La grande abbuffata

Vincenzo De Luca e gli altri governatori in corsa per la terza volta beffando la legge

di Sergio Rizzo   21 aprile 2023

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Una norma del 2004 vieta il terzo mandato. Ma il presidente in Campania si prepara lo stesso, grazie a un cavillo. Come è già accaduto con Formigoni in Lombardia e Zaia in Veneto

Se in Italia c’è una regola, è che le regole non si applicano: si interpretano. E quanto più rigide sembrano, più larghe sono le scappatoie per aggirarle. Con questa regola ha cominciato a farci i conti Elly Schlein ancor prima di essere eletta.

La prima guerra interna al Partito Democratico si combatte in Campania, feudo di Vincenzo De Luca. L’ex sindaco di Salerno e presidente della Regione ha costruito un sistema locale di potere granitico, assicurandosi anche una nutrita discendenza politica familiare. Il primogenito Piero è deputato del Pd dal 2018 mentre il secondogenito Roberto si è fatto le ossa come assessore al bilancio dello stesso Comune di Salerno dopo l’uscita del papà.

E a dividere le anime del partito è oggi proprio l’incarico attuale di De Luca senior. Nel 2025 scade il suo secondo mandato alla guida della Regione. Allora avrà 76 anni, ma a farsi da parte non ci pensa affatto. Infatti ha già messo le mani avanti: vuole fare il terzo mandato da “governatore”, come impropriamente abbiamo preso a definire i presidenti delle Regioni dopo la riforma costituzionale del 2000.

E qui è scoppiato il caso.

La segretaria del partito, eletta grazie al voto allargato ai non iscritti, è contraria. Mentre non è difficile immaginare perché il suo avversario alle primarie Stefano Bonaccini, largamente preferito dall’apparato, sia invece favorevole. Nella competizione persa per la segreteria del Pd aveva raccolto il potente sostegno di De Luca. Senza poi considerare che pure lui è presidente della sua Regione, l’Emilia-Romagna, al secondo mandato.

Il braccio di ferro è durissimo, tanto che Elly Schlein ha commissariato il partito in Campania. Anche se il commissario Antonio Misiani, già tesoriere del Pd di Pier Luigi Bersani, sulla spinosa questione del terzo mandato si è già messo sulla difensiva: «Il tema è nazionale e ci sarà una posizione del Pd nazionale». Formula classica per uscire dall’angolo quando non sai che pesci pigliare.

Misiani non può non sapere che il caso De Luca va ben oltre i destini politici della Regione. E perfino oltre la questione degli equilibri di potere interni al partito. Qui c’è in ballo il ruolo istituzionale delle Regioni, che si stanno trasformando pian piano in piccole repubbliche. Con presidenti inamovibili che gestiscono enormi risorse e prerogative sempre più grandi e incontrollati, fino a trasformarsi in potenti capibastone indipendenti dal partito ma capaci di influenzarne pesantemente le scelte. E il disegno di legge sull’autonomia differenziata di Roberto Calderoli non ostacola di sicuro questa degenerazione.

Il problema è che la bulimìa regionale non piace solo alla Lega, ma sotto sotto seduce anche pezzi del Pd. Ecco allora che dopo De Luca pure il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, che al contrario ha sostenuto alle primarie Elly Schlein, si manifesta disponibile a un terzo mandato. Mentre Bonaccini la butta lì: «Il tema è legato a leggi che ci possono essere; e se ci sono, in democrazia, allora lo si può fare. Poi sono i cittadini a decidere se uno può continuare a fare il presidente».

E qui veniamo alla regola di cui si parla all’inizio dell’articolo. Le regole ci sono da tempo. Esattamente dal 2004: legge numero 165 del 2 luglio, articolo 2, primo comma, lettera f). L’ha partorita il secondo governo di Silvio Berlusconi e fra gli altri porta anche la firma del ministro per le Riforme e la Devoluzione (sigh!) Umberto Bossi. È stata fatta, osservando l’articolo 122 della Costituzione che attribuisce allo Stato il potere di fissare «la durata degli organi elettivi», proprio allo scopo di evitare che le Regioni diventassero feudi personali. Perciò stabilisce che il presidente di Regione eletto direttamente dal popolo non può restare al potere più di due mandati consecutivi: dieci anni al massimo. E sono già tanti.

