Inchieste
febbraio, 2022

Morte David Rossi: un hard disk rotto, mail con date impossibili e una perizia shock in arrivo

Computer manomessi, messaggi “postumi” e poi scomparsi, pasticci sulla scena del crimine. Tutto quello che non torna nel caso dell’ex responsabile comunicazione del Monte dei Paschi di Siena

È morto la sera del 6 marzo 2013. È questa l’unica certezza sulla scomparsa di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi sia negli anni della grande ascesa di uno dei poli bancari più importanti d’Europa e sia in quelli del crollo, repentino, con i bilanci saltati in aria e le varie indagini che hanno portato a processo i vertici di allora, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni (in alcuni casi poi assolti, in altri, come per i derivati, in attesa di sentenza di appello). Per la procura di Siena si è trattato di suicidio. Per i familiari, l’ex moglie Antonella Tognazzi e il suo legale Carmelo Miceli su tutti, no. Una battaglia che va avanti da quasi dieci anni, con due indagini aperte e poi chiuse sempre per suicidio da Siena, una prima indagine di Genova sui colleghi senesi anch’essa chiusa e una seconda che adesso si sta riaprendo: con in più una commissione parlamentare che ha appena affidato ai carabinieri del Ros ulteriori verifiche su quello che resta a oggi un mistero. Ma se c’è una certezza sulla morte datata 6 marzo, in realtà ce ne è anche un’altra: troppe domande rimangono senza risposta e sicuramente le prime, importanti e delicate, indagini fatte nelle ore successive la morte di Rossi hanno lasciato alle spalle più di un dubbio, tra reperti bruciati in fretta, mancata acquisizione di tutti i filmati delle telecamere e mancato sequestro immediato del server e di tutti i dispositivi elettronici del responsabile della comunicazione. Da questi buchi, evidenti, nascono poi le altre domande mentre emergono anomalie su anomalie. L’Espresso le ha messe in fila, aggiungendone anche altre di nuove ed esclusive.

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Il giallo delle mail
L’ultima anomalia che si è scoperta in questo caso di suicidio-non suicidio è la relazione della polizia postale pubblicata dall’Espresso che data al 7 marzo 2013 la creazione della mail inviata da Rossi all’ex amministratore delegato Fabrizio Viola nella quale annuncia il suicidio. Il 20 maggio 2020 la polizia postale della Liguria consegna una relazione di 43 pagine alla procura di Genova che sta indagando in quel momento sui magistrati senesi che avevano svolto la prima indagine, il tutto dopo che la trasmissione televisiva “Le Iene” aveva raccolto testimonianze su presunti festini a luci rosse in un casolare del senese ai quali avrebbero partecipato toghe e inquirenti del caso Rossi. Indagine archiviata. Ma la relazione della postale solleva più di un dubbio su questa mail chiave: analizzando il disco rigido di uno dei due computer portatili nell’ufficio di Rossi si trova una cartella, creata il 29 luglio 2014 (prima anomalia) con dentro due versioni della mail con oggetto «Help» e la frase «stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!!». Entrambe queste versioni della mail hanno data di creazione 7 marzo alle 11,41 (il giorno dopo la morte di Rossi) ma risultano inviate il 4 marzo alle 9,13. Scrive la polizia postale: «Va rilevata l’anomalia alla quale non è possibile trovare elementi di riscontro in questo hard disk a favore di un’eventuale ipotesi che ne spieghi la natura, in cui le date di creazione degli artefatti all’interno del file di posta elettronica siano posteriori alle date di consegna. A maggior ragione considerando che il file che le contiene risulta creato in data 29 luglio 2014». Siamo a pagina 31 della relazione, che inizia con una premessa generale a pagina 7: «Giova premettere che parte del materiale analizzato nel disco fisso risulta essere stato alterato a causa degli accessi ai dispositivi anche tramite l’uso di software di recupero, effettuati senza alcuna protezione da scrittura» dopo la riconsegna dell’hard disk da parte della famiglia di Rossi. Insomma: premesso che il materiale potrebbe essere stato alterato, resta l’anomalia alla quale la polizia non sa dare una risposta chiara. Alcuni giornali dopo la pubblicazione dell’Espresso hanno invertito l’ordine cronologico delle affermazioni facendo apparire “l’alterazione” come la risposta al quesito sulla creazione della mail posto dalla polizia postale. Non è così. La polizia postale non riesce a rispondere a questa anomalia. Il portatile era stato consegnato alla famiglia il 7 giugno 2013, ma prima di questa data la procura ha fatto una copia forense di questo hard disk. Perché la polizia postale per diradare qualsiasi dubbio non ha chiesto la copia forense fatta poco dopo la morte di Rossi? E c’è di più: come risulta all’Espresso da una testimonianza raccolta, l’hard disk è stato restituito dalla famiglia nel luglio 2013 e poi analizzato dalla postale davanti alla cognata di Rossi e alla moglie il 10 novembre del 2013 per verificare un’altra anomalia di cui a breve daremo conto. Insomma, chi ha creato nel 2014 il file contenente le mail? Il Gip di Genova che ha archiviato l’indagine sui colleghi di Siena ha fatto sapere all’agenzia Ansa che «la relazione è stata inviata a Siena». Come dire: spettava ai colleghi senesi fare ulteriori verifiche e dare un mandato chiaro alla polizia postale su queste anomalie. Non sembra sia stato fatto nulla.

