Inchieste
11 agosto, 2025L'occupazione cresce, di pari passo con la riduzione delle paghe. Le più colpite sono le donne, costrette ad accettare salari al di sotto della soglia minima e part time. Questa situazione non consente loro di rendersi indipendenti di fronte a una situazione di violenza infra domestica
Aut Aut. Fare figli o lavorare. Le due cose – in Italia – non possono stare insieme. Non si può. Pena ritrovarsi a trascorrere una vita sul filo, stretti fra un lavoro da fame e figli accollati come medaglie. Più figli, più medaglie, meno lavoro dignitoso. E prima di coricarsi c'è da pregare: niente violenze, per favore. Non c'è centro antiviolenza che tenga per la donna vittima di aggressioni fra le mure domestiche: è costretta a subire per non finire in povertà assoluta. Certo, ci si può addormentare con il sogno di liberarsi attraverso un lavoro dignitoso, tale da consentirle di mantenere se stessa e i figli. Ma è, per l'appunto, un sogno. A chi lascia casa, arriva una mancetta di Stato: 500 euro al mese, per un solo anno, nei casi più gravi.
Anche solo partendo da questo piccolo spunto, ce ne sarebbero di emendamenti interessanti da presentare in Parlamento, per migliorare la condizione salariale delle maestranze italiane – donne, ma anche uomini. Tipo quella presentata dalla responsabile Lavoro del Pd, Maria Cecilia Guerra, assieme a Susanna Camusso e Chiara Braga sul part-time involontario, fenomeno che colpisce 3 milioni di persone, prevalentemente donne (31 per cento lavora part-time contro l’8 per cento degli uomini), e le condanna a stare «in una condizione di lavoro povero e non poterne uscire». Oggi è l'azienda a decidere come e quando “concedere” il part-time, mentre le deputate puntano a eliminare le clausole elastiche a favore del datore di lavoro.
Invece no, gli emendamenti del governo sul fronte lavoro vanno in tutt'altra direzione. Prima il deputato di Fratelli d’Italia, Salvo Pogliese, inserisce un'aggiunta nel decreto ex Ilva per accorciare la prescrizione dei crediti di lavoro a 5 anni (stipendi e straordinari non pagati) e introduce la decadenza a 180 giorni dopo la diffida del lavoratore, scoraggiando di fatto le cause di lavoro per timore di ritorsioni. Poi nel decreto Economia all'esame della commissione Bilancio la maggioranza tenta il blitz per negare gli arretrati al lavoratore, anche quando vince in Tribunale contro l'azienda. L'obiettivo è chiaro: scoraggiare le cause di lavoro e tutelare le imprese. A ruota spunta il tentativo di allungare il limite di prestazione d'opera dei dipendenti di agenzie interinali. Oggi gli interinali possono lavorare in un'azienda fino a 24 mesi, poi l'impresa li deve assumere: la maggioranza vorrebbe spostare quel limite a 48 mesi. Tutte proposte scomposte, intercettate e bloccate dall'opposizione, che faranno parte (ha promesso Claudio Durigon, sottosegretario al ministero del Lavoro) di una riforma del lavoro che il governo ha intenzione di plasmare in autunno.
Una riforma irrazionale leggendo i dati Istat, Inps e Ocse sull'occupazione italiana. Il rapporto Inps conferma che dal 2022 al 2024 gli occupati sono aumentati, superando i livelli pre-pandemici e raggiungendo risultati mai in precedenza registrati: rispetto al 2019, all’Inps risultano 1,5 milioni di assicurati in più. Tuttavia il rapporto occupazione dell'Ocse dice che i salari reali (quindi in rapporto al costo della vita) sono scesi del 7,5 per cento dal 2021 a oggi: è il risultato peggiore tra i Paesi avanzati. Tradotto: non manca il lavoro, mancano salari adeguati. Il rapporto Ocse, inoltre, lancia l'allarme sull'equità intergenerazionale perché gli anziani hanno un reddito superiore ai giovani, mentre nel 1995 era il contrario. Ancora più drammatica la condizione femminile, perché, come spiega l'Inps nel suo rapporto «il 2020 è stato l'anno in cui l'età media effettiva di pensionamento per le donne ha superato quella degli uomini, tanto che nel 2024 è stata superiore di 17 mesi rispetto a quella dei colleghi maschi». Ovvero, le donne vanno in pensione a 65 anni e mezzo e gli uomini a 64. Perché? Perché, spiega l'Inps nella sua relazione, il collegamento sempre più stretto tra contributi versati e ammontare della pensione forza coloro che hanno carriere più irregolari a lavorare di più per godere di pensioni adeguate, «perché più difficilmente possono raggiungere i requisiti richiesti dalle regole di pensionamento anticipato». Un po' già lo si sapeva, e proprio per questo fu introdotta nel 2005 dalla legge Maroni “Opzione donna”, ovvero un regime agevolato per il pensionamento femminile. Che non era una galanteria. Lo strumento, introdotto dalla Lega Nord, è stato poi tolto dalla Lega per Salvini Premier nel 2025, che deve aver cambiato idea sul fronte pensioni. Tant'è che questo governo ha eliminato ogni scivolo.
