Lifestyle
30 settembre, 2025Nessun folklore o provocazione. Lo stilista sardo fa chiudere la sua scenografica sfilata dal pastore Giuseppe Ignazio Loi. Simbolo della Sardegna che resiste
C’è stato un momento, nella recente sfilata primavera/estate 2026 di Antonio Marras, in cui la moda ha smesso di essere spettacolo ed è diventata rito. È accaduto nel gesto finale, quando sulla passerella è apparso Giuseppe Ignazio Loi, un pastore sardo, una figura reale, corpo della terra e della tradizione. Non è stato folklore né provocazione, ma un’epifania. È in quel passo lento, dentro il clangore di un sistema che consuma immagini alla velocità del trend, che Marras ha compiuto il suo atto più potente: restituire alla moda il tempo lungo della memoria, l’intimità del gesto e il senso di appartenenza.
La nuova collezione ha preso le mosse da un fatto storico: nel 1921, lo scrittore D. H. Lawrence e Frieda von Richthofen viaggiarono in Sardegna, esperienza poi raccontata in Sea and Sardinia. Marras ha riletto quell’episodio come si rilegge una leggenda interrotta, colmandone i vuoti, immaginando deviazioni, convocando fantasmi. Nella sua narrazione teatrale — perché di teatro si tratta — l’itinerario di Lawrence si allunga fino ad Alghero, città cara allo stilista, e alle sue saline: un paesaggio bianco, surreale, che diventa scenografia e metafora.
E lì, come in una visione, Marras ha invitato anche Katherine Mansfield, Virginia Woolf e Ottoline Morrell, membri ideali del Bloomsbury Group. Non per una lezione di storia, ma per costruire un affresco di intellettualità libera, artistica d cosmopolita. Sulle dune di sale, Marras ha sparso libri aperti, come se la cultura avesse trovato il suo altare, come se la parola scritta avesse bisogno di vento e silenzio per farsi ascoltare. Ogni capo è un frammento di racconto. Le silhouette sono teatrali, stratificate, talvolta spezzate da tagli inattesi. Le texture parlano con voci diverse: organza, velluto franto, lana grezza, seta, pelle, patchwork, pizzo e jacquard. I colori sono quelli della Sardegna più intima: rame, sabbia, viola prugna, nero stinto, polvere d’oro e di terra. Gli abiti non citano la tradizione sarda, ma la ricreano. Una maniera per non imitare, ma trasfigurare. I gonnellini neri di orbace, le camicie bianche e i ricami antichi sono diventati così dei simboli attivi, segni di una cultura che non vuole farsi museo, ma un presente vivo. Uomo e donna condividono i tessuti, ma li interpretano in modo diverso, quasi danzando su un confine fluido tra i generi. Ci sono vestaglie da diva del muto, completi pigiama che sussurrano libertà, tailleur androgini, abiti da gran soirée e da poesia quotidiana. Una moda colta, sentimentale, visionaria.
E poi, l’ultimo quadro. Il più silenzioso, il più rumoroso. Giuseppe Ignazio Loi entra in scena. Non un modello, non un attore, ma un pastore, un uomo. Con lui sono entrati la montagna, i pascoli, le mani ruvide e le stagioni. La Sardegna profonda, non da cartolina, quella che resiste. Il suo cammino lento è stata una liturgia laica, un atto di restituzione. Marras lo ha elevato ad ambasciatore di una bellezza che non si misura in metri di tessuto, ma in centimetri di verità. Una bellezza che non si fotografa, ma si ascolta. In quel gesto c’è stata una presa di posizione: la moda può essere politica, poetica e civile, può essere uno spazio di custodia, non di consumo.
Marras è da sempre un outsider del sistema moda, ma oggi ne rappresenta una delle voci più autorevoli e necessarie. La sua Sardegna non è sfondo esotico, ma un linguaggio estetico e morale. Ogni collezione è una partitura fatta di tempo, silenzi e lacci invisibili tra passato e presente, non per difendere un’identità fissa, ma per accompagnarne la metamorfosi.«La moda - ci ha detto - è una lingua che non va semplificata ma complicata con amore». Ed è proprio questo amore che fa la differenza. La sua moda non decora, ma racconta, non illustra, ma interroga, non celebra l’apparenza, ma insegna a vestire la memoria, a scegliere con grazia dove vogliamo andare, senza dimenticare da dove veniamo.
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