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La famiglia La Russa, una dinastia al potere da 52 anni
Da Antonio ai figli Ignazio e Vincenzo, il democristiano: nell'ultimo mezzo secolo c'è sempre stato almeno un membro della famiglia seduto in Parlamento. Dal legame con Ligresti - finito nel mirino del camerata Tomaso Staiti di Cuddia - alla scalata al potere passando dal ministero della Difesa fino a oggi
Da 52 anni in Parlamento c’è sempre stato un La Russa. Talvolta anche due. Il papà Antonino al Senato e il suo primogenito Vincenzo alla Camera. O il secondogenito Ignazio alla Camera e il primogenito Vincenzo al Senato. Nemmeno nello stesso partito: uno nella maggioranza, il democristiano Vincenzo, “pecora bianca” in una famiglia votata al nero, e uno all’opposizione missina. Papà o fratello minore.
Bersagliati inaspettatamente, un bel giorno, anche dal fuoco amico: «In un certo mondo finanziario che passa attraverso Ursini e arriva a Ligresti, c’è una presenza costante di un senatore del Msi, Antonino La Russa. In questa famiglia ci sono un senatore missino, un ex deputato dc, Vincenzo, e un uomo di spicco del Msi che è Ignazio La Russa. A Milano questa situazione ha impedito, almeno psicologicamente, al partito, di svolgere la sua opposizione». Corre l’anno 1989, sindaco di Milano è Paolo Pillitteri. È socialista e cognato del leader del Psi Bettino Craxi, che ha un rapporto speciale con Ligresti che a sua volta ha un rapporto speciale con La Russa senior. Ergo, il Msi a Milano avrebbe le polveri bagnate.
Chi lancia questa micidiale accusa contro i suoi stessi camerati in una intervista all’Europeo risponde al nome di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse. Deputato missino dal 1979 al 1992 è per tutti il «barone nero». Un battitore libero. Sfida Giorgio Almirante per la segreteria del partito e poi si schiera contro Gianfranco Fini. Tifa Pino Rauti, è sempre elegantissimo, ma odia i fascisti in doppiopetto.
Ha la lingua tagliente e la mano pesante. Schiaffeggia Giovanni Goria alla Camera e racconta di aver schiaffeggiato anche La Russa, ma chissà com’è andata veramente. Il fatto è che Staiti ha un posto in Parlamento e pure nel comitato centrale del partito. È stato segretario provinciale a Milano e, per quanto impenitente, estremista, minoritario e manesco, le sue parole non sono quelle di uno che passa di lì per caso.
«C’era un tumore a Milano, nutrito dai legami fra la famiglia La Russa e i Ligresti. Il combinato disposto tra politica e affarismo», ricorda velenoso quasi un quarto di secolo dopo in un’altra intervista, a Silvia Truzzi e Gianni Barbacetto del Fatto Quotidiano. Da cosa derivi tanto astio non si è mai capito fino in fondo. Ma quando il barone nero dice che «a Milano, per vent’anni, tutto un mondo è stato nelle mani della famiglia La Russa: da Virgillito a Ursini, fino a Ligresti», passa dal giudizio politico alla cronaca.
Nel 1938, durante la fase più brutale del regime, Antonino La Russa, classe 1913, è il giovane federale di Paternò. Fascista a trazione integrale, nel 1953 cerca di farsi eleggere alla Camera, quando l’inibizione quinquennale al seggio repubblicano imposta agli ex gerarchi è ormai scaduta. Ma invano. Poi incontra Michelangelo Virgillito. Anche lui è di Paternò ma ha passato più tempo a Milano, dove ha fatto un sacco di soldi in una borsa valori ancora senza regole. In pochi anni mette le mani sulla Liquigas e il gruppo tessile Lanerossi e l’avvocato La Russa diventa il suo uomo di fiducia, in tandem con un personaggio ancora più spericolato di Virgillito. È il calabrese Raffaele Ursini, che ben presto ne raccoglie il testimone. Sono anni facili per chi sa giocare ai tavoli del Far West dell’economia italiana. Ci sono un sacco di soldi pubblici, quelli della Cassa del Mezzogiorno e delle banche d’investimento statali, e come giocatore d’azzardo Ursini non ha rivali. Dopo la Liquigas conquista la Pozzi-Ginori e la Sai della Fiat. Ma si è indebitato fino al collo, così deve vendere e nel Far West trova uno ancora più svelto di lui. Salvatore Ligresti è di Paternò come Virgillito e La Russa. Della Sai ne fa un sol boccone, ma deve dire grazie ad Antonino La Russa se riesce anche a respingere la controffensiva di Ursini.
