Inchiesta
«Noi giovani, formati e disoccupati. Ormai esultiamo anche per un colloquio»
Non studiano più ma non riescono a trovare un’occupazione. Si trovano in un limbo tra sconforto, vergogna e senso di smarrimento. Le loro esperienze sono la dimostrazione del fallimento dell’alternanza scuola-lavoro, dei centri per l’impiego e di Garanzia giovani. Ecco le loro storie
Troppo giovani per lavorare o troppo grandi per essere assunti. È la storia di tanti ragazzi che vivono in un limbo tra sconforto, vergogna e senso di smarrimento. «Ho una formazione da perito meccanico e ho terminato gli studi nel 2019, posso assicurare che trovare lavoro era già complicato prima della pandemia», racconta Matteo, un ragazzo abruzzese di Lanciano. A 22 anni si è già candidato a molte posizioni, anche per mestieri non inerenti al suo campo di studi e quando ha attivato Garanzia Giovani si è orientato nel mondo del digital marketing.
Un profilo, il suo, con diversi corsi di formazione tramite agenzie di lavoro e diversi attestati di frequenza. Matteo racconta che la figura del perito meccanico è molto richiesta nella sua zona, eppure a due anni da quando ha finito il percorso scolastico non è riuscito ancora a trovare lavoro. «Durante il giorno non faccio molto, a volte aiuto mio padre che fa l’ambulante di buste di plastica. La mia famiglia aveva una fabbrica perciò conosco molto bene l’ambiente ma né Garanzia giovani né il centro per l’impiego sono stati utili in questo», dice.
Da diversi anni i centri per l’impiego non fanno più da tramite tra le aziende e il singolo. Matteo racconta che gli è stato detto che doveva essere lui ad occuparsi di ricercare un tirocinio all’interno delle aziende, una volta attivato il patto di servizio con il centro per l’impiego. «Per un ragazzo è difficile, perché se non hai referenze i datori di lavoro non ti chiamano. Non stanno aiutando i giovani, trovo assurdo che non ci sia un tirocinio disponibile nella mia città, ma anche che debba occuparmene io».
A Matteo serve un praticantato anche per le esperienze passate che non lo hanno formato abbastanza da poter presentare un profilo convincente ai datori di lavoro. La mancanza di un laboratorio all’interno del suo istituto, dove poter apprendere specifici programmi di progettazione e disegno tecnico, e l’alternanza scuola-lavoro hanno reso la sua formazione inefficace. «Ho un bruttissimo ricordo di quando facevo l’alternanza in terzo», dice Matteo, raccontando di un’esperienza del tutto fuori contesto dal suo percorso di studi. «Mi hanno mandato in fabbrica a pulire le scatole dei packaging. A volte i turni erano di notte, ne ho dovute pulire così tante che mi si erano spellate le mani per via dei saponi che utilizzavo. Ora ho il terrore, quando mi sono iscritto alle agenzie interinali mi hanno chiamato solo una volta per ritornare a lavorare in quella fabbrica. Non ho accettato perché questo non è quello per cui io ho studiato».
La difficoltà è tangibile, sia nel raccontare queste esperienze sia nell’ammettere di aver vissuto dei percorsi che poi non hanno portato a nulla. «Vorrei un lavoro nel quale poter mettere in pratica le mie conoscenze, purtroppo le aziende cercano soltanto persone con un anno o due di esperienza. Come faccio ad averla se sono appena uscito da scuola?. Sono bloccato in un limbo, non so sinceramente che strada devo percorrere, perché non trovo annunci di lavoro adatti alla mia posizione», racconta Matteo.
Questa esperienza assomiglia a quelle di molti altri ragazzi, che vivono questa loro condizione come una colpa. Alcuni sanno che mancano delle buone politiche in grado di creare lavoro, altri ancora pensano di non esserne all’altezza. Ma la situazione è ben diversa: l’Italia è, secondo gli ultimi dati Eurostat del 2020, il primo Paese europeo per numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano.
Si trova in questa situazione anche Ilenia, una ragazza di Albano Laziale: 35 anni appena compiuti, ma senza un lavoro che possa dirsi stabile da quattro anni. «Sono stata responsabile di una casa famiglia per detenuti come operatrice sociale, poi ho lavorato per tre mesi in una Rsa, ma sempre con contratti a tempo determinato e molto precari». Laureata in psicologia, ha subito le conseguenze dell’emergenza sanitaria, che ha complicato la situazione. Le strutture socio-sanitarie hanno cominciato a ricercare sempre più infermieri, marginalizzando la figura dello psicologo.
Ilenia ribadisce che la grande difficoltà è quella di potersi rivolgere ai centri per l’impiego, che ormai funzionano come i siti di annunci lavorativi: ci si iscrive e ci si candida per la posizione più idonea al proprio profilo. «Qualche bando comunale passa per i centri per l’impiego, il fatto è che la graduatoria non è per curriculum».