 

Esclusivo
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Ma c’è di più. All’Espresso risulta che l’hard disk di uno dei due portatili, dal quale sarebbe stata inviata la mail sul suicidio, è stato danneggiato. In ogni caso Viola, che dopo aver ricevuto questa mail sul suicidio continua quel 4 marzo a inviare mail a Rossi parlando di altro, sostiene di non aver mai letto il messaggio che annuncia l’intenzione di suicidarsi da parte di Rossi. «Ricordo tutte le altre mail, non quella con oggetto “Help”», dice ai sostituti procuratori di Siena che indagavano nel 2013, Nicola Marini e Aldo Natalini. Chi dice di averla letta è la segreteria di Viola, Lorenza Pieraccini, ascoltata solo nel 2017. Prima in una intervista alle “Iene” e poi in un verbale davanti alla pm Serena Menicucci datato 8 novembre 2017, oltre quattro anni dopo la morte di Rossi. Dice Pieraccini: «La lessi sicuramente il 4 marzo, non ricordo però l’orario». Nello stesso verbale Pieraccini aggiunge un altro dettaglio importante: «La mail era stata già aperta, circostanza che io potevo verificare dalla schermata del mio computer, anche io aprii la mail e la lessi. Preciso che non posso dire chi prima di me avesse aperta la mail, se Viola o Fanti (capo staff di Viola, ndr). Sicuramente la mail era aperta». Chi aveva letto quella mail e quando a questo punto? Su questo gli inquirenti non hanno indagato. Ma c’è di più. La Pieraccini continua: «Dopo tre o quattro giorni dalla lettura della mail in questione, dopo il decesso di Rossi, per curiosità ho fatto l’accesso alla posta di Viola e cercando la mail con oggetto “Help” non l’ho trovata». Chi ha avuto accesso alla mail di Viola e al server dopo la morte di Rossi? Perché non sono stati subito sequestrati e sono stati invece utilizzati dal personale interno alla banca? E, ancora, perché Pieraccini e Fanti non hanno mai chiesto lumi su quel messaggio a Rossi? Pieraccini, su questo punto, non ricorda «se il 4 o il 5 o il 6» ha poi incrociato Rossi alla macchinetta del caffè.

 

I gialli sulle mail comunque non finiscono qui. Facciamo un passo indietro. Nel giugno 2013 il materiale hardware viene consegnato alla famiglia. A metterci le mani è la cognata di Rossi, Chiara Benedetti, ingegnera informatica. Lo fa collegando un cavo all’hard disk di un portatile per scaricare i dati delle mail. E trova una anomalia: proprio nella mail con oggetto “Help” oltre all’indirizzo di Viola le compare in copia carbone anche l’indirizzo di Sandretti Bruna, una amministrativa del Monte dei Paschi. Indirizzo che non compariva nelle copie in mano alla procura. Si legge nel decreto di archiviazione di Siena per suicidio datato 2014: «…ebbene una seconda verifica informatica apprestata dal personale della polizia postale ha accertato essere questo mero frutto di malfunzionamento del software di conversione rilevatosi crackato utilizzato, si ha ragione di ritenere in perfetta buona fede, dalla Benedetti nel recupero delle mail in questione». Ecco l’alterazione madre, per la polizia postale, degli hard disk: il primo intervento della cognata. Ma davvero è stato alterato il contenuto di questi hard disk? Perché la polizia postale non ha fatto una verifica chiara nella copia forense? La storia sembra essere, come sempre, più complicata. Il 10 novembre del 2013 Benedetti viene convocata dalla postale di Siena per verificare questa anomalia. E davanti ai poliziotti l’ingegnera fa la stessa procedura che aveva fatto a casa con un software forense che non aveva la licenza. In ogni caso davanti ai poliziotti Benedetti estrae tutte le mail più volte e solo in quella “Help” compare l’indirizzo della Sandretti. Se il software era malfunzionante perché l’errore compare sempre e solo in questa mail? E perché per mettere la parola fine non c’è in alcun provvedimento della procura un chiaro ed esplicito riferimento al confronto con la copia forense estratta subito dopo la morte di Rossi?