Da allora il sodalizio fra i due è a prova di bomba. Nulla può metterlo in crisi, neppure la politica. La Russa è un senatore del Msi, partito che considera Mediobanca e il suo patron Enrico Cuccia poco meno che nemici. Nel 1985 chiede addirittura con una risoluzione parlamentare di mandarlo a casa: «A parte il problema dell’età, va considerato che Cuccia ha gestito per 40 anni Mediobanca talvolta partorendo anche dei mostri».
Si dà il caso che uno di questi sia proprio Ligresti, il sodale di La Russa senior. Legatissimo, per giunta, a Craxi. Ma di fronte al potere degli affari anche la fede politica passa in secondo piano. E qui siamo al cospetto di un rapporto che travalica le semplici relazioni professionali. Ecco allora che nel consiglio di amministrazione della Fondiaria-Sai, la compagnia nata dalla fusione fra la Sai e la Fondiaria conquistata da Ligresti con l’aiuto di Mediobanca, si installa per 14 anni Vincenzo La Russa, il figlio democristiano di Antonino. Proprio mentre papà Antonino è consigliere di Premafin, la holding di Ligresti. Ci resta fino alla sua morte, nel 2004, e allora gli subentra il nipote Antonino Geronimo La Russa, primogenito di Ignazio.
Il futuro presidente del Senato è parlamentare e non ha incarichi nella galassia di Don Salvatore, che dopo la morte di Cuccia già comincia a scricchiolare. Non lesina però l’assistenza legale. Nel 2013 salta fuori da una verifica ispettiva dell’Isvap che Ignazio La Russa ha incassato fra il 2008 e il 2009 parcelle per 451 mila euro da FonSai e Milano assicurazioni. In quel momento lui è ministro della Difesa nell’ultimo e disastroso governo di Silvio Berlusconi e precisa che si tratta di onorari per attività svolte prima di assumere l’incarico di governo.
Morto Cuccia e morto pure il suo successore Vincenzo Maranghi, l’impero Ligresti sommerso dai debiti si sgretola. Ma la famiglia La Russa non segue quel destino: di sponsor nel fu salotto buono adesso ne può fare a meno. A Milano e in Lombardia ormai comandano loro. Dopo una legislatura al Parlamento europeo il fratello minore Romano La Russa è assessore regionale della giunta di Roberto Formigoni. Qualche anno dopo di nuovo in quella di Attilio Fontana, ed è francamente difficile dire chi dei due conti di più.
Il capo indiscusso però è Ignazio, imbattibile nel tenere insieme i fili degli affari e della politica. E la sua nomina a ministro della Difesa nel 2008 rappresenta senza dubbio una svolta. Forse decisiva per la successiva scalata al potere. Entra al ministero accompagnato da due sottosegretari ben ferrati in materia. Uno è Guido Crosetto, che fonderà Fratelli d’Italia con il ministro e Giorgia Meloni, ma sarà pure presidente dell’Aiad, l’associazione delle imprese della difesa. L’altro è Giuseppe Cossiga, il figlio dell’ex presidente della Repubblica: quando Crosetto diventa ministro prende lui il suo posto al timone della lobby delle industrie militari. Una staffetta così studiata da escludere coincidenze.
Ma c’è una terza persona che segue La Russa al ministero. Si chiama Filippo Milone e sembra l’anello di congiunzione fra i due mondi: quello politico e quello degli affari. Consigliere del ministro della Difesa, non è uno sconosciuto nella galassia Ligresti. È presidente di Quintogest, impresa controllata da Fondiaria Sai. Nonché consigliere della Sviluppo Centro est, società fra Ligresti, Toti e i costruttori Santarelli. Nel crepuscolo della prima Repubblica gestisce la Grassetto, impresa di costruzioni di Ligresti poi finita nel vortice delle inchieste di Tangentopoli. E lui s’immola. A partire dal tintinnio delle manette fino ai processi per corruzione subisce tutte le traversie di quella stagione. Sperimentando ogni brivido che la ruota della giustizia sa offrire, dalla sospirata prescrizione allo zuccherino della riabilitazione.