Spiega Ilenia: «Il vero requisito è avere l’Isee basso ma io, essendo disoccupata non posso permettermi di andare fuori e prendere casa, attualmente vivo con i miei e quindi risulto nel loro stato di famiglia, e questo è un paradosso perché per sbloccare questa situazione bisognerebbe tener conto del singolo». Così, dopo aver mandato per anni decine di curriculum ad ogni tipo di azienda, Ilenia ammette di aver rinunciato all’idea di riuscire a trovare lavoro tramite i centri per l’impiego.
«L’indeterminato è un sogno, siamo al punto che si deve gioire per aver ottenuto un colloquio perché il più delle volte neanche ti fanno un incontro conoscitivo per capire se sei idoneo o meno», ammette Ilenia. Anche il suo percorso formativo non è semplice, ma questa volta perché i tempi di formazione sono imposti dall’albo professionale: una laurea, una specialistica e una scuola di formazione di cinque anni: «Si rischia di arrivare ai 30 anni, se rimani nei termini, senza un lavoro in mano e per farlo bisogna avere una situazione economica stabile».
In questa condizione, ancora di emergenza per il Covid-19, a peggiorare la situazione sono anche le modalità in cui si è svolta la formazione dei ragazzi. La didattica a distanza ha generato un senso di smarrimento per molti studenti.
L’associazione studentesca “Link – Coordinamento Universitario” si occupa da almeno dieci anni di denunciare la dispersione scolastica e, soprattutto, quella universitaria. Solo ora, con la pandemia, gli atenei sembrano aver colto la gravità di questo fenomeno. È il caso di Marzio, 21 anni, raggiunto grazie all’aiuto del coordinamento Link. Ha abbandonato il suo percorso di studi all’università di Milano-Bicocca. Ex studente di sociologia, nel 2021 ha sofferto molto la didattica a distanza: «Io ero abituato ad andare a seguire in modo abbastanza attivo per cercare un confronto con compagni di corso e docenti, quando questo è venuto a mancare è stato molto sconfortante per me e dopo un anno di lezioni a distanza, nemmeno in diretta ma registrate, non me la sono sentita e ho lasciato». Anche il tentativo di trovare lavoro è stato vano, Marzio racconta di aver ricevuto offerte esclusivamente da promoter alla giornata, quando aveva fatto richiesta specifica per altri tipi di occupazioni. Preso dallo sconforto, dice di non essere riuscito a trovare un lavoro se non tramite conoscenze, di non aver mai sentito parlare di Garanzia giovani e che nel suo corso di studi «almeno uno studente su tre ha abbandonato l’università durante la pandemia o ha cambiato corso di laurea».
Ad occuparsi dei giovani nello stato di Neet, Alessandro Rosina, docente dell’Università Cattolica di Milano che, insieme ad un team di esperti dell’Istituto Toniolo ha elaborato il report “Intercettare i Neet. Strategie di prossimità”, commissionato dal ministero per le Politiche Giovanili.
«Questi giovani possono essere definiti “hard to reach” o anche fuori dalle politiche pubbliche», spiega Rosina: «L’unico modo per rintracciarli è la prossimità, il contatto con il territorio. Tutte le attività che si occupano del sociale hanno una capacità di intercettarli che altrimenti nessun altro avrebbe». Dal report emerge che i giovani sottovalutano la loro condizione perché in Italia si può vivere in questa condizione fin oltre i trent’anni, a differenza della media degli altri Paesi europei. Spiega Rosina: «L’urgenza non è sentita nel nostro Paese, un giovane italiano non riesce a capire che bisogna rimettersi in discussione, perché c’è un tempo per acquisire determinati tipi di competenze nel corso della formazione del singolo».
Il secondo aspetto specifico dell’Italia è la forte diffusione del lavoro in nero, che non consente ai giovani di percepire la situazione in cui si trovano perché non si ricerca un contratto.
Un terzo aspetto, che emerge anche dalle testimonianze dei ragazzi, riguarda la fascia di giovani che hanno avuto una pessima esperienza con il mondo del lavoro: tutti coloro che sono stati sottopagati o che hanno lavorato in condizioni di bassa qualità. Soggetti che fanno parte di un’area grigia di lavoro-non lavoro, che hanno provato e si sono impegnati, ma che ne escono fortemente scoraggiati.
«Se le aziende non considerano i giovani come capitale umano su cui far leva per essere competitivi e crescere, ma anzi cercano di pagare il meno possibile, è chiaro che si creano le condizioni per questa situazione», insiste Rosina. Stando alle ricerche del suo team, inoltre, i giovani che trovano più facilmente lavoro sono quelli che vengono aiutati maggiormente dalla famiglia. In Italia, quindi, la maggioranza dei ragazzi continua a trovare lavoro attraverso le conoscenze e non tramite canali formali. Questi ultimi, che si rivolgono a tutti, dovrebbero aiutare anche i giovani provenienti da famiglie con situazioni economiche più vulnerabili.
Eppure riflette Rosina, non c’è molto tempo: «I giovani di adesso sono la chiave per ripartire, soprattutto per la transizione digitale e verde. Se gli attuali trentenni Neet non riusciranno a trovare lavoro saranno i quarantenni di domani, e questa fascia d’età tecnicamente è l’asse portante di un Paese».