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27 novembre, 2025Dall’architettura al mecenatismo, un percorso che trasforma la cultura in un progetto di impatto sociale
Architetto di formazione, curatrice per vocazione e imprenditrice culturale per visione, Elena Tettamanti è una figura di riferimento per la progettualità culturale italiana. Il suo lavoro attraversa arte, design, architettura e mecenatismo e si distingue per la capacità di coniugare visione curatoriale, pragmatismo gestionale e una profonda attenzione ai temi della sostenibilità e dell’impatto sociale, anticipando temi oggi centrali nel dibattito internazionale sui rapporti fra cultura e impresa.
Dalla mostra Trame. Le forme del rame alla Triennale di Milano, al progetto Ca’ Corniani. Terra d’avanguardia, per citarne alcune, fino alle più recenti rassegne antologiche dedicate a Mario Nigro e Remo Salvadori, la competenza curatoriale di ET si è accompagnata ad una rigorosa organizzazione manageriale dei progetti, in una sintesi che ha trovato un significativo riscontro nel modello di mecenatismo culturale dell’Associazione Amici della Triennale, di cui è stata fondatrice e Presidente e per la quale ha fatto parte del CdA di Triennale Milano. Un vero e proprio case study, studiato nei corsi di marketing delle principali università italiane e premiato dal Comune di Milano con l’Ambrogino d’Oro.
Lei nasce come architetto ma oggi è riconosciuta come curatrice e autorevole voce del mecenatismo culturale. Come si sono intrecciate queste tre anime nel suo percorso?
La formazione iniziale di architetto mi ha permesso di sviluppare una visione interdisciplinare del mio lavoro di curatrice, sia riguardo ai temi delle mostre affrontati da prospettive diverse, sia riguardo ai progetti di arte pubblica come “Ca Corniani Terra d’avanguardia” che attraverso il concetto di “soglia” ha utilizzato l’arte contemporanea per costruire un nuovo rapporto tra la natura dei luoghi, la comunità che li abita e il visitatore. Nell’ambito del mecenatismo, la trasversalità dell’approccio si è manifestata maggiormente nel cogliere temi della contemporaneità: la città, l’ambiente, la sostenibilità, la tecnologia, e costruirvi una serie di progetti rivolti soprattutto ai giovani, in una virtuosa collaborazione fra pubblico e privato.
Lei ha fondato Eight Art Project e ha presieduto l’Associazione Amici della Triennale. Come si è realizzata in queste due esperienze la sua idea di “fare cultura come impresa”?
La prima mi ha permesso di gestire e realizzare i progetti secondo criteri di economicità ed efficienza seguendo le logiche proprie dell’impresa. Eight Art Project è la società che copre l'intero ciclo del progetto: dal concept alla sua realizzazione, gestendo le collaborazioni fra pubblico e privato, La seconda mi ha consentito di realizzare un nuovo modello di mecenatismo culturale, con la partecipazione attiva dei privati e delle aziende in iniziative rivolte soprattutto ai giovani nei settori educational, dell’innovazione e della sostenibilità, con un importante impatto sociale creando una vera e propria comunità legata da obiettivi di promozione e di educazione culturale con migliaia di persone coinvolte. Il vero motore del mecenatismo contemporaneo resta comunque la capacità di costruire alleanze durature tra istituzioni, imprese e individui, fondate su una visione condivisa del bene comune. Solo in questa prospettiva la cultura può tornare a essere una forma di investimento civile.
Come si costruisce, oggi, un modello di mecenatismo realmente attivo e partecipato, capace di coinvolgere cittadini e aziende?
