Mafia
Sicario dei boss e uomo dei servizi: si riaprono le indagini su Antonino Gioè, l’infiltrato nella strage di Capaci
L’uomo chiave dell’eccidio che ha portato alla morte del giudice Giovanni Falcone segnalato per “operazioni di intelligence”. La procura ora riapre il caso sulla sua morte. E si avviano nuove indagini anche sulla fine di un colonnello dell’ex Sismi
A suo modo un talento precoce. Un uomo d’azione la cui abilità non era passata inosservata. «Persona certamente idonea a essere adoperata per compiti di intelligence militare»: così annotavano i carabinieri di Altofonte sul fascicolo di Antonino Gioè, classe 1948, al tempo in cui, nel 1969, il futuro stragista chiave dell’eccidio di Capaci si preparava alla leva obbligatoria.
Che fosse un uomo d’azione, confermando la sinistra postilla del suo anonimo talent scout in divisa, lo dimostrò 24 anni dopo, scivolando a pancia sotto su uno skateboard per imbottire di esplosivo il cunicolo dell’autostrada saltata in aria il 23 maggio del 1992 e uccidere il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Che Gioè fosse con un piede nella mafia e l’altro nei servizi cosiddetti deviati, è da sempre molto più di un sospetto, avvalorato da altrettanti indizi. Era l’uomo che Paolo Bellini, l’ambiguo terrorista nero della strage alla stazione di Bologna, contattò da potenziale infiltrato nella mafia. Ed era soprattutto l’uomo a cui Franco Di Carlo, il boss di Altofonte, in esilio forzato in un penitenziario inglese, affidò il compito di assecondare le richieste che certi suoi amici dei servizi erano andati a rappresentargli nel 1989, l’anno del fallito attentato ai danni di Falcone sulla scogliera dell’Addaura. «Volevano neutralizzare il giudice», spiegò Di Carlo da collaboratore di giustizia.
Più avanti, quegli stessi amici, e siamo a ridosso del 1992, erano tornati alla carica, cercando un contatto diretto dentro Cosa nostra. Questa volta il giudice faceva ancora più paura perché dall’ufficio degli affari penali del ministero di Grazia e giustizia, dopo aver assestato il colpo del maxiprocesso, si preparava a fare piazza pulita di anni di incrostate connivenze tra pezzi dello Stato e la mafia. E ancora una volta Gioè era il tramite giusto.
Il sicario con affidavit da 007, del quale aveva anche parlato in commissione antimafia il procuratore Gianfranco Donadio, di sicuro partecipò alla strage mafiosa di Capaci, telefonando per tre volte a tre ore dallo scoppio della bomba a un’utenza del Minnesota con un apparecchio inizializzato utilizzando dei numeri assegnati da una centrale telefonica di Roma Nord, base di una struttura riservata per i collegamenti speciali dei servizi.
Poi, da Bellini, Gioè ricevette il suggerimento per spostare al Nord, ai monumenti e alle chiese, la strategia delle bombe. Prima c’era stata la strage di via D’Amelio per uccidere Paolo Borsellino, 19 luglio 1992, ma stranamente Gioè e il gruppo di Altofonte, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, non fu impiegato. Gioè si limitò a consegnare dei telecomandi. Lì c’era forse qualche altro «infiltrato nella mafia» su cui la moglie di Di Matteo suggerì al marito di tacere quando il figlio Giuseppe, tenuto in ostaggio per oltre 700 giorni e poi sciolto nell’acido, era nelle mani dei suoi ex compari. E Di Matteo non ha mai voluto approfondire la questione.
Ma torniamo a Gioè. All’indomani del secondo ciclo di attentati a Firenze, Roma, e Milano nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, quando era già in carcere da più di 4 mesi, finì vittima di uno strano suicidio in cella su cui adesso torna a indagare la procura di Roma, su input della Direzione nazionale antimafia.
Il dubbio è che lo abbiano fatto fuori per tappargli la bocca. E la nuova inchiesta promette di riaprire a ritroso molti capitoli inesplorati della enigmatica biografia di questo uomo d’onore con ottime entrature negli apparati di sicurezza.
A partire proprio da quel sinistro accreditamento che giovanissimo lo portò a prestare servizio da paracadutista con tanto di brevetto di lancio in quella stessa caserma, la Vannucci di Livorno, dove si addestrano i reparti specializzati dei carabinieri del Reggimento Tuscania. Tant’è che l’inchiesta promette di esplorare i contorni di un altro suicidio, quello di Mario Ferraro, il colonnello dei servizi, uomo del generale Giuseppe Santovito e per suo tramite contatto privilegiato di Franco Di Carlo con il mondo dell’intelligence, trovato impiccato al porta asciugamani del bagno nel suo appartamento all’Eur, il 16 luglio del 1995. Un’altra morte rimasta avvolta da mistero: la posizione del corpo, la ripulitura dell’appartamento da parte di non meglio precisati emissari, le relazioni pasticciate dei primi agenti.
Ma chi era davvero Nino Gioè? Un uomo della mafia o un uomo di una certa parte dello Stato? O di tutte e due insieme? E con chi aveva iniziato a parlare nel penitenziario romano di Rebibbia, unico tra gli stragisti a scontare solo un giorno di carcere duro al 41 bis?
