Il fenomeno
Le sette proliferano nell'ombra
Sfruttano le persone fragili, adescandole e soggiogandole con un misto di violenza e plagio. Anche se è difficile contarle, si sa che i loro adepti aumentano. Eppure, non si riesce sempre a punirne gli abusi
S i muovono tra violenza e plagio, insinuandosi nelle vulnerabilità delle persone e proliferando nell’ombra, indisturbate. Le sette in Italia viaggiano nel sommerso e nella clandestinità, al punto che è impossibile perfino contarle. Basti pensare che l’ultimo rapporto ufficiale del ministero dell’Interno risale al 1998, giusto un paio d’anni dopo i modem a 56k. Poi c’è un censimento del Centro studi Abusi psicologici (Cesap), anno 2015, che parla di 500 sette e migliaia di persone intrappolate nella rete, ma gli esperti dicono che è una stima molto approssimata per difetto.
Quel primo (e unico) rapporto ufficiale del 1998 registrava 137 gruppi operanti, di cui 76 religiosi con 78.500 membri e 61 magici con 4.600 membri. Secondo i relatori, molti di questi gruppi erano innocui; i culti più preoccupanti già all’epoca riguardavano le psicosette: 15 gruppi per un totale di 8.500 aderenti. «Organizzazioni capaci di provocare completa destrutturazione mentale negli adepti, conducendoli spesso alla follia e alla rovina economica», si leggeva nel report. Da lì, sul fronte del censimento tutto si è fermato, ma queste organizzazioni non hanno smesso di proliferare. Sappiamo per certo che i dati sono in crescita e che le persone coinvolte nel nostro Paese sono almeno quattro milioni.
E mentre ci si racconta che è roba da film americano, il vuoto legislativo e l’assenza di servizi statali lasciano campo libero a una diffusione fuori controllo. Il nostro ordinamento non ha normative per regolamentare il fenomeno e, a differenza che in altri Paesi europei, mancano anche leggi contro la manipolazione psicologica, la principale tecnica utilizzata per adescare e soggiogare gli adepti. Il reato di plagio è stato abolito da un pezzo e per colpire le sette spesso tocca rifugiarsi nella «circonvenzione d’incapace». La lacuna è stata recentemente discussa in Parlamento, quando Stefania Ascari, deputata, ha portato la questione in commissione Giustizia. Ma non è detto che qualcosa si smuova a breve.
Ma chi sono, poi, questi guru? Ecco, qui abbandonate i cliché da romanzo gotico. Non pensate a figure incappucciate che recitano formule in latino, brandiscono croci infuocate e profanano cimiteri. Non solo, almeno. Molti di questi leader carismatici sono influencer spirituali 2.0 che operano alla luce del sole, promuovono l’amore universale e uno stile di vita sano. Ma dietro alla luccicante patina zen tessono una tela invisibile fatta di abusi e di violenze.
Basate in molti casi sul modello americano, le sette possono essere di varia natura: esoteriche, religiose, sataniche. E poi ci sono le psicosette, che sono oltre il 40 per cento del totale e promettono felicità, successo e una vita da manuale di self-help (auto-aiuto), indottrinando su potenziamento mentale e sviluppo personale. Le dinamiche? Sempre le stesse: controllo molto stretto sui membri, dipendenza emotiva e richiesta di ingenti contributi finanziari, necessari per il salto spirituale e per accedere a privilegi esclusivi. Perché il nirvana – ricordiamolo – si raggiunge a suon di bonifici mensili. A questi elementi si possono sommare storie di abusi sessuali e, non di rado, di droga.
Sono diversi gli esempi associati a fatti gravi: soprusi, violenze o addirittura delitti.
Come il caso delle Bestie di Satana, gruppo responsabile di diversi omicidi, compiuti tra il 1998 e il 2004 nella provincia di Varese, e noto per i riti estremi, l’abuso di droghe, le torture inflitte alle vittime. È notizia recente quella dell’apertura di un gruppo di ascolto da parte di uno degli ex membri delle Bestie di Satana, Mario Maccione, che oggi ha 44 anni e vive in Sardegna. Condannato a 19 anni di carcere, ne ha effettivamente scontati 13 e mezzo, tra indulto e buona condotta, e dal 2017 è libero. «Ho aperto un gruppo di ascolto su Telegram, che al momento conta 350 membri, di cui 12 attivi – dichiara Maccione a L’Espresso – gli iscritti chattano tra loro e condividono problemi. Il gruppo è gratuito; solo se qualcuno mi contatta per parlare privatamente, chiedo una donazione libera e organizzo una videochiamata, durante la quale do ascolto e conforto. L’idea parte da un libro che ho scritto, in cui ho raccontato di come ho affrontato depressione, ansia e tossicodipendenza e di come mi sia avvicinato a uno stile di vita basato sul benessere psicofisico. Già in carcere mi ero reso conto che i consigli che davo agli altri detenuti funzionavano. Senza la pretesa di pormi come psicologo, ma supportandoli come una persona che aveva vissuto le stesse esperienze. Ora l’intento è lo stesso e vorrei anche legare questo progetto all’attività di volontariato che svolgo in aiuto ai senzatetto, per sensibilizzare su depressione, bullismo e povertà».
È inevitabile a questo punto fermarsi un attimo a riflettere. È lecito, ed etico, che una persona con il passato di Maccione fornisca supporto psicologico a chi vive un momento di fragilità? Non si rischia così di riaprire la dinamica del guru che recluta adepti e promuove il potenziamento spirituale, seppure senza riti estremi? E i familiari delle vittime non avranno il diritto di insorgere e di ritenere questa iniziativa inopportuna? Ad alcune di queste domande Maccione ha risposto nel corso dell’intervista: «Rifuggo dai fanatismi tipici delle sette; chi mi contatta sa che mi pongo da pari. E, da quanto mi risulta, le famiglie delle vittime non si sono espresse su questo mio progetto, diversamente da quanto dicono gli articoli comparsi sui giornali. In generale mi capita di ricevere delle critiche, e le comprendo, ma non dimentichiamo che il carcere deve avere un ruolo di recupero sociale e con me l’ha avuto. Quello che succede in carcere si riflette sulla sicurezza di chi è fuori. L’istituto di Bollate, dove ho scontato parte della mia pena, punta molto sulla rieducazione e ha un tasso di recidiva del 17 per cento, contro quasi il 70 della media italiana. Poi ci vuole anche la volontà della persona: io ho voluto fortemente cambiare. È necessario un serio ravvedimento; il mio pentimento è reale, mentre quello di altri ex membri non penso che lo sia. Con le famiglie delle vittime ho avuto un inizio di dialogo».
Tra le principali associazioni che offrono supporto alle vittime delle sette e ai loro familiari ci sono Cesap, Favis, Aivs, Sos Antiplagio e “La Pulce nell’orecchio”. Quest’ultima è presieduta da Rita Repetto, sorella di Roberta Repetto, quarantenne di Chiavari morta nel 2020 a causa delle metastasi di un melanoma, dopo l’asportazione di un neo avvenuta sul tavolo da cucina di un centro olistico. «Quando aveva 28 anni, Roberta si è avvicinata a questo centro polifunzionale per risolvere dei problemi di coppia con l’allora fidanzato; attraversava un momento di fragilità, una fase della vita che può capitare a tutti – racconta Rita – è importante chiarirlo: chiunque può diventare vittima di questi gruppi. Mia sorella non era affatto una sprovveduta, era brillante, laureata, una persona di talento. Con il tempo ha iniziato a trascorrere lì ogni suo momento libero e ad allentare gradualmente i rapporti con i familiari. Poi ho imparato che questo è un primo, grande campanello d’allarme. Ci sono anche altri segnali: la venerazione nei confronti di un individuo, la perdita del pensiero critico, la modifica del modo di vestire o delle abitudini alimentari. Purtroppo, noi abbiamo scoperto tutto solo negli ultimi giorni di vita di Roberta: fino a quel momento non aveva mai chiesto aiuto, si fidava e dipendeva totalmente dai suoi “maestri”. Per la Procura di Genova e per le perizie dell’accusa sarebbe stata plagiata dalla psicosetta e convinta a sopportare il dolore con tisane, meditazione e bagni nel fiume».
Ma la sentenza di secondo grado ha sancito l’assoluzione del guru fondatore del centro, decisione confermata poi in Cassazione. «Le motivazioni dell’assurda sentenza sono da ricercare nel vuoto normativo. Se mia sorella fosse stata lucida, si sarebbe mai sottoposta all’operazione? Lei non ha certo scelto di morire in preda a dolori lancinanti»