Volevano rovesciare il capitalismo per salvare l’ambiente, ma ora sono le multinazionali che teorizzano la sostenibilità. Capovolgendone il senso. E l’ecologismo si è fatto impolitico e universale, integrato nella globalizzazione

Se si parla ancora di Genova è per l’assurda violenza della “repressione” e nessuno sembra più ricordare il contesto sociale e culturale in cui quei fatti maturarono. Quasi una generazione è ormai passata. Fissiamo almeno alcune immagini: milioni di bandiere della pace alle finestre di tutto il Paese, manifestazioni ovunque contro la politica Usa in Medio Oriente, la contestazione di masse di giovani di tutto il mondo alle riunioni dei Grandi. Aggiungiamoci pure da noi l’ultima stagione in cui il Sindacato operaio fu protagonista e guida della protesta e rappresentante di una volontà di riforma del sistema economico e politico, stagione definitivamente conclusa con la grandiosa manifestazione del Circo Massimo.

 

Se non si parla ormai di tutto ciò come i reduci parlano del ’68 poco ci manca. Che cosa ha prodotto la chiusura di quella stagione, chiusura sancita in qualche modo dai lockdown e dalle “distanze sociali” di quest’ultimo periodo, dalle infami forme culturali che la gestione della pandemia ha finito con l’assumere? Per rispondere adeguatamente alla domanda, senza ira né nostalgia, credo sia necessario comprendere bene quali fonti alimentassero quei movimenti e che cosa ne ha prodotto il disseccarsi.

 

La ricostruzione
Genova, 20 luglio 2001
2/7/2021

Il problema ecologico in tutta la sua ampiezza e complessità si era imposto all’attenzione universale tra anni ’80 e inizio del Millennio, ma era diventato il contenuto assolutamente dominante dell’azione di quelle correnti della “sinistra storica” che di questa contestavano il mutamento (antropologico addirittura, si diceva) in senso blairiano e clintoniano, e cioè il “compromesso storico” con le potenze tecnico-economico-finanziarie dominanti il pianeta.

 

Il problema - colossale invero - del rapporto tra il sistema socio-economico ormai globalizzato e Natura, ovvero le condizioni di riproduzione delle stesse basi biologiche della nostra esistenza, fu posto da quelle correnti in termini di assoluta contrarietà. Insostenibile era questo sistema in sé e per sé; era la sua natura a rendere materialmente impossibile che esso potesse essere sostenuto dalla Natura. La radicale contestazione del capitalismo assunse questa forma ecologica. La sinistra estrema si riciclò e ritrovò tutta in essa. Chi forse espresse con più giovanile energia, vivacità intellettuale, originalità e competenza questa versione dell’anti-capitalismo contemporaneo fu Naomi Klein: solo una rivoluzione ci salverà. Era l’esatto rovesciamento del marxismo “classico”, e anche della politica delle sinistre tradizionali.

 

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Il mutamento sociale (e sia pure, al limite “ideale”, la rivoluzione) non poteva rappresentare per loro che il prodotto di trasformazioni “progressive” maturanti all’interno della struttura tecnico-economica, niente affatto in insanabile conflitto con lo “sviluppo” (che restava esigenza imprescindibile: senza aumento della ricchezza prodotta nulla è realizzabile, questo il refrain). L’antica lotta tra socialdemocrazia riformista e socialismo rivoluzionario assumeva questa forma radicalmente nuova: da un lato, il sistema capitalistico ormai globale genera, se governato politicamente, le condizioni per armonizzare crescita, sviluppo, maggiore benessere con le esigenze di protezione della biosfera cui il Caso ci ha destinato (e che ne sappiamo se sarà l’unica?) - dall’altro lato, non esiste alcun governo politico del capitalismo in grado di regolarne la volontà di riproduzione allargata così da renderla ecologicamente sostenibile. Solo rovesciandone la logica - e quella politica che alla fine ne è succube - sarà possibile salvare la vita sulla Terra (e nessun’altra Terra ci verrà mai data, se non nelle distopie à la Philip K. Dick). Drammatizzo, ma per render chiara anche la