Un modello di mecenatismo attivo e partecipato si basa sulla capacità di creare progetti che vadano oltre la mera raccolta fondi e che abbiano un forte ritorno sulla comunità. Il modello che ho promosso con l'Associazione Amici della Triennale prevedeva la partecipazione attiva di aziende e privati, orientando le risorse verso obiettivi con un forte impatto sociale. Ciò dimostra che il mecenatismo è efficace quando l’intervento privato è mirato a trasformare e valorizzare il contesto culturale e sociale. Un riconoscimento del valore di tale modello si è avuto con l'assegnazione nel 2024 del Premio Rinascimento +, un riconoscimento internazionale per il mecenatismo culturale e il sostegno all'arte e agli artisti.
Da Mario Nigro a Remo Salvadori, le sue mostre recenti raccontano un’idea di arte che dialoga con lo spazio e con il tempo. Come nasce il suo modo di costruire una mostra e quale ruolo attribuisce all’esperienza del visitatore?
Non ho un modello predefinito. Guardo all’artista e alla sua storia per la scelta della struttura e del percorso della mostra. Nel caso di Mario Nigro, la mostra è stata concepita in ordine cronologico ripercorrendo i suoi cicli pittorici come lo "spazio totale" e il "tempo totale", mettendo in luce l'evoluzione del suo linguaggio astratto e geometrico. Nella mostra Remo Salvadori invece, per la natura del suo lavoro, è stato superato il concetto tradizionale di rassegna cronologica, per concentrarsi sui nuclei tematici che rappresentano l’essenza dell’opera dell’artista. L’esperienza del visitatore è centrale. Nella mostra dedicata a Remo Salvadori (2025), che è stata un’esposizione diffusa in più luoghi emblematici di Milano, l'obiettivo era invitare il visitatore a entrare in relazione con l’opera. In questo caso lo spazio espositivo è stato visto come un’estensione ideale dello studio dell’artista, favorendo un dialogo costante tra l’opera e l’architettura ospitante.
Quando pensa a una mostra, parte più dall’artista o dallo spazio espositivo che la ospita?
Parto sempre dal lavoro dell’artista – come dimostrano le rassegne dedicate a grandi artisti del Novecento e contemporanei – e l'allestimento finale deve necessariamente integrare l'opera con l'ambiente circostante.Per me, lo spazio espositivo o il luogo che ospita l’opera non è un semplice contenitore, ma un co-protagonista.
Lei lavora nella curatela con Antonella Soldaini. Una collaborazione consolidata ormai nel tempo
È vero siamo un vero e proprio duo curatoriale che lavora in sintonia e riesce a fare sintesi dei rispettivi contributi in una comune visione dei progetti
Oggi si parla molto di “sostenibilità culturale”. Cosa significa per lei rendere sostenibile un progetto artistico, al di là degli aspetti economici?
Rendere sostenibile un progetto artistico va oltre la mera gestione economica. Significa innanzitutto garantire la fruizione gratuita e inclusiva del progetto, la sua durabilità e l'impatto a lungo termine sul tessuto sociale. Per me, la sostenibilità è la capacità di un progetto di generare valore, non solo artistico, ma che abbia anche un forte impatto sociale e formativo. Questo è il concetto di sostenibilità culturale parte integrante del modello operativo di Eight Art Project.
Guardando al futuro, come immagina il ruolo della cultura in Italia e quale dovrebbe essere, secondo lei, il nuovo rapporto tra arte e impresa?
Il ruolo della cultura deve inserirsi all’interno delle dinamiche che regolano i rapporti tra le imprese e la loro funzione sociale. Considerando che l’apporto sociale di un’impresa è oggi tema di discussione non solo a livello culturale ma soprattutto economico, penso ai bilanci di sostenibilità delle aziende o alla crescita del terzo settore, il nuovo rapporto fra arte e impresa dovrebbe evolvere verso una partecipazione attiva e trasparente, dove l’impresa non è solo finanziatrice, ma partecipa a progetti che hanno un esplicito e misurabile impatto sociale. In questa prospettiva, la cultura non è un costo né un ornamento, ma una forma di responsabilità condivisa: uno spazio in cui l’arte, l’impresa e la società possono reinventare insieme il futuro.
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