Inchiesta

Misteri e segreti della Chiara Ferragni S.p.a.

di Gloria Riva   11 marzo 2024

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Una rete ingarbugliata di società. Una girandola di quote azionarie. Partner ingombranti. Dipendenti pagati poco. L’influencer è a capo di un impero dove la trasparenza non è di casa

Nonostante il mea culpa e l’assoluzione da Fabio Fazio, continua a non essere un buon periodo per Chiara Ferragni. Da quando è esploso il caso Balocco, le «sfighe», come le ha definite l’influencer più famosa d’Italia, si sono inanellate, una via l’altra, formando un intero rosario della iella, sgranato solo in parte. Tutto ha inizio a dicembre, quando l’Antitrust multa le sue società per un milione di euro per pratica commerciale scorretta: hanno fatto intendere ai consumatori che, acquistando il pandoro Balocco griffato Ferragni, avrebbero contribuito a una donazione a favore dell’Ospedale Regina Margherita di Torino. Ma la donazione (50 mila euro) era stata già effettuata dalla sola Balocco. E non ne sono seguite altre.

 

Scatta in parallelo l’inchiesta della Procura di Milano che indaga Chiara Ferragni per truffa aggravata per pubblicità ingannevole nella beneficenza anche per le uova di Pasqua, la bambola Trudi e i biscotti Oreo. A quel punto i brand, come Safilo, Coca-Cola, Cartiere Paolo Pigna, Pantene, prendono le distanze. A fine gennaio l’albergatore valdostano che l’aveva ospitata a Champoluc era stato colpito da un’onda di shitstorm, ovvero disparati insulti via Instagram. Ma finita la buriana, i gestori dicono di avere guadagnato 10 mila follower e aver aumentato le prenotazioni. Un buon segnale per Ferragni, che gode ancora di massiccio seguito, un siluro per il mondo leale e legale della beneficenza, che vive di fiducia e sta uscendo con le ossa rotte da questa storia: a rimetterci è soprattutto chi davvero fa raccolta fondi per ricerca, cure sanitarie, poveri, minori e bisognosi.

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Comunque, per Ferragni, i grani del rosario della iella non sono finiti: nell’inchiesta per truffa aggravata si aggiunge una verifica su 30 milioni di follower, forse dei fake. E poi la rottura con il marito Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez. Fine della scalogna? Forse no. Dai bilanci e dalle visure delle tre società riconducibili a Chiara Ferragni emergono alcune criticità: la Guardia di Finanza di Milano farà le opportune verifiche nel corso dell’indagine, che ha coinvolto anche il suo giovane e fidato manager, Fabio Maria Damato, indagato per concorso in truffa aggravata.

 

Partiamo dalla società più operativa, la Tbs Crew, che gestisce il magazine online The Blond Salad, opera come talent agency e consulenza di digital marketing strategy, il tutto sulle spalle di soli 16 dipendenti che, a fronte di un fatturato 2022 di 14,5 milioni di euro e utili a 5,1 milioni, costano solo 67 mila euro a testa (compresi Tfr e contributi). Come sono tirchi questi ricchi. Con gli altri. Quanto a loro stessi, invece, Ferragni e Damato incassano compensi da consiglieri da 320 mila euro, per la sola Tbs. In questa srl è avvenuta una miracolosa moltiplicazione delle quote societarie. Riavvolgiamo il nastro: l’azienda nasce nel 2011 ed è tenuta a battesimo da Chiara Ferragni, che detiene la maggioranza, e dall’ex fidanzato Riccardo Pozzoli con il 35 per cento. Poco dopo, Pozzoli sposta tutte le sue quote nella srl Esuriens, di proprietà di una fiduciaria, e anche Ferragni mette lì dentro il dieci per cento delle sue azioni. Nel 2018 i due si separano sia sentimentalmente sia professionalmente; avviene quindi la scissione di Esuriens e ne nascono due srl: la Delirus di Pozzoli e la Esuriens, ceduta poi alla società N1 di Pasquale Morgese, produttore pugliese di abiti e scarpe conto terzi, molto importante nella storia imprenditoriale di Ferragni, per la quale realizza i capi firmati con l’occhio cigliato Chiara Ferragni.

