Innovazione
25 luglio, 2025Un bitcoin con una certezza di stabilità, agganciato al dollaro. Garantisce di più, ma non è esente da pericoli. L’ex scettico Trump ora ci crede. E naturalmente punta anche in proprio
Un nome, una garanzia: stablecoin. Come dire, un bitcoin con una certezza di stabilità. Una virtuosa crasi che elimina la caratteristica più pericolosa dei bitcoin, la volatilità che li porta a vertiginosi sbalzi di quotazioni, per sostituirla con la stabilità garantita dall’aggancio con un bene “fisico” come il dollaro, l’euro, l’oro. Visto che nella quasi totalità dei casi questo bene è il dollaro, l’equazione è semplice: uno stablecoin equivale a un dollaro. Si è arrivati alla chiusura del cerchio, la riproduzione su scala digitale della “singolarità” del dollaro, come la chiamava l’economista Milton Friedman: «Il dollaro è l’unico “oggetto” – diceva il padre fondatore della scuola monetarista di Chicago negli anni ’80 – riconosciuto da tutti e in ogni angolo del mondo accettato senza discussioni né richieste di sconti, senza bisogno di identificare il portatore, con la certezza che domani potrà essere offerto e accolto da chiunque».
È quello che manca al bitcoin e che i “cripto-fondamentalisti” (come li chiama l’economista Nouriel Roubini che non si stanca di diffidare delle valute digitali) ritengono di aver risolto con gli stablecoin.
Ma di pericoli ne esistono anche in questo caso. Se ne era accorto perfino Donald Trump che nella sua prima amministrazione (2016-20) invitò la Federal Reserve a fermare la creazione del dollaro digitale e a emettere norme stringenti per limitare la nascita e la diffusione di bitcoin, stablecoin o qualsiasi variante (oggi sono in circolazione 1.654 monete criptate). Per una volta la Fed l’aveva ascoltato, senza però fermare la marea montante: «Anzi ne ha esasperato il carattere finto-libertario – dice Roubini – e il fatto di non dipendere da alcuna banca centrale ha incoraggiato questo populismo finanziario».
Sta di fatto che, tornato alla Casa Bianca, Trump con una delle sue giravolte si è trasformato in uno strenuo sostenitore delle criptovalute. Viste le perduranti perplessità sui bitcoin (che peraltro stanno in questi giorni macinando quotazioni record), il presidente punta sugli stablecoin, dei quali è tra l’altro un emettente visto che possiede la “crypto firm” World Liberty Financial. Gli stablecoin in circolazione fra giugno 2024 e giugno 2025 (si è partiti da zero alla fine del 2019) sono raddoppiati fino all’equivalente di 261 miliardi, 247 dei quali agganciati al dollaro.
C’è di più: Trump ha emesso un ordine esecutivo in cui incoraggia a usare gli stablecoin per acquistare titoli del Tesoro americano, che stanno perdendo smalto per la crisi di fiducia indotta proprio dalle sue politiche cervellotiche, dazi in primis. Va ricordato che il debito pubblico Usa ha raggiunto i 37mila miliardi, il 122 per cento del Pil, ed è proiettato verso i 47mila nel 2030, il 132 per cento del Pil: peggio che alla fine della seconda guerra mondiale in condizioni demografiche meno favorevoli.
Il segretario al Tesoro, Scott Bessent, in un’audizione al Congresso ha prefigurato uno scenario di medio termine in cui duemila miliardi di debito pubblico sono acquistati con gli stablecoin: «Se dovesse esserci una crisi di sfiducia e i possessori si presentassero dagli emittenti reclamando il corrispettivo in dollari “veri”, ci sarebbe un collasso nel mercato dei Treasury bond e nell’intero sistema finanziario», obietta Barry Eichengreen, economista di Berkeley, secondo il quale non più di un quarto degli stablecoin fin qui emessi risulta realmente convertibile: «Tutti gli altri sono agganciati alle più disparate e fantasiose attività virtuali del tutto prive di garanzia».
Questa degli stablecoin, spiega Angelo Baglioni, economista della Cattolica, «è una storia molto americana, come del resto i bitcoin all’origine. Negli Usa è forte il costo delle transazioni bancarie, delle rimesse nel Paese d’origine, delle carte di debito (i bancomat, ndr) usate come auto-prestiti al consumo da saldare a fine mese con interessi fino al 7 per cento. Tutti costi che le monete digitali promettono di abbattere». Ma tutto il settore anziché stabile «è oscuro, poco e male regolamentato, resistente a qualsiasi richiesta di chiarimenti», accusa Brad DeLong, economista anch’egli di Berkeley.
Una proposta legislativa, il Genius Act, vorrebbe portare chiarezza. Approvata dal Senato il 13 giugno, è in discussione alla Camera. Trump ha promesso che sarà promulgata entro fine agosto così da poter entrare in vigore nell’anno finanziario 2025-26 che comincia il 1° ottobre.
Anche l’Europa comincia ad avvertire il problema, e come d’abitudine (stavolta sana) ha subito emesso il suo regolamento, il Micar (Markets in crypto asset regulation), appena approvato dalla Commissione. Spiega Giampaolo Galli, direttore scientifico dell’Osservatorio sui conti pubblici: «Il Micar consente alla Bce di porre un limite alla creazione di queste monete quando sono a rischio la stabilità finanziaria, la trasmissione all’economia reale delle misure monetarie, il sistema dei pagamenti». Nulla di simile è previsto dal Genius Act, che non interviene neanche sul problema che gli stablecoin possono essere emessi da qualsiasi banca o azienda privata creando caos monetario e possibili fallimenti a catena. Tante monete parallele non rispondono agli indirizzi di politica monetaria. «Le banche centrali – dice Galli – nacquero apposta per mettere fine a quest’incertezza, vietando alle banche di emettere ciascuna la propria banconota». Si era nell’Ottocento, i tempi del selvaggio west e della corsa all’oro: quelli nei quali Trump vorrebbe riportare gli Stati Uniti.
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