Energie pulite

Le dighe italiane sono un colabrodo che mangia soldi e provoca incidenti

di Gianfrancesco Turano   19 aprile 2024

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Da eccellenza a settore problematico, gli sbarramenti invecchiano fra problemi di manutenzione e il bisogno dei concessionari di monetizzare. L’idroelettrico è la fonte più sostenibile ma governo e aziende non impegnano risorse sufficienti. Come si è visto sul lago di Suviana

Nella precedente legislatura un ministro delle infrastrutture grillino, l’unico della storia, si meravigliò in pubblico di avere scoperto che anche le dighe facevano parte delle sue competenze. A Matteo Salvini tanta ingenuità è estranea. L’attuale titolare del Mit conosce il potere dell’acqua che genera energia e irriga i campi, conservata su tutto il territorio nazionale in 526 impianti, secondo il registro ministeriale datato 31 dicembre 2023.

 

La tragedia del lago di Suviana, con sette morti, è stata commentata dal vicepremier con un sobrio tweet di condoglianze intorno alle 19 del 9 aprile e la promessa: «Come Mit stiamo monitorando costantemente l’evoluzione della situazione». Per accendere il monitor ci vuole sempre una disgrazia.

 

È accaduto, su scala ancora più drammatica, con il ponte Morandi a Genova e con un sistema, quello delle concessioni autostradali, che presenta forti analogie con la gestione delle dighe. Gli invasi, come le corsie, sono uno dei motori del boom economico italiano con un passato di eccellenza tecnica che ha portato le imprese edili specializzate a lavorare in tutto il mondo, dall’Etiopia alla Cina. Sul fronte interno l’idroelettrico è stato ed è uno dei fattori chiave dello sviluppo in un paese che ha bocciato il nucleare e che si trova in casa un raro vantaggio competitivo per avere investito nel settore in cima alla classifica delle fonti pulite e rinnovabili. Non sono mancate le tragedie, dai duemila morti del Vajont nell’ottobre 1963, anche se in quel caso la catastrofe fu di origine geologica e la diga è ancora lì ad accogliere i turisti, fino alle 268 vittime della Val di Stava nel luglio del 1985.

 

Anche se l’inchiesta bolognese sembra ancora lontana dalle conclusioni, sono proprio il monitoraggio e gli investimenti su impianti con più di quaranta anni di anzianità nel 70 per cento delle grandi dighe, a mettere in crisi un sistema concessorio impegnato in nuove opere, in riparazioni ordinarie e straordinarie, in dismissioni e declassamenti.

 

 

Com’è tipico del modello Italia nelle infrastrutture, i controlli sono dispersi lungo una filiera che parte dal governo, passa dalle regioni e si ingolfa in una serie di strutture commissariali inserite per accelerare i tempi finché non è chiaro chi fa cosa.

 

Al ministero di Porta Pia opera la direzione specializzata guidata dal 2020 da Angelica Catalano, che ha trascorso una lunga carriera all’interno della stessa struttura e conosce bene il mondo delle grandi dighe, quelle con altezza superiore ai 15 metri. Nel curriculum dell’ingegnere Catalano sono segnalate ben 276 ispezioni, 130 impianti sotto controllo e cinque interventi su incidenti che diventano sei con la strage di Bargi.

 

Ma gli organici della direzione generale sono esigui e molte opere rimangono alla periferia delle verifiche che, in ogni caso, spettano in prima battuta al proprietario in accordo con il gestore in concessione. In massima parte, la proprietà degli sbarramenti è pubblica ma nell’elenco dei soci privati si sono visti i nomi più disparati, come il Sovrano militare ordine di Malta per la struttura della Madonna delle Mosse a Canino (Viterbo). Il mondo dei concessionari comprende una platea disparata di aziende dell’energia che quasi sempre hanno una quota di capitale pubblico, statale o regionale, (Enel, Iren, A2A, Hera, Tirreno Power, Alperia, Romagna acque, Sorical, Dolomiti energia, etc) e una piena autonomia gestionale.

 

La presenza dello Stato controllore nell’azionariato delle imprese sottoposte a controlli comporta una certa pigrizia di fondo nella vigilanza. Spendere di più in manutenzione e ristrutturazioni significa erodere i dividendi che ogni anno le ricche multiutility distribuiscono ai soci. Gli enti locali e lo Stato non possono permettersi di ridurre un gettito che in molti casi rappresenta una quota consistente del budget annuale.

 

In parallelo, ci sono le imprese di costruzioni e le società di engineering che seguono le manutenzioni insieme al personale di ditte altamente specializzate come quelle colpite dall’esplosione nell’impianto di Bargi. È un mondo di enorme complessità tecnica che coinvolge aspetti geologici, geotecnici, strutturali, elettrici, meccanici e di automazione. Per fare un altro parallelo della cronaca recente, non è pensabile affrontare una manutenzione con subappalti a catena, come quelli visti la scorsa estate nella strage ferroviaria di Brandizzo. Lo scandalo suscitato dalla presenza tra i morti di Bargi del pensionato a partita Iva Mario Pisani, 73 anni, riguarda anche la perdita progressiva di un know-how tecnologico sul quale le aziende hanno smesso di investire per un processo iniziato qualche decennio fa quando l’allora guida dell’Enel Franco Tatò decise di chiudere il Cris (centro ricerca idraulica e strutturale) di Milano.

 

Paolo Scaroni

 

Uno dei lavoratori morti a Bargi era dipendente della tedesca Voith Hydro che lavorava per il gruppo Enel, guidato da Flavio Cattaneo e Paolo Scaroni. A Bargi c’era l’altra tedesca Siemens energy e l’elvetico-svedese Abb. L’ombra delle imprese straniere, indispensabile negli interventi, è molto temuta nel capitolo gare. Il settore idroelettrico, tanto quanto spiagge e taxi, è soggetto alla direttiva Bolkestein sulla concorrenza. Anche qui come per i balneari e le auto pubbliche, l’Italia ha seguito la politica della resistenza passiva per anni. Nel 2022 le imprese del settore avevano dato un aut-aut tra i bandi di gara e 9 miliardi di euro di investimenti in cinque anni. La posizione dei concessionari era: mettiamo i soldi soltanto in cambio di proroghe a lungo termine. Il muro contro muro non ha funzionato in presenza di una procedura di infrazione con multa annessa che potrebbe costare carissima ai conti dello Stato perché il rispetto della Bolkestein è condicio sine qua non per l’assegnazione delle rate del Pnrr, come il ministro delegato Raffaele Fitto ha fatto notare più volte.

 

Il 18 dicembre 2023 in Lombardia, la regione che da sola fornisce un quarto dell’energia idroelettrica nazionale, la giunta ha dichiarato scadute le concessioni di una ventina di dighe. L’assegnazione delle prime tre, Codera in Valtellina, Dongo nel comasco e Resio in Valcamonica, è stata fissata per il prossimo 22 aprile dall’assessore leghista Massimo Sertori, esponente del partito che più si è speso contro la messa a gara. Ma si annuncia battaglia come si è visto dal contenzioso avviato due mesi fa in Abruzzo su tre piccoli impianti da 70 megawatt gestiti dalle aziende Burgo e Bussi. La scadenza per le nuove offerte è stata considerata troppo stretta e troppo vantaggiosa per gli uscenti secondo Enel e A2A, che si sono rivolte al Tar per bloccare la procedura. Edison, controllata dal colosso pubblico francese Edf, si è mossa in modo analogo con gli impianti lombardi.

 

È solo l’inizio di uno stillicidio di ricorsi che potrebbero segnare il settore per gli anni a venire, man mano che le concessioni scadono. In un paese ben lontano dall’autonomia energetica, tanto che anche il Copasir guidato dall’attuale ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso aveva definito strategico il comparto idroelettrico, è un problema colossale.

 

Per adesso si procede per slogan, dal “non passa lo straniero” alla guerra agli ambientalisti e alla fauna che sabota il progresso industriale della Nazione. Ma sono, appunto, solo parole d’ordine per accendere le telecamere e fare titolo sui giornali. È accaduto con l’esibizione del ministro Salvini sulla diga del Vetto in provincia di Reggio Emilia lo scorso agosto alla festa della Lega a Cervia. «È importante quanto il ponte sullo Stretto e gli animali selvatici si sposteranno», ha detto il vicepremier che a fine gennaio, sulla diga da 700 milioni di Campolattaro (Benevento) ha vantato lo sblocco di un’opera fermata a lungo dai “signori del no”. Nel Sannio, peraltro, lo straniero è già sbarcato da anni con il gruppo elvetico Repower.

 

Si prepara così un’estate con l’Italia spaccata in due fra il Nord che ha superato le ultime stagioni segnate dalla siccità e il Sud che sconterà un meteo arido in aggiunta a un sistema di dighe mal funzionanti. Fra tagli alla distribuzione idrica, incendi e agricoltura in ginocchio, sarà comunque festa con il taglio del nastro per inaugurare i lavori del ponte sullo Stretto che potrà contare su 13,5 miliardi contro i 3 destinati dal Pnrr all’intera infrastruttura idrica nazionale