Per soddisfare le richieste dell'Alleanza Atlantica, l’esecutivo punta a portare le spese militari al 2 per cento sul Pil nel 2028. Ma, non potendo drenare stabilmente risorse dalla finanza pubblica, dovrà ridurre quelle per il personale

Dev’essere frustante. Il governo Meloni ha mobilitato da settimane speleologhi di denaro pubblico, rabdomanti di risorse nascoste, spingitori di cavalieri per rovesciare sul piatto Nato qualche centinaio di milioni di euro in più e alzare così la spesa militare, per fare bella figura con gli alleati della coalizione atlantica, per dire i compiti a casa li abbiamo fatti e pure con le alzatacce. Allora dopo faticose riunioni e soluzioni più o meno posticce, ma comunque sgorgate da buona volontà e sincera adesione al tema, lo stesso governo Meloni ha affermato, anzi confermato, perché non ci si deve sorprendere di cotanta rettitudine, che l’Italia con i suoi modi e i suoi tempi rispetterà l’impegno di portare il valore del suo bilancio bellico al parametro minimo richiesto del 2 per cento del Pil. Come pattuito nel 2014 in Galles, ribadito nel 2016 in Polonia, invocato nel 2022 con un ordine del giorno votato a larghissima maggioranza alla Camera durante l’esecutivo di Mario Draghi. E invece che succede, per dindirindina? Il segretario uscente Nato, il poco empatico e, chissà, poco simpatico norvegese Jens Stoltenberg, ha designato il diplomatico spagnolo Javier Colomina come inviato nel Fronte Sud, a casa nostra dove i compiti li abbiamo fatti e pure con le alzatacce, proprio nel nostro Mediterraneo. Capite che razza di affronto? Il governo ha reagito, protestato, sbraitato, s’è fermato a un passo dal dichiarare guerra alla Norvegia. Stoltenberg il fastidioso dispettuccio l’ha fatto. La poltroncina – a che serve? – era un regalino per l’Italia e il governo ne ha rivendicato la proprietà dopo che se l’è giocata sui media alla voce credibilità internazionale. Frenati gli istinti bellici contro la Norvegia e fatto un giro di telefonate, il governo ha capito che la nomina di Colomina è provvisoria e che l’olandese Mark Rutte, il successore di Stoltenberg, in autunno dovrebbe restituire a Roma ciò che spetta a Roma. Colomina è avvisato. Non stampi neanche i suoi nuovi biglietti da visita.

Un momento. Questa disputa sul Fronte Sud che c’entra con l’aumento delle spese militari? Nulla, proprio nulla. Però il governo, dopo che si è isolato in Europa, deve tutelare l’unica dottrina che lo accompagna in politica estera: armare l’Ucraina e armarsi, armarsi ancora. Neanche questa funziona troppo. Non per scarso apporto emotivo, ma per scarsa dotazione economica. Secondo le stime dell’ultimo rapporto Nato, rilasciato a metà giugno, quest’anno l’Italia dovrebbe sfiorare i 32 miliardi di euro in spesa militare (31,957 per l’esattezza), l’equivalente dell’1,49 per cento del Pil. Si segnala addirittura una flessione: nel 2023 erano 31,3 miliardi (1,5 per cento), nel 2022 erano 29,9 (1,52 per cento). Le oscillazioni dipendono dalle previsioni di crescita del Prodotto interno lordo e, più che il mezzo miliardo in più, alla Nato interessano la percentuale e l’andamento. Questo ha sollecitato l’estro nel governo che, fra le ipotesi, con un intervento contabile potrebbe recuperare 800/1.000 milioni di euro e trascinare l’1,49 per cento vaticinato dalla Nato nei pressi dell’1,55 e raggiungere poi il promesso 1,6 nel 2025 e magari avvicinarsi al 2 nel 2028. Un attimo di pazienza sull’intervento contabile. È importante precisare, con le parole del centro studi della Camera, che il Bilancio integrato Nato differisce dal Bilancio integrato Difesa in due punti essenziali nei costi per la «Funzione Sicurezza»: «Considera la quota parte del personale dei Carabinieri impiegabile nei teatri operativi; aggiunge l’importo pensionistico del personale militare e civile sostenuto dall’Inps». Ecco l’intervento contabile: con un ricalcolo degli assegni pensionistici, dunque con una modifica degli accantonamenti, il governo potrebbe ritrovarsi gli agognati 800/1.000 milioni di euro.

