglio del gas di Mosca.

 

Il risparmio, però, ha un costo in termini di maggiori emissioni di CO2. Senza contare che la ripartenza delle centrali più inquinanti ha interrotto un processo virtuoso di decarbonizzazione che avrebbe dovuto portare alla chiusura o alla riconversione di tutti gli impianti a carbone entro il 2025. È questo, infatti, l’obiettivo dichiarato dal Piano nazionale integrato per energia e clima (Pniec) varato dal secondo governo Conte nel dicembre 2019. A tre anni di distanza, le buone intenzioni devono fare i conti con la più grave crisi energetica di sempre, innescata dall’attacco russo all’Ucraina. Le rinnovabili, per quanto in forte crescita, per molto tempo ancora non saranno in grado di prendere il posto del gas naturale come principale fonte energetica del Paese.

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Difficile fare previsioni per il futuro prossimo. L’Europa corre il rischio di arrivare alla prossima primavera con gli stoccaggi di metano ridotti a zero e la corsa a riempirli in vista della successiva stagione invernale farebbe ripartire la corsa dei prezzi. Rinunciare al carbone diventa quindi molto difficile. Le centrali italiane continueranno a marciare a pieno ritmo e le emissioni di CO2 sono quindi destinate ad aumentare, come anche le polveri sottili nelle zone circostanti gli impianti, che pure sono dotati di filtri di ultima generazione per ridurre l’inquinamento.

 

Certo l’Italia non è la Polonia dove gli impianti a carbone soddisfano il 70 per cento del fabbisogno di elettricità, mentre in Germania siamo al 25 per cento circa. Enel conferma che i suoi piani non cambiano: dal 2025 solo rinnovabili e centrali a gas naturale. Un impegno solenne che si perde in un orizzonte più incerto che mai, oscurato dalla guerra e dalla crisi climatica.

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