Ma torniamo alla questione femminile, emblema e massima espressione di quanto sia difficile in Italia lavorare e avere un salario dignitoso per tutti. Il libro Lavoro e Salari in Italia, a cura di Rinaldo Evangelista e Lia Pacelli (Corbaccio), dedica un capitolo al tema della «Povertà lavorativa delle donne: quando avere un lavoro non basta per scappare da partner violenti», opera delle docenti dell'Università di Torino, Silvia Pasqua e Violetta Tucci. Scrivono le economiste: «Il 27,7% delle donne lavoratrici (che sono il 52,2% del totale) ha un lavoro discontinuo o a termine, contro il 16% degli uomini. Inoltre, a causa delle discriminazioni di genere nel mercato del lavoro, le donne guadagnano un salario inferiore dell'11 per cento rispetto agli uomini in quanto occupate in posizioni meno qualificate e meno retribuite, oltre a essere spesso pagate meno degli uomini anche a parità di qualifica. Le condizioni occupazionali e il basso salario rappresentano un fattore di rischio nel sentirsi escluso socialmente». Le due docenti provano a dare una misura della libertà economica delle donne in Italia, «quella libertà che è prerequisito per sfuggire a situazioni di violenza economica, psicologica e fisica di cui sono troppo spesso vittime», simulando la loro situazione economica nell'ipotesi che si separino dal partner e vadano a vivere da sole e con i figli. Il 12,8 per cento delle lavoratrici finirebbe in povertà se lasciasse il nucleo famigliare. Percentuale che sale al 27 per cento per le lavoratrici con figli. Ecco perché le autrici definiscono le donne “intrappolate” e concludono: «La principale strategia per ridurre la povertà lavorativa delle donne consiste nel garantire loro occupazioni non precarie, a tempo pieno e ben retribuite. Ma le donne possono lavorare a tempo pieno? La cronica scarsità di asili nido pubblici e la non totale copertura di scuole elementari a tempo pieno dotate di mensa rende difficile la conciliazione tra lavoro e figli, la cui cura ricade prevalentemente sulle donne».
L'alternativa è non fare figli. E a che serve una premier donna, Giorgia Meloni, se non a combattere i motivi della denatalità? Peccato che Meloni non abbia ancora compreso che, per battere la denatalità non serve una mancetta – il bonus mamme lavoratrici, 40 euro al mese per chi ha più di due figli e guadagna meno di 40mila euro l'anno – ma uno sforzo in più in servizi. Banalizzando: servono asili nido, scuole elementari a tempo pieno e possibilmente aperte anche a luglio. Non servono quaranta euro in più sul conto corrente. Semplicemente non bastano. Sul fronte servizi, Openpolis dice che i 1.758 progetti relativi all'estensione del tempo pieno finanziati con 1,1 miliardi del Pnrr sono in ritardo e solo il 12 per cento dei fondi è stato speso. A oggi solo il 35 per cento delle classi della scuola elementare ha il tempo pieno. A proposito di nidi e scuole dell'infanzia, l'Ufficio Parlamentare di Bilancio, nel report dedicato alle strutture per l'infanzia finanziate con il Pnrr, dice: «Permangono incertezze sul conseguimento dell’obiettivo sia in termini quantitativi (150.480 nuovi posti da realizzare) sia temporali (giugno 2026). I posti aggiuntivi per gli asili nido oscillano tra 93.239 (scenario meno favorevole) e 110.831 (scenario più favorevole), mentre quelli delle materne variano tra 31.063 e 39.175». E poi ancora: «La piena realizzazione degli interventi del Pnrr aumenterebbe le disuguaglianze nell’offerta dei servizi all’interno delle regioni stesse. La quasi totalità dei Comuni con meno di 500 abitanti (96,6 per cento) resta priva di strutture».
E fin qui abbiamo escluso che la donna lavoratrice sia vittima di violenza da parte del partner. Fin qui, la donna deve solo accontentarsi di un lavoro a singhiozzo e farsi carico della prole. Poi, se volessimo aggiungere lo scenario peggiore, allora dovremmo parlare del cosiddetto Reddito di Libertà. Mariangela Zanni, consigliera nazionale Donne in Rete contro la Violenza, dice: «La parola reddito è fuorviante, perché la cifra (500 euro al mese per un solo anno) non è equiparabile a uno stipendio che possa consentire l'autonomia economica». Nel 2024 il Reddito di Libertà, che sta in capo alla ministra della Famiglia Eugenia Roccella, non è stato erogato perché non è stato pubblicato il decreto per la ripartizione dei fondi fra le Regioni. È stato invece pubblicato a ridosso dell'8 marzo di quest'anno, forse per celebrare la festa della donna. Se fosse, si tratterebbe di una mossa a dir poco cinica. «Così le domande pervenute nel 2024 sono finite nel vuoto», ma il governo ha concesso a coloro che nel 2025 fossero state ancora in difficoltà di presentarne un'altra. Una beffa insomma. Di più: il fondo è di 10 milioni, ovvero garantito per 1.600 donne. Ai centri antiviolenza della rete si rivolgono 24 mila donne ogni anno e, secondo l'Istat, le donne che cercano aiuto in un centro antiviolenza sono oltre 61mila. Per lo più vessate dal partner. Per loro c’è solo un ustionante focolare domestico.
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