Dopo le elezioni tedesche si faranno quelle italiane. E il risultato ?di Berlino inciderà sulle scelte dei partiti. La cancelliera vuole ?un nuovo patto tra i Dem e il partito dell'ex cavaliere. La Merkel ha benedetto Monti, ha anticipato la leadership di Renzi e ora guarda al futuro. Gentiloni bis o il presidente Bce

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Ci saranno anche loro, ovvero noi, gli italiani, tra gli spettatori interessati di domenica 3 settembre, data prevista per il duello televisivo tra la cancelliera Angela Merkel e lo sfidante socialdemocratico Martin Schulz. L’esito sembra scontato, se non del match in tv, almeno del voto di fine mese, il 24 settembre. Secondo i sondaggi la Merkel si appresta a surclassare l’ennesimo avversario della Spd, come fece la Germania con il Brasile nei mondiali 2014, lo storico sette a uno umiliante per la squadra di casa. Più imprevedibili da definire sono le conseguenze del voto tedesco sullo scenario politico italiano: dopo Olanda, Francia, Inghilterra e Germania, probabilmente tra marzo e aprile 2018, toccherà finalmente anche agli italiani il turno elettorale. E sarà la Germania a incidere sugli equilibri nazionali, più di ogni altro Paese.

E già: da mesi la nostra classe dirigente è in cerca del suo Macron, dopo che negli anni passati si sono avvicendati l’Obama italiano, il Blair tricolore, perfino lo Tsipras o lo Zapatero de noantri. Quasi mai si è pensato a una Merkel mediterranea. Eppure è il modello tedesco che più di tutti condiziona le strategie dell’Italia.
L'intervista
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Un’influenza che arriva da lontano, da quando nel dopoguerra Alcide De Gasperi costruì la ricetta vincente della Democrazia cristiana studiando il fallimento in Germania del Zentrum, il partito cattolico che negli anni Trenta nella Repubblica di Weimar aveva spalancato le porte all’ascesa dei nazisti. Nei decenni della Prima Repubblica i democristiani italiani inamovibili dal governo e i potenti democristiani tedeschi della Cdu-Csu (i cristiano-sociali bavaresi) sono partiti fratelli, la classe dirigente che fa risorgere Germania e Italia, le nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale: dalla devastazione post-bellica e dal nazismo e fascismo alla democrazia e al miracolo economico. I capi di Dc e Cdu si fanno vedere ai congressi dei rispettivi partiti. E quando la Dc muore, nel 1992-93, c’è un gigante buono che si affaccia in Italia per cercare di salvare la Balena bianca dall’estinzione: il cancelliere Helmut Kohl, nume tutelare di tutti i democristiani, amico di Mino Martinazzoli, Rocco Buttiglione, Francesco Cossiga.

Lo stesso accade a sinistra con l’attrazione fatale tra Willy Brandt e Enrico Berlinguer, i comunisti italiani che sognano una terza via tra l’Unione sovietica e la socialdemocrazia, ma intanto sono affascinati dalla Spd e eternamente in attesa di una Bad Godesberg, una svolta ideologica e programmatica che metta il Pci nelle condizioni di poter aspirare al governo come accadde ai socialisti tedeschi dopo il congresso del 1959. A conclusione del lungo viaggio «dal Pci al socialismo europeo», come si intitola l’autobiografia di Giorgio Napolitano, il Pds sarà ammesso nel 1992 nell’Internazionale socialista grazie al via libera di Bettino Craxi.

Reportage
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Nella Seconda Repubblica, la Germania è stato il modello della democrazia parlamentare europea, il paese normale che progettava negli anni Novanta Massimo D’Alema, arrivato a Palazzo Chigi tre settimane dopo la vittoria elettorale di Gerhard Schröder, il leader socialdemocratico che nel 1998 spezzò la lunga egemonia di Kohl alla guida di una coalizione rosso-verde. Mentre Silvio Berlusconi viene ammesso nel club del Ppe, il Partito popolare europeo, con la benedizione della Cdu tedesca. Ma per il Cavaliere Angela Merkel è una maestra severa e inflessibile, la custode dell’euro e dell’austerità Ue che Berlusconi vede come una rovina.

La Germania è un’Italia ben riuscita. Simile nei fondamentali del sistema politico, per decenni: legge elettorale proporzionale, partiti fortissimi e ben radicati, classi politiche locali gelose della loro autonomia, sindacati potenti, in comune ci sono stati perfino il terrorismo rosso, gli euromissili e la divisione in due figlia della guerra fredda che fece dire a Cossiga che «anche l’Italia, come la Germania, era stata attraversata dal muro di Yalta». Eppure diversissima nella solidità industriale e nella stabilità politica: nove cancellieri in meno di settant’anni, dalla Costituzione del 1949, contro i 28 presidenti del Consiglio e i 64 governi italiani. «Ci siamo trovati bene, ma chi viene la prossima volta?», chiese Kohl al nuovo presidente del Consiglio Romano Prodi dopo il loro primo incontro nel 1996. Oggi la stessa domanda se la pone la Merkel, che ha quasi sostituito l’influenza della Casa Bianca nel determinare ascese e cadute dei governanti italiani.