 

Ferragni e Fabio Maria Damato

 

A chi spetta la partecipazione del 45 per cento di Tbs Crew contenuta in Esuriens? Dovrebbe restare alla Esuriens di Morgese, ma nell’aprile 2018, dall’atto notarile della scissione, risulta che Esuriens cede il proprio pacchetto di quote alla Delirus di Pozzoli. In seguito a incomprensioni con Morgese, nel 2021 Ferragni acquista il 45 per cento delle quote di Esuriens per un milione di euro: così facendo, l’influencer ottiene il controllo del 100 per cento di Tbs Crew. E il 45 per cento in pancia a Delirus? Resta lì, come socio, graniticamente inciso sul roccioso registro della Camera di Commercio. Santa Chiara Ferragni ha fatto il miracolo della moltiplicazione delle quote, arrivate al 145 per cento. Chissà, neppure i notai se ne sono accorti. Non è tutto. Un mese dopo aver conquistato la totalità della Tbs Crew, Ferragni ne conferisce tutte le quote a Sisterhood, altra srl che oggi funge da holding ed è pienamente sotto il controllo dell’influencer: qui i dipendenti sono due e costano 15 mila euro l’uno, una miseria. La perizia indica che il valore di Tbs è 1,7 milioni di euro, mentre il conferimento alla Sisterhood è di 10 mila euro, con un sovrapprezzo di 995 mila euro. Ciliegina sulla torta: dice il verbale dell’assemblea che «l’aumento di capitale sociale può eseguirsi a mezzo di conferimento crediti», un sistema a volte usato per eliminare dal bilancio crediti non facilmente esigibili. Ma non sarà certo questo il caso.

 

Veniamo ora all’altra società operativa di Ferragni, Fenice srl, licenziataria del marchio Chiara Ferragni e gestore di altre royalties. La società è stata, suo malgrado, indirettamente coinvolta nel dissesto dell’Enpapi, ente nazionale di previdenza degli infermieri. Partiamo dall’inizio. Fenice nasce nel 2012 dal sodalizio imprenditoriale fra Ferragni, Pozzoli e Camilla Barindelli: quest’ultima è una giovane imprenditrice comasca, poi entrata nella galassia aziendale di Pasquale Morgese. La società stenta a decollare e se supera il secondo anno di vita è grazie all’intervento dell’immobiliarista romano Paolo Barletta. Il 37enne Barletta, tramite la sua società Alchimia (in coda all'articolo la replica), è socio di maggioranza (40 per cento) di Fenice, oltre a esserne attuale presidente e legale rappresentante. Ha inoltre ereditato dalla sua famiglia la società romana di costruzioni Gruppo Barletta. E, attraverso la controllata Arsenale, creata nel 2020 assieme a Nicola Bulgari, si occupa anche di hotel di lusso, come Soho House Rome, Rosewood Venice, La Minerva di Roma, Santavenere Maratea Hotel.

 

 

Gli affari del Gruppo Barletta non sono brillanti; negli ultimi tre anni l’azienda ha chiuso in perdita, così come soffre Alchimia che da quando è nata non ha fatto un euro di utile: meno 5 mila euro nel 2017, meno 1,1 milioni nel 2018, meno 2,7 milioni nel 2019, meno 1,5 milioni nel 2020, meno 1,3 milioni nel 2021, meno 2,1 milioni nel 2022. Barletta è indubbiamente un imprenditore all’avanguardia: nel 2017, ad esempio, offre la possibilità di acquistare gli appartamenti dell’eco building De Lollis di San Lorenzo a Roma in bitcoin, perché «l’Agenzia delle Entrate ha reso questa moneta valida», dice. Non sono dello stesso avviso i notai che evidenziano l’impossibilità di firmare atti in bitcoin per via della non tracciabilità dei fondi (potrebbero venire da fonte illecita) e dell’oscillazione del valore della moneta virtuale. Ma torniamo a Fenice, che, dal 2014, vive un vorticoso passaggio di quote, spartite fra Febo Holding (società riconducibile a Barletta), Camilla Barindelli e le tre società di Morgese (Esuriens, N1 e Mofra), arrivando addirittura a una restituzione di 0,84 per cento di quote da Febo a Barindelli per 129 euro: poco prima Barindelli aveva ceduto il 3,34 per cento a Febo per 50 mila euro. Il turbinio si placa nel 2018, quando Barletta avvia un processo di conferimento delle partecipazioni di Fenice da Febo Holding ad Alchimia, «per dotare quest’ultima di elementi aziendali importanti e sinergicamente profittevoli per raggiungere nel medio futuro uno sviluppo imprenditoriale di grande effetto», si legge nell’atto di cessione che contiene una stima economica di Fenice, eseguita da Maurizio Dattilo, commercialista deceduto. Contemporaneamente, Dattilo sedeva anche nel Consiglio d’amministrazione del Gruppo Barletta: quindi non era esattamente indipendente nel periziare il valore della società. Tanto che, secondo Dattilo, la Fenice valeva 36,2 milioni nel 2018. Da notare che, quattro anni più tardi, una seconda perizia, richiesta da Chiara Ferragni per conferire il suo 32,5 per cento alla holding Sisterhood, dirà che il valore di Fenice è 4,7 milioni. Possibile che l’azienda si sia svalutata così tanto in così poco tempo? E poi, perché valutare così tanto un’azienda che, proprio nel 2020, ha fatturato 1,19 milioni e ne ha persi 3,4? Chissà.

 

Ma torniamo alla perizia da 36,2 milioni, che permetterà a Barletta di aumentare il capitale sociale di Alchimia da 10 mila a 23,7 milioni di euro. Come? Febo, che dopo la maxi-perizia ha in pancia le quote rivalutate di Fenice, le conferisce ad Alchimia e ne riceve in cambio le sue nuove quote. Inoltre, per arrivare a 23,7 milioni di capitale, Barletta fa viaggiare in parallelo un’operazione analoga che coinvolge un’altra sua società, la Forus Holding, al cui interno c’è la partecipazione nell’azienda innovativa U-First.

 

Cambio di scena: dopo questa operazione, il Consiglio di amministrazione di Enpapi investe 10 milioni di euro in titoli di debito (e si impegna a sottoscriverne altri 5 l’anno successivo) emessi da Anthilia Holding, srl in perdita e amministrata da Andrea Cuturi, vecchia conoscenza di Barletta, che garantisce un tasso fisso tra il 4 e il 6 per cento fino al 2025. Cuturi gira all’istante i 15 milioni degli infermieri ad Alchimia, sottoscrive i bond di quest’ultima, che hanno un tasso di rendimento di un punto in più, e si fa dare in pegno buona parte delle azioni di Alchimia. Riassumendo, grazie alla super-perizia di Fenice, si aumenta il patrimonio di Alchimia (mettendola in salvo) e si aiuta la società di Cuturi, che adesso può contare sugli interessi annuali che ogni anno Alchimia sgancia per le obbligazioni: uno per cento in più rispetto a quanto da lui versato a Enpapi, ovvero 150 mila euro l’anno. Insomma, una mano lava l’altra.

 

 

Un anno dopo questa operazione, Enpapi viene commissariata e, dopo il lavoro del commissario Eugenio D’Amico, i conti sembrano quasi tornati in ordine. Quasi, perché nel rendiconto finanziario 2022 c’è scritto che «l’obbligazione con Anthilla Holding srl resta sotto costante monitoraggio», così come viene monitorata «la valutazione degli asset sottostanti, i quali, seppur non direttamente detenuti, potrebbero intaccare la solidità patrimoniale della società emittente». Quindi gli infermieri osservano con il fiato sospeso le vicende relative al caso Ferragni, perché solo se Barletta – che intanto ha fuso la Febo e il Gruppo Barletta, entrambi in perdita, in Forus – riuscirà a cedere a un buon prezzo la sua quota di Fenice, allora sarà possibile restituire il prestito obbligazionario da 15 milioni. Altrimenti sarà un disastro per Enpapi, che paga le pensioni agli infermieri.

 

Barletta, infatti, mesi fa ha cominciato a lavorare su un’exit strategy da Fenice, puntando a cedere il suo 40 per cento al fondo Avm, guidato da Giovanna Dossena, la quale, dicono i giornali, dopo il “Pandoro Gate” ha congelato l’operazione. Ma è più probabile che Dossena, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università di Bergamo, abbia avuto qualche perplessità rispetto a un equity value di Fenice da 75 milioni: forse una valutazione eccessiva per una società che ha i conti sulle montagne russe.

 

Ad esempio, Fenice chiude il 2019 in perdita per 521 mila euro, quello successivo a meno 3,4 milioni: e non per colpa del Covid, ma per aver pagato una gabella da 3,4 milioni al socio N1, società di Morgese, per il recesso dai contratti di licenza. N1, peraltro, continua a essere socio della stessa Fenice. Proprio il Covid ha permesso ai soci di Fenice di non dover procedere subito alla ricapitalizzazione e le perdite sono poi state compensate dai 3,4 milioni di utili generati nel 2022. Scampato pericolo per i (non sempre strabilianti) conti di Fenice, ma soprattutto per le società che le gravitano intorno, tutte con bilanci traballanti.

 

In generale, descrivere con esattezza gli affari delle società di Ferragni non è cosa semplice, perché mentre sui social l’imprenditrice non lesina informazioni sulla propria vita privata, per quanto riguarda le aziende è parecchio stringata, anche per lo spezzatino di società, con continua creazione di nuove srl sotto soglia, che consente di ridurre le informazioni richieste. Un paradosso per un’influencer che fa della trasparenza il proprio core business. L’impressione è che le tre srl – Tbs Crew, Fenice e Sisterhood – agiscano come vasi comunicanti e, all’occorrenza, sia possibile caricare costi e fatturato sull’una o sull’altra. Ad esempio, proprio l’aumento dei ricavi di Fenice dal 2020 in poi potrebbe avere svegliato l’interesse di Dossena, che comunque non ha mai confermato alcunché.

 

L'influencer, poi, raggiunge l’apice del riserbo con Ferragni Enterprise, una società semplice che non deve neppure depositare il bilancio, incastonata nella capogruppo Sisterhood e posta a bilancio per 12,8 milioni. La Enterprise contiene il super-attico nella Torre Libeskind del quartiere City Life a Milano, cioè la casa dove vive l’influencer, costata a Sisterhood 9,7 milioni (10,8 milioni Iva inclusa). Amministrata da Maurizio Binelli, un commercialista italo-ticinese che in passato si è occupato delle controllate elvetiche di Versace e Gruppo Zegna, la Sisterhood è la srl più ricca dell’universo Ferragni. Nel 2022 ha fatturato 4,6 milioni e ha generato profitti per 2,6. Ha macinato utili anche negli anni precedenti: 7,2 milioni nel 2021, 5,7 milioni nel 2020. Ora, questi buoni risultati potrebbero venire intaccati dalla rescissione di molti contratti con i brand. Per fortuna al suo fianco c’è ancora Diego Della Valle: «Con noi è sempre stata correttissima». Ferragni siede nel cda della Tod’s di Della Valle, ma il suo mandato scade il 29 aprile 2024, in concomitanza con l’approvazione del bilancio. Chissà se Diego le rinnoverà il mandato.

 

 

 

LA REPLICA DI ALCHIMIA ALLA NOSTRA INCHIESTA
Alchimia, azionista di riferimento – tra le altre numerose società – di Fenice S.r.l, azienda del gruppo che fa capo all’influencer Chiara Ferragni, conferma - come già chiaramente precisato in una precedente nota stampa del 22 gennaio scorso – di avere emesso un titolo di credito (bond) sottoscritto da AH S.r.l., la quale aveva precedentemente raccolto nella forma di bond da ENPAPI (Ente Nazionale Previdenza e Assistenza della Professione Infermieristica), un importo di Euro 15 milioni. La suddetta operazione è esclusivamente riconducibile ad AH S.r.l. avendo quest’ultima cambiato denominazione il 20/10/2019, ed essendo entità giuridicamente distinta e separata dall’attuale Anthilia Holding S.r.l.

 

La ricostruzione dell’Espresso su questa vicenda appare completamente fuorviante: il titolo in questione, collocato nell’anno 2018 e regolato da un contratto tra i soggetti coinvolti, con scadenza prevista nell’anno 2025, ha infatti generato, in esito alla sua esecuzione, disponibilità liquida investita da Alchimia in varie operazioni di venture capital, si specifica che nessuna delle riserve generate da tale titolo di credito è stata investita in Fenice S.r.l. (brand Ferragni)e/o società ad essa correlate. Tale titolo di credito ha garantito ad AH S.r.l. dei rendimenti crescenti annuali tra il 5% e il 7 % della somma investita. Grazie all’ampliamento del portfolio e al consolidamento dell’assetto patrimoniale registrato da Alchimia dal 2018 ad oggi, AH S.r.l. (e quindi indirettamente Enpapi) possono beneficiare di un ulteriore e progressiva diminuzione del profilo di rischio del titolo stesso.

 

In merito ai riferimenti citati dall’Espresso, relativi alla capacità di generare utili da parte di Alchimia, si precisa che la stessa, essendo una holding di partecipazioni che investe con un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, tipico del Venture Capital, vive di investimenti mirati, paziente attesa di exit, e successivi rimborsi, con plusvalenze agganciate all’andamento auspicabilmente positivo delle società in portafoglio. Ad ulteriore conferma del percorso di crescita virtuoso di Alchimia e del consolidamento patrimoniale che ne sussegue, da bilancio al 31/12/2022, la società conta su un attivo pari ad euro 61.1 milioni, con un patrimonio netto di 39.6 milioni di euro, ovvero un incremento dell’attivo pari al 42.2% rispetto al valore dell’attivo di 43.0 milioni di euro, con euro 24.5 milioni di patrimonio netto al 31/12/2018 (anno dell’emissione del bond AH S.r.l. /Enpapi).

 

Negli ultimi anni Alchimia ha diversificato e rafforzato i propri asset, con investimenti nei settori, tra gli altri, healtcare, agrotech, education, aerospaziale e travel, presentando - del tutto a prescindere dalle recenti vicende di cronaca che hanno interessato il brand Ferragni - un’indubbia consistenza e solidità patrimoniale. La società è a disposizione della comunità dei giornalisti e dell’opinione pubblica per qualunque utile approfondimento tramite il proprio ufficio stampa.