Quasi un quarto della popolazione in Italia è a rischio di povertà o di esclusione sociale, per l’esattezza il 23,1 per cento. Lo riporta l’Istat ed è sempre l’Istituto nazionale di statistica a mettere in fila i dettagli delle conseguenze socio-sanitarie di questa condizione, nell’ultimo Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) che fotografa l’anno 2023: gli italiani che rinunciano a curarsi sono 4,5 milioni (già saliti a 6 milioni, secondo l’ultimo aggiornamento, ndr) di cui ben 2,5 milioni per motivi economici e con un dato in crescita di 600mila persone rispetto al 2022.
Un ritratto drammatico, riconducibile soprattutto a due ordini di motivi. Da una parte, ci sono le condizioni economiche critiche che contribuiscono all’esclusione di una fetta sempre più ampia di famiglie – soprattutto al Sud e tra gli stranieri ma non solo – da cure che non possono pagare di tasca propria; dall’altra parte, impattano le lunghe liste d’attesa lievitate dopo la pandemia e di cui – fatta eccezione per poche isole felici sul territorio nazionale – ancora non si riesce a venire a capo. Il tutto, in un contesto di risorse inadeguato per coprire il fabbisogno di cura.
La povertà sanitaria si inserisce in questo panorama complesso: non è quindi soltanto “mancanza di soldi”, che pure ovviamente pesa per il 4,2 per cento nel 2023 (+1,3 per cento sull’anno precedente), ma è anche la difficoltà che in determinate aree geografiche e per specifiche fasce di popolazione – ad esempio le meno acculturate e le più isolate socialmente – si traduce in impossibilità di accedere alle cure pubbliche. O alle medicine: basti pensare che tra 2023 e 2024 la fila delle persone che si sono rivolte a Banco Farmaceutico per ottenere confezioni che altrimenti non avrebbero potuto permettersi si è allungata dell’8,4 per cento.
Sugli ostacoli alla disponibilità di cure pubbliche incide di certo un finanziamento che non regge il passo con tecnologie sempre più costose e con l’invecchiamento della popolazione, gravato dalle cronicità che impattano nel complesso per 65 miliardi l’anno. L’ultimo Documento di finanza pubblica approvato dal governo, sulla carta porta la spesa sanitaria a 151,6 miliardi nel 2027 dai 138,3 miliardi attuali ma con un rapporto tra spesa sanitaria e Pil che resterà fermo al 6,4 per cento fino al 2028. Al di là delle percentuali, l’evidenza è che nella vita sanitaria reale delle persone questi dati con il segno “+” oggi hanno effetto limitato. Tanto che, malgrado gli italiani siano sempre più longevi, la speranza di vita in buona salute nel 2023 è di 59,2 anni, con un arretramento dai 60,1 anni del 2022. Un dato su cui occorre decisamente lavorare contrastando con politiche mirate la rinuncia alle cure: il budget familiare si mantiene in equilibrio faticosamente per quel 24,5 per cento di famiglie povere che ha dovuto dire “no” almeno una volta alle prestazioni sanitarie, contro il 12,8 per cento dei nuclei familiari che poveri non sono.
Tradotto: 536mila nuclei indigenti sono particolarmente esposti al rischio di compromettere o di peggiorare la propria salute. L’identikit dei “poveri sanitari” vede una prevalenza di uomini (il 54 per cento) e di persone adulte con la fascia 18-64 anni che occupa il 58 per cento. Ma è significativa anche la quota di minori: sono il 22 per cento mentre gli anziani si attestano sul 19 per cento. La fotografia degli over 65 nel dettaglio la scatta l’Istituto superiore di sanità: rinunciano a viste ed esami diagnostici anche le persone più cagionevoli di salute e un quarto di quanti presentano almeno una malattia cronica. Mentre più della metà di quanti non rinunciano alle cure pagano di tasca propria. È la cosiddetta spesa out of pocket sostenuta direttamente dai cittadini e che nel complesso in Italia ha superato la cifra monstre dei 40 miliardi. In linea di massima, chi più ha più spende, e infatti l’acquisto privato di visite ed esami cresce maggiormente nelle regioni ricche. Sono costretti a chiamarsi fuori quelli che non possono permettersi di mettere mano al portafoglio per garantire le cure per sé o per i propri cari. Come buona parte dei cittadini della Sardegna, primi per rinuncia alle cure.
Sull’intera popolazione, da Nord a Sud con poche eccezioni, incide poi la magagna liste d’attesa. Gli italiani che rinunciano a curarsi davanti a “code” infinite sono passati dal milione e mezzo del 2019 ai 3 milioni del 2023, con 372mila persone in più fotografate dall’Istat sempre nel Rapporto Bes. Un incremento che – sottolineano i ricercatori – «può attribuirsi a conseguenze dirette e indirette dello shock pandemico, come il recupero delle prestazioni in attesa differite per il Covid-19 o la difficoltà di riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria, tenuto conto dei vincoli a coprire l’aumento della domanda di prestazioni con un adeguato numero di risorse professionali e non da ultima la spinta inflazionistica della congiuntura economica, che ha peggiorato la facoltà di accesso ai servizi sanitari». In sintesi, mancano risorse e personale. Tutti elementi che hanno concorso al raddoppio dal 2,8 al 4,5 per cento tra 2019 e 2023 di chi ha rinunciato alla sanità per problemi di liste d’attesa ma che negli ultimi anni impattano particolarmente sempre sui più fragili. Per loro come per tutti i cittadini dovrebbe aprirsi l’ombrello dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le prestazioni che il Servizio sanitario è tenuto a erogare gratuitamente o dietro pagamento dei ticket. Ma proprio i Lea sono la cartina di tornasole delle disuguaglianze che troppo spesso vanno ad alimentare la povertà sanitaria. Se sulla carta crescono le prestazioni ricomprese nel pacchetto Ssn, troppi territori restano scoperti, come certifica il ministero della Salute nel suo ultimo monitoraggio. Sono ancora otto le regioni che non riescono a garantire prestazioni adeguate ai loro cittadini in tutte e tre le aree dei ricoveri ospedalieri, delle cure territoriali e della prevenzione: dalla Valle d’Aosta all’Abruzzo, dalla Calabria alla Sicilia, da Bolzano alla Liguria e dal Molise alla Basilicata. Realtà sottosoglia, per lo più concentrate nel Sud del Paese, che le famiglie devono lasciare quasi sempre per necessità se vogliono ricevere prestazioni adeguate che vanno ad alimentare una mobilità sanitaria arrivata a 5 miliardi di euro e lo stesso circolo vizioso della povertà sanitaria.
Il libro
“No tu no! Che fine fa un Paese se la salute non è per tutti”, (Il Sole 24 Ore, 2025) è il libro-inchiesta delle giornaliste del Gruppo 24 Ore Barbara Gobbi e Rosanna Magnanocon la prefazione di Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica. Pubblichiamo qui il primo paragrafo del capitolo iniziale “Povertà sanitaria”