Negli ultimi anni più volte è toccato alla cancelliera ricevere il nuovo presidente del Consiglio italiano e dichiararsi «molto colpita» dalle riforme presentate dal premier di turno. Oppure benedire in anticipo i cambiamenti di leadership. Da lei volò Matteo Renzi nell’estate 2013 per presentarsi quando era ancora un semplice sindaco di Firenze, nove mesi prima della nascita del suo governo. Alla cancelliera e al modello di Grosse Koalition faceva riferimento Mario Monti, dopo aver lasciato l’incarico di commissario europeo. «La grande coalizione ha cambiato profondamente il metodo di governo. I due maggiori partiti, meno intenti che in passato a combattersi a vicenda, hanno dato vita a un governo che affronta con determinazione le diverse lobby. Una rottura con il passato, in un Paese di radicata tradizione corporativista», scriveva Monti sul “Corriere” il 6 agosto 2008. Tre anni dopo toccò a lui come premier delle larghe intese misurarsi con la grande coalizione all’italiana. Con le vistose differenze dal modello originale.

Ora la storia si ripete. Per il dopo-elezioni tedesche è probabile una nuova coalizione guidata dalla Merkel con i socialdemocratici, oppure con i liberali e perfino i verdi, il modello Giamaica. In Italia, il 6 settembre, torna in commissione alla Camera la riforma della legge elettorale, dopo il tentativo di accordo tra Pd, Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Lega che si è arenato alla prova dell’aula di Montecitorio al primo voto segreto. Modello tedesco, era stato definito, tra mille critiche, anche da parte di sostenitori del sistema politico della Germania, come l’ex presidente Napolitano. In estate è cresciuta la voglia di rimettere mano alla legge elettorale, nella consapevolezza che elezioni senza un risultato preciso sarebbero un crollo di credibilità decisivo per l’intera classe politica, M5S compreso. L’accordo ancora non c’è, ma è inevitabile ripartire dal modello tedesco e dai suoi ingredienti chiave: la proporzionale, che piace molto a Berlusconi, Lega e Movimento 5 Stelle, una soglia di sbarramento alta, temutissima da Angelino Alfano che ne sta trattando l’abbassamento nel tavolo per le elezioni regionali siciliane. E, infine, la possibilità di fare alleanze e coalizioni, ma in Parlamento, dopo il voto, e non davanti agli elettori. Molto gettonato oggi in tutti i partiti, dove la prospettiva delle mani libere, senza vincoli di maggioranza e patti di sangue stabiliti davanti agli elettori, entusiasma gli strateghi di Palazzo.

C’è un aspetto del modello tedesco che piace più di tutti a Renzi: la regola per cui il leader del principale partito viene eletto cancelliere federale dal Bundestag. Ma non è affatto detto che questa prassi sia rispettata dopo il voto italiano. Anzi, nelle ultime settimane è cresciuta la voglia di un governo di coalizione guidato da un politico che non sia un leader di partito, ma che possa garantire tutte le anime e tutti i partiti dell’alleanza.

Un’evoluzione che a Berlino seguono con interesse. La cancelleria è informata passo passo dall’ambasciatore della Germania in Italia, Susanne Wasum-Rainer, che a settembre festeggerà i due anni di permanenza nella sede diplomatica di via San Martino della Battaglia: una donna acuta e sensibile, abilissima nel districarsi nella giungla della politica italiana, con i suoi capovolgimenti e i suoi ritorni. Berlusconi è riapparso sulla scena nei panni finora mai indossati del punto di riferimento della Merkel in Italia, pronto a schierare come suo candidato il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, per più di due decenni interlocutore dei democristiani tedeschi nelle istituzioni Ue. Alla Germania non spaventa neppure il ritorno al governo della Lega: a Berlino sanno che al di là dell’estremismo verbale di Matteo Salvini la Lega governa in modo pragmatico le più importanti e ricche regioni italiane, con Roberto Maroni e Luca Zaia, politici che assomigliano ai presidenti dei Länder tedeschi e che non vengono considerati populisti. L’alleanza Forza Italia-Lega ricorda quella Cdu-Csu bavarese e se Salvini dovesse insistere sulla strada della rottura con l’euro-zona sarebbe scaricato.

L’ideale, agli occhi della Germania, è una nuova coalizione centrosinistra-centrodestra, per dare all’Italia un governo in grado di rappresentare per la Germania un’alternativa all’asse con la Francia di Emmanuel Macron. Anche se in pochi si fanno illusioni che un simile schieramento avrebbe i numeri che servono per governare di fronte a M5S. Più che una grande, sarebbe una coalizione piccola piccola. Ma in questo caso, più di Renzi, agli occhi della Merkel sarebbe meglio l’affidabile Paolo Gentiloni. Oppure, quando scadrà il suo mandato alla Bce, l’inquilino della Eurotower di Francoforte Mario Draghi. Che per i suoi nemici in Germania è l’italiano abusivo ai vertici della Banca centrale europea, ma per la Merkel invece è un prezioso alleato. Il volto di un’Italia in cui la Germania si rispecchia e si riconosce.

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