Dal processo d’appello sulla ’ndrangheta stragista, in corso a Reggio Calabria, è venuto fuori, lo ha riportato Repubblica, che Gioè si apprestava a collaborare. Molti indizi convergono. Tuttavia non ci sono tracce di verbali, né di colloqui investigativi. Chi erano dunque gli interlocutori? Chi poteva permettersi il lusso di entrare a Rebibbia, parlargli e non lasciare tracce. Gioè, formalmente detenuto pericolosissimo perché stragista, godeva di un certo trattamento di favore.
Santino Di Matteo che ha condiviso lo stesso carcere con lui prima di essere trasferito all’Asinara, ha raccontato di essersi molto stupito quando, vedendolo da una finestra nel cortile interno di Rebibbia, gli raccontò che aveva colloqui giornalieri con il fratello e riceveva buon cibo dell’amministrazione. «Rimasi colpito perché a noi non era concesso neanche il pane», si insospettì Di Matteo. Le carceri, in quel momento storico, si erano trasformate in incubatori di potenziali nuovi collaboratori. Ma all’opera, per stimolare le voci di dentro dall’universo mafioso, c’erano molte figure impegnate a indirizzare le rivelazioni, ben prima che approdassero a verbali ufficiali redatti davanti ai magistrati.
Qualunque fosse stata davvero la scelta di Gioè lo deve aver tormentato. Gino La Barbera, suo amico e allievo, pure lui a Rebibbia, notò che si era lasciato andare: barba lunga e capelli arruffati. Da Radio Carcere seppe che Gioè giustificava l’aspetto trasandato con la necessità di dissimulare le proprie sembianze in vista di eventuali confronti e riconoscimenti. Ma la cosa non convinse l’amico. La storia del presunto suicidio di Gioè che tanto inquietava il magistrato Loris d’Ambrosio, consigliere giuridico del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, a colloquio, intercettato, con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, ha da sempre il sapore di una messinscena.
Gioè si sarebbe tolto la vita annodando i lacci delle scarpe, che in teoria non avrebbe dovuto avere, al terzo anello della grata della cella che occupava da solo, lasciandosi poi cadere da un’altezza minima. Il cappio lasciò però un segno al collo come se fosse stato tirato dal basso, il corpo presentava dei segni compatibili con uno strangolamento alle spalle e alcune costole erano fratturate. «Nel tentativo di rianimarlo», testimoniarono gli agenti penitenziari. Anche se le costole rotte erano molto più giù del cuore. Ma fu lo stato dei luoghi a sconcertare. Sotto alla finestra c’era un tavolino, attaccato al muro e con la cena al suo posto. Tutto in ordine, come se la scena fosse stata ricomposta, non ha potuto mancare di notare il funzionario della Dia Michelangelo Di Stefano davanti al pm Giuseppe Lombardo al processo di Reggio Calabria.
Sul tavolo della cella, una lettera di commiato di sei pagine con una grafia che cambia in corso di scrittura in cui Gioè si definiva «un mostro» che «ora sta ritrovando la serenità». Non un riferimento esplicito al suicidio e invece una sorta di liberatoria per alcune delle persone che involontariamente aveva fatto arrestare, tra cui il boss della ‘ndrangheta Domenico Papalia. Dopo Capaci, con La Barbera, Gioè si era rintanato, sebbene non fosse ufficialmente ricercato, nel covo di via Ughetti, a Palermo e lì, ignaro di essere intercettato dalla Dia, aveva parlato a ruota libera. La Barbera aveva fatto riferimento «all’attentatuni», aprendo uno squarcio sulla composizione del gruppo che avrebbe portato alla verità giudiziaria sulla strage di Capaci.
Strano posto via Ughetti, frequentato anche da una coppia di agenti del Sisde amanti clandestini. L’improvvida chiacchierata di Gioè con La Barbera fu il secondo dei gravi infortuni della sua carriera di mafioso iniziata nel 1976. Il primo gli era costato il carcere quando di anni ne aveva 31. Aveva dimenticato una pistola in una trattoria di Palermo. E quando era andata a riprenderla aveva trovato i poliziotti del capo della Mobile, Boris Giuliano. In quel 1979, attraverso una bolletta che aveva in tasca, gli agenti erano risaliti al covo ancora caldo del boss corleonese Leoluca Bagarella in via Pecori Giraldi e avevano messo le mani su una partita di eroina e su una valigia di soldi provenienti dall’America. Giuliano fu ucciso quello stesso anno. Gioè che aveva inguaiato i suoi, rimediò una condanna a 11 anni e 10 mesi. Gliene abbuonarono un bel po’ e nell’86 riassaporò la libertà. Dopo un periodo da soggiornante obbligato a Moncalvo, vicino ad Asti, nel 1990, andò ufficialmente a lavorare da benzinaio nell’impianto della sorella ad Altofonte. E, incredibilmente, frequentava ancora lo stesso covo di via Giraldi. A marzo del 1992 aveva già cambiato lavoro. Era operaio presso la ditta edile di Altofonte che aveva la manutenzione dei cunicoli dell’autostrada di Capaci. Un furgone bianco di quella ditta fu notato anche alla vigilia dell’attentato da due testimoni. Uno era un poliziotto ma poi senza ragione apparente cambiò versione. Gioè ebbe ancora il tempo, tra Capaci e via D’Amelio, di eliminare il boss di Alcamo, Vincenzo Milazzo. Lo avevano attirato in trappola per interrogarlo. Volevano chiedergli della parentela della sua compagna con un agente dei servizi. Ma mentre era in corso l’interrogatorio, Gioè affrettò i tempi e freddò Milazzo. L’indomani toccò anche alla compagna che era incinta. E anche quelle furono tappate.