 

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La caduta e la guerra delle perizie
Il giallo delle mail è solo un elemento di molte cose che non sono state chiarite e approfondite dalle indagini. La famiglia con in mano diverse perizie, tra queste una che sarà a breve consegnata e che promette sviluppi ulteriori, sostiene che Rossi sia stato picchiato prima di cadere dalla finestra del suo ufficio. Il problema è che non è stato mai fatto alcun esame istologico sulle ferite e nessuna analisi del Dna sui fazzoletti sporchi di sangue. E qui occorre ancora una volta fare un passo indietro e partire dalla sera della morte e dai dubbi sulla caduta che per alcuni periti è “anomala” perché priva di rotazione. Se si fosse spontaneamente lasciato cadere dalla finestra, senza opporre resistenza, sarebbe caduto in una posizione differente, con le spalle rivolte verso terra o, addirittura, di testa, sostengono i legali della famiglia. Ma ci sarebbe di più. Secondo una nuova indagine voluta dalla commissione parlamentare d’inchiesta, Rossi per accedere direttamente al cornicione si sarebbe dovuto arrampicare, poggiando il piede sulla griglia del termosifone. Gesto che avrebbe dovuto frantumare la griglia sotto il peso del suo corpo. Dalle foto scattate quella sera dalla scientifica la griglia risultava intatta. Il viso di Rossi è ricoperto di ferite, le braccia di lividi, un ematoma sulla pancia e una contusione all’inguine e quella sul polso in corrispondenza dell’orologio che non sarebbero compatibili con la caduta. Le uniche ferite a essere giustificate sono quelle presenti sulla parte posteriore del corpo prodotte dall’impatto al suolo, dubbie quelle posizionate sull’addome, sul volto e sugli arti. Per Cristina Cattaneo, medico legale dell’università di Milano, nominata dal pm Andrea Boni nella seconda inchiesta del 2015, le uniche spiegazioni legate a quelle lesioni potrebbero essere attribuibili a una colluttazione o a un intervento da parte di terzi prima della caduta. Ma dati i pochi elementi in mano ai consulenti, le relazioni si concludono con un nulla di fatto, solo dubbi: «Non esistono elementi tecnici dimostrativi dell’intervento di terze persone, seppure vi siano chiari elementi che indicano palesemente colluttazioni».

Non ci sono più i fazzoletti sporchi di sangue ritrovati nel cestino dell’ufficio. Sequestrati soltanto giorni dopo il sopralluogo, vengono distrutti su disposizione dal pm Aldo Natalini e mai analizzati. La scena del crimine si scopre adesso essere stata alterata, come dimostrano sei fotografie scattate dagli stessi pm la notte del 6 marzo e un video girato con il telefonino da uno degli uomini delle forze dell’ordine arrivato per primo sulla scena: la giacca di Rossi nel video risulta buttata frettolosamente sulla sedia dell’ufficio di David, nelle foto risulta appesa ordinatamente al suo schienale. Dalla scrivania di David mancano degli oggetti, alcuni sono stati spostati e altri ancora aperti o chiusi. Senza guanti, copriscarpe o mascherine come previsto dai protocolli di investigazione scientifica. È il colonnello Pasquale Aglieco - all’epoca comandante provinciale dei Carabinieri - a raccontarlo il 9 dicembre di fronte alla Commissione Parlamentare d’inchiesta: «Il pm Nastasi si è seduto sulla poltrona di Rossi e ha acceso il computer. Ha rovesciato sulla scrivania il cestino con i fazzolettini sporchi di sangue e i bigliettini strappati. Ha risposto al telefono di Rossi alla chiamata dell’onorevole Santanché. Uno dei pm ha chiuso la finestra dell’ufficio». In quella stanza ci sono 9 persone, di cui 4 non avrebbero titolo e sono proprio i carabinieri, però.

 

Resta anche il mistero dell’orologio, ritrovato a distanza dal corpo, che da un video sembra volare dalla finestra minuti dopo la caduta. L’orologio è frantumato, la lancetta dei minuti è staccata, quella delle ore segna tra le 20 le 20:30. Se lo avesse avuto al polso durante la caduta, accertata per le 19:43, si sarebbe fermato prima delle otto. Invece è fermo proprio all’ora in cui si vede cadere l’oggetto misterioso. L’ennesimo punto interrogativo di questa storia.

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