Anziani in fila dall’alba per avere le prescrizioni delle ricette e sempre meno professionisti, costretti a occuparsi di duemila pazienti a testa. Così la promessa di tornare a preoccuparsi per la medicina di prossimità è stata tradita. Anche nella ricca Lombardia, la regione colpita più duramente dalla prima ondata di Covid

L’ultima arrivata resta in piedi, di fianco alla porta da cui entrano le fiamme di agosto. Da giorni la pianura padana è un microonde: muoversi è boccheggiare nell’afa inedita per intensità e durata che il cambiamento climatico impone.

 

La signora appena entrata vacilla. «Chi viene prima di me?», chiede, poi si appoggia allo stipite. Ha una busta di plastica in una mano, nell’altra un plico di fogli bianchi e rossi. Sono ricette di farmaci, «devo solo ripeterle», spiega, deve cioè rinnovare delle prescrizioni per una malattia cronica. La sala d’aspetto dell’unico studio medico di base aperto, a Levate, è gremita. In questo borgo della provincia bergamasca, case nuove e abitanti in crescita lungo l’asse Milano-Bergamo-Brescia, la piazza e le strade sono vuote, fa troppo caldo. Mentre qui, sopra i gradini del dottore, sembra un ritrovo, quasi non ci si muove dalla gente che c’è. Non sono qui perché fa fresco. Ma perché a Levate l’emergenza è la sanità, più che la temperatura.

 

Metà degli abitanti del paese è senza medico di base, senza una persona di fiducia a cui rivolgersi. Sono andati in pensione due dottori e da allora tremila cittadini si muovono nel caos. «Mia madre ha 91 anni, ieri non stava bene. Siamo partite e siamo andate al pronto soccorso dell’ospedale di Treviglio. Codice Bianco. Abbiamo aspettato tutto il giorno. Finalmente entriamo e il dottore scocciato ci fa: “Eh ma per queste cose deve andare dal suo medico di base”. Ma se io non ce l’ho il medico di base! Cosa devo fare eh?», racconta una donna, capelli ricci, leggins rosa, ogni parola che passa detta con più rabbia: «Adesso sono qui per chiedere se ci fanno le ricette, anche se non siamo pazienti registrati, perché altrimenti...».

La provincia di Bergamo ha pagato un tributo di vite e sofferenza altissimo alla prima ondata della pandemia. Sono passati due anni dal 3 marzo del 2020 e la paura non si è sciolta. A Nembro gli “Andrà tutto bene” sono ancora appesi, sbiaditi, alle finestre. Ad Alzano Lombardo, luogo della mancata zona rossa, si commemorano ogni marzo le vittime in piazza. In questa provincia di Bergamo, insomma, che nel pieno dell’epidemia urlava al Paese l’importanza della medicina del territorio, della cura di prossimità, che chiedeva di non lasciare indietro i fragili perché quando una catena di casi impatta gli ospedali è troppo tardi, in questa provincia di Bergamo, insomma, ci sono ventiduemila abitanti senza medico di riferimento. 22.079, per l’esattezza, come ricordava a luglio la stessa direzione sanitaria. Mancano 105 professionisti, per completare gli ambiti scoperti, aggiungendosi ai 559 medici di base attualmente in servizio. Risultato: ci sono 22mila residenti che sono rimasti del tutto senza figura di fiducia. Per ogni medico che è andato via, in pensione o a fare altro, è saltata la copertura dell’ambito.