Milone però non è soltanto questo. Con La Russa condivide anche la fede politica. Prima e dopo la nascita del suo partito. Oggi è presidente del Secolo d’Italia, consigliere di Italimmobili (l’immobiliare del partito) e della Fondazione Alleanza nazionale (la cassaforte del partito) nonché componente della commissione di disciplina e garanzia di Fratelli d’Italia.
Quando cade l’ultimo governo Berlusconi e arriva Mario Monti è l’unico, assieme a Vittorio Grilli, a venire promosso: da consigliere dell’ex ministro a sottosegretario, nientemeno. A differenza di Grilli, per meriti squisitamente politici. La Russa riesce incredibilmente a ottenere che resti alla Difesa. Anche a dispetto dell’opportunità. Il giorno seguente al giuramento dei sottosegretari Fiorenza Sarzanini racconta sul Corriere della Sera che «durante l’interrogatorio di fronte al pm Paolo Ielo a Borgogni è stato chiesto di chiarire a che titolo avrebbe versato soldi a Filippo Milone, ex capo della segreteria di La Russa». Borgogni è Lorenzo Borgogni, manager di Finmeccanica, la principale industria della Difesa, all’epoca sotto inchiesta assieme all’amministratore delegato Pier Francesco Guarguaglini.
Ma illazioni a parte, una ragione concreta per la permanenza di Milone al ministero in realtà c’è, eccome. L’ultimo atto della gestione La Russa è la costituzione di una società per azioni, Difesa servizi spa. E bisogna sorvegliare che non venga soppressa nella culla dai nuovi arrivati. La società è un’idea del sottosegretario Crosetto, che la realizza con l’aiuto del suo consigliere Luca Andreoli, ufficiale dei carabinieri. Al di là dei numeri (67 milioni di fatturato e 6 di utili netti nel 2022) è una società strategica per la gestione del potere nel settore militare. Oltre alla valorizzazione economica delle caserme, si occupa della formazione del personale specializzato per l’uso degli armamenti e della sperimentazione militare. Per non parlare delle sponsorizzazioni e della pubblicità. È una delle poche società pubbliche non dipendenti dal Tesoro, perché l’azionista è il ministero della Difesa. Che dunque procede anche alle nomine senza interferenze esterne.
E chi è oggi l’amministratore delegato e direttore generale? Luca Andreoli. L’ha nominato Crosetto a pochi mesi dal suo ritorno al ministero, al posto di Pier Fausto Recchia, ex deputato del Pd insediato al vertice della società dalla ministra dem Roberta Pinotti. A dimostrazione del fatto che la lottizzazione non conosce confini di partito.
Mai però, con l’occasione del rinnovo, si era assistito all’occupazione politica totale delle poltrone. Presidente è stato nominato Gioacchino Alfano: ex Pdl e Nuovo centrodestra, è sottosegretario alla Difesa al posto di Milone con i governi Letta, Renzi e Gentiloni. Gli altri tre consiglieri sono l’ex deputato del Ccd (e poi Margherita) Mauro Fabris, l’ex senatrice forzista passata alla Lega Anna Carmela Minuto e la vicepresidente della Provincia di Trento Francesca Gerosa, di Fratelli d’Italia.
Un assaggio del nuovo corso si è avuto ben presto, con il calendario 2024 dell’Esercito prodotto da Giunti su licenza di Difesa servizi e il contributo di Leonardo, Iveco veicoli militari e Beretta. «Per l’Italia sempre», recita il titolo, con la precisazione che «sempre» significa «prima e dopo l’8 settembre 1943». Interpretabile senza troppi sforzi in una specie di riabilitazione subliminale del periodo fascista. Sponsor del singolare slogan, la sottosegretaria Isabella Rautidell’esecutivo di Fratelli d’Italia, figlia del fondatore di Ordine nuovo Pino Rauti.
Clamoroso il contrasto con il calendario del 2023, progettato prima dell’arrivo della destra al governo, che diceva invece «A testa alta…da Porta San Paolo a Mignano Monte Lungo i 98 giorni che portarono alla riscossa». Quale riscossa? Quella dell’esercito italiano dopo l’8 settembre 1943 contro gli invasori nazisti.