C’è solo un piccolo particolare. Proprio in ossequio di quell’articolo della Costituzione, che nelle due righe precedenti affida alle Regioni il compito di decidere le modalità per l’elezione del presidente e dei consiglieri, la legge 165 prescrive che siano le stesse Regioni a introdurre con proprie leggi il limite dei due mandati nell’ordinamento regionale.

Semplicemente un atto dovuto, perché la norma nazionale prevale su quella regionale. Ma se la legge regionale non si fa? Non accade nulla. La faccenda è finita anche alla Corte d’Appello, che però non è stata in grado di risolverla. O meglio, ha sentenziato che il limite di due mandati sarebbe efficace senza legge regionale. Azzerando però il conteggio al momento dell’entrata in vigore della legge nazionale.

 

Grazie a tale “interpretazione” della regola Roberto Formigoni, eletto nel 2005 presidente di Regione per la terza volta consecutiva, ha potuto fare il terzo e poi anche il quarto mandato. Nel 2013 si è alzato dopo 18 anni da quella poltrona, per trasferirsi in Senato. C’era allora in tutta Europa soltanto una persona che aveva potere su un territorio di 10 milioni di abitanti, come la Lombardia, da più tempo del “Celeste”. Alexander Lukashenko, presidente della Bielorussia dal 1994.

Ma quella “interpretazione” della regola ha favorito anche un presidente del centrosinistra qual era Vasco Errani, che ha potuto fare tre mandati. Più lo scampolo di un quarto prima che entrasse in vigore nel 2000 la legge sul suffragio universale regionale. E idem l’ex presidente del Molise Michele Iorio.

A differenza della Lombardia, che la legge non l’ha mai fatta, l’Emilia Romagna invece l’ha approvata. Il che metterebbe in crisi le eventuali aspirazioni di Bonaccini. Ma quanto a creatività la patria del diritto non ha eguali. Guardate, per esempio, come ha fatto la Regione Veneto a consentire a Luca Zaia di restare in sella per la terza volta. La legge regionale sul limite dei due mandati è stata approvata nel 2012, quando Zaia era già presidente da un paio d’anni, ma con la postilla che i due mandati si calcolano solo a partire dal successivo. Nessuno ha alzato un dito. Il governo, che in dieci anni ha impugnato davanti alla Consulta centinaia di leggi regionali, si è ben guardato dal farlo. Allora a palazzo Chigi c’era Mario Monti.

Logico quindi che al lodo Zaia punti anche De Luca. Che diceva il 3 agosto 2021: «Faremo quello che ha fatto la Regione Veneto e che hanno fatto altre Regioni. Da quando si approva la legge elettorale della Campania scatta la norma dei due mandati, niente di particolarmente innovativo». E così parlava pochi giorni orsono: «Staremo qui ancora per molti, molti anni…». Confidando magari di riuscire a battere il record di Formigoni. O addirittura quello di Luis Durnwalder, presidente della Provincia autonoma di Bolzano ininterrottamente per 25 anni, dal marzo del 1989 quando ancora non era caduto il muro di Berlino e fino al gennaio 2014, con Matteo Renzi che si apprestava a scalzare Enrico Letta da palazzo Chigi.

Quella norma fotocopia della legge targata Zaia però non è ancora spuntata in Campania. Forse solo in attesa di una spallata più grossa con una legge nazionale sulle ineleggibilità, come si sta già studiando per i sindaci. Perché di sicuro quella storia dei due mandati sta sullo stomaco quasi a tutti i partiti. Se non fosse così, in quasi vent’anni da che esiste in teoria quel vincolo qualcosa per farlo rispettare sarebbe saltato fuori. O no?