 

La mancanza di medici territoriali è sintomo di una carenza strutturale che riguarda tutta la Lombardia, come mostrava L’Espresso qualche settimana fa. Questo problema di organico, strutturale, se vissuto paese per paese è smarrimento, nervosismo, e un’Istituzione che arretra. L’Azienda sanitaria di Bergamo ha provato a rispondere all’emergenza potenziando all’inizio la “Continuità assistenziale diurna”, l’ex guardia medica. Prima era uno sportello aperto solo durante i weekend. In primavera è stato esteso e potenziato per i comuni più scoperti. A Treviglio, trentamila abitanti, un terzo dei residenti era senza medico: sei andati via, nessun passaggio di testimone. Per loro la continuità assistenziale ha significato stare al telefono su due numeri di centralino, disponibili due ore al giorno, dalle 9,30 alle 11,30 di mattina, per essere smistati da medici che di volta in volta si rendevano disponibili a una ricetta o a un controllo. «Ho chiamato, sa cosa mi hanno detto? Che c’erano 70 pazienti prima di me. Ho rinunciato», commenta una signora che alla fine è venuta qui: «A un mio parente l’hanno mandato a 15 chilometri da casa sua». «Senta, può portare dentro lei queste ricette se la chiamano? Grazie!», chiede una vicina: «Così intanto vado a ritirare i sacchi per l’umido in Comune».

 

La gente si organizza. «Si prega di non introdurre in questo ufficio buste di ricette in assenza della segreteria», è scritto in stampatello fuori dalla porta della Continuità assistenziale di Treviglio, di fianco alla farmacia. «Io ho paura a portare mio papà al Pronto Soccorso. Piuttosto vengo qui alle sette, come ho fatto l’altro giorno, e aspetto fino alle due per esser ricevuta. Anche se devo chiedere le ferie», dice una donna dall’aria mite (sono tutte donne nella sala d’attesa di Levate, questa mattina). Dal primo agosto anche l’Azienda territoriale di Bergamo ha accantonato la Continuità assistenziale, sostituita da un servizio che permette ai senza-medico di andare in farmacia e consultare i dottori che si sono resi disponibili quel giorno, attraverso un portale, per andare nelle relative sale d’attesa con i propri plichi di ricette, i problemi da risolvere, i dubbi di salute.

 

A luglio un bando della Direzione sanitaria ha ricevuto però la risposta positiva di 15 nuovi medici di base, neo-vincitori di concorso. Da soli potrebbero coprire, prendendosi carico di 1.500 pazienti a testa, 22mila cittadini, ovvero l’intero fabbisogno della provincia scoperta. Tutto risolto? Non proprio. Perché come spiega Michele Sofia, direttore sanitario dell’Agenzia di tutela della salute di Bergamo, i medici di base sono liberi professionisti: non può essere il servizio pubblico a decidere dove prenderanno sede. Per quanto ci siano aree disperate, dove gli abitanti hanno urgenza di avere risposte, ed altre dove in qualche modo invece ci si è arrangiati, saranno i neo vincitori a decidere dove aprire il proprio studio. «Possiamo giusto provare con la moral suasion», spiega Sofia: «Niente di più». Il 28 luglio avrebbe dovuto essere pubblicata la mappa dei luoghi scelti dai nuovi professionisti di ruolo, ma ancora non se ne ha notizia. «Stiamo parlando con i sindaci», spiegano dalla direzione. Il tentativo è probabilmente quello di individuare servizi e strutture che possano convincerli a trasferirsi dove c’è più bisogno. Ma se 15 medici potrebbero risolvere la questione, perché ne mancano 105 per completare l’organico previsto?

Perché in questi ultimi mesi molti hanno fatto come Roberto Longaretti, il dutùr della Val Cavallina, studio a Borgo di Terzo, certezza granitica del territorio. Longaretti questa mattina si è alzato alle sette, ha acceso il telefono, e iniziato a rispondere. La prima chiamata è stata alle 7,15, con un collega, per organizzare una trasfusione a domicilio per un paziente oncologico. Alle otto e mezzo è arrivato in studio e ci è rimasto fino alle due. Nel pomeriggio andrà alle visite domiciliari. Longaretti è una risposta perché vista la mancanza di colleghi ha alzato il proprio bacino a 2.000 pazienti, rispetto ai 1.500 della media. «Non è impossibile, se ci si organizza bene, con un ufficio di segreteria che dia una mano, e una infermeria dove appoggiarsi.

 

L’importante è riuscire a dedicare più tempo possibile alle visite». Arianna Alborghetti ha 37 anni e si è inserita ad aprile del 2019 in uno studio medico di Bergamo: «Per me la soluzione è la medicina generale di gruppo», racconta: «Qui siamo cinque colleghi, condividiamo le spese per segreteria e l’infermeria, ci diamo supporto sulle sostituzioni... è utile e funziona». Anche lei ha alzato il bacino a 1.600 pazienti, «ma oltre non riesco, non potrei più fare le visite a domicilio, che dopo il Covid-19 sono raddoppiate, perché comunque il carico burocratico è alto e non possiamo affidarlo ad altri». «Ho avuto l’incredibile fortuna di trovare un sostituto, e fra poco potrò andare in vacanza. Ma non è scontato», racconta Marco Agazzi, dottore di Ponte San Pietro, 12mila abitanti nella bassa Bergamasca: aveva 1.300 pazienti a carico, ora è salito a 1.700: «Gli ambiti scoperti sono tanti. Sia in cittadine come Treviglio, che nelle valli, dove gli anziani restano soli. Sono dieci anni che facciamo presente il problema nei palazzi della Regione. Non possono dire “non lo sapevano”». Il medico di base, dice Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, «è la porta d’ingresso al Sistema sanitario nazionale. La continuità e la fiducia nel rapporto medico-paziente dovrebbero essere la base della nostra professione. E adesso in molte zone è praticamente impossibile. È inaccettabile».

 

«L’unica soluzione», aggiunge Marinoni: «È aumentare gli accessi ai corsi di formazione. Ma per quanto potrà andar bene, è una proiezione che ci vede inseguire i vuoti ancora per 4/5 anni». Marinoni ha una lunga esperienza, ed è concreto nelle risposte che immagina: «Lo stipendio di un medico è buono - sono circa tremila euro al mese, detratte le spese. Se potenziassimo gli strumenti per i servizi di supporto - per affitti, assunzione di personale amministrativo e infermieristico, gestione delle sostituzioni - potrebbe essere più invitante anche per le giovani generazioni, magari, che invece dopo anni di studi universitari sono ovviamente più affascinate da altre specializzazioni». Melania Cappuccio è passata da 30 anni di esperienza nei reparti di Geriatria e nella direzione di una Rsa a uno studio di medicina di base ad Albino. «Vorrei diventare una sorta di “geriatra territoriale”, perché è un bisogno fortissimo», racconta: «Se ben affrontata, la medicina generale è una bellissima professione, che permette di spaziare nelle branche. Instradare il paziente verso i giusti quesiti diagnostici è fondamentale, così come aiutare ad avere informazioni rispetto alle possibilità di cura». Anche Cappuccio lamenta il carico di adempimenti burocratici, fra ricette e fascicoli, che deve seguire, «ma se ci si organizza bene, si alleggeriscono».

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La Regione adesso sta seguendo la via delle Case e gli Ospedali di comunità, luoghi dove medici di base e specialisti dovrebbero essere disponibili a una presenza ambulatoriale, così da permettere ai pazienti di trovare soluzioni diverse in un solo luogo, senza approdare alle strutture ospedaliere. Il Pnrr ci ha investito 3,2 miliardi di euro. Le inaugurazioni delle nuove sedi si susseguono anche nella Bergamasca, ma la percezione cittadina è ancora confusa e l’adesione effettiva dei professionisti resta un’incognita su cui lavorare sede per sede. Si vedrà. «Intanto vuole sapere come funziona veramente, qui?», chiede una donna sulla cinquantina, accendendosi una sigaretta, sul muretto fuori dallo studio medico di Levate: «Funziona che il medico che è andato in pensione riceve ancora, a casa sua. Da libero professionista, in forma privata. Sono quaranta euro per una visita di giorno, 80 se la telefonata è notturna. Non può più firmare le ricette, però, per cui alla fine andiamo da lui per la visita, e poi facciamo la coda qui la mattina per avere le carte».