La Nato pretende dagli alleati non soltanto il 2 per cento di spesa militare sul Pil, ma anche altri due requisiti: «capabilities» e «contribution», cioè le capacità di investimenti in armi (almeno il 20 per cento della spesa complessiva) e il contributo in missioni internazionali. E qui l’Italia è assai virtuosa. Da sempre Roma è sul podio degli alleati Nato per numero di missioni internazionali, che hanno una rilevanza economica ridotta, circa 500 milioni in un anno, e una rilevanza politica pesante. Col governo giallorosso di Giuseppe Conte e il dem Lorenzo Guerini ministro della Difesa, l’Italia s’è data un certo rigore e una certa armonia in acquisti con l’istituzione del «Fondo relativo all’attuazione dei programmi di investimento pluriennale per le esigenze di difesa nazionale»: oltre 60 miliardi di euro spalmati in 17 anni dal 2021. Al fondo di Guerini, ereditato di buon grado dal governo Meloni, vanno sommati i «fondoni» sparsi all’ex ministero per lo Sviluppo economico per un totale di 35,5 miliardi utilizzabili dal 2017 al 2034. In vent’anni, a spanne, l’Italia ha a disposizione diversi miliardi per ciascun anno e quindi l’obiettivo del 20 per cento in investimenti è garantito, infatti siamo fra il 22 e il 23 per cento.

I Cinque Stelle hanno calcolato che da inizio legislatura il governo ha presentato alle commissioni parlamentari programmi militari con un onere finanziario pluriennale di quasi 35 miliardi di euro (di cui 23 in armamenti). «Più di 8 miliardi per centinaia di nuovi carri armati, quasi 7,5 miliardi per i nuovi caccia Eurofighter, 2 miliardi per una nuova coppia di fregate Fremm, 1,3 miliardi per altri due sottomarini U212, un miliardo per le batterie missilistiche Himars, 800 milioni per i missili Stinger, 700 milioni per le bombe e i missili degli F-35B e altri programmi “minori” fino ai 92 milioni per i missili Spike di produzione israeliana. A questi si aggiungono miliardi di investimenti pluriennali nel rinnovo di basi aeree, navali e dell’esercito, in nuovi poligoni e sistemi di addestramento al combattimento, in satelliti spia e sistemi informatici: 700-800 milioni su base annua. Già nel 2024 la spesa complessiva in armi – tra fondi Difesa e fondi Mimit – batte il record storico di 8 miliardi di euro» (un report dettagliato di tutti i programmi sarà pubblicato sul sito dell’osservatorio Milex).

Come ripete più di un ministro, con ottime ragioni, l’Italia potrebbe incrementare ancora più in fretta le spese per la Difesa, se l’Europa le escludesse dai vincoli economici fissati col Patto di Stabilità. Però l’esclusione potrebbe riguardare gli investimenti in armi, dove siamo oltremisura coperti, e non le altre prestazioni che segnalano le carenze italiane: infrastrutture, equipaggiamenti, addestramento, manutenzioni. Appare impossibile agguantare il 2 per cento in rapporto al Pil entro il 2028 drenando stabilmente altri 7-8 miliardi dalla finanza pubblica: i costi variabili come gli investimenti si possono sopportare, i costi fissi annuali no. Al contrario, e la tendenza è palmare, l’Italia dovrà ridurre la spesa in personale come già accaduto in Francia e in Spagna. Per le tabelle Nato nel 2014 il personale militare era di 183.500 unità con un’incidenza nel Bilancio del 76 per cento, quest’anno dovrebbe attestarsi a 171 mila e soprattutto con un’incidenza sotto il 60 per cento. Nei prossimi anni ci sarà un’ulteriore diminuzione, in particolare dei costi, che poi sono stipendi. Non è la falciatura varata dal governo Monti, ma le toppe del governo Meloni non sono sufficienti. Avremo molti cannoni e poche braccia per metterci fiori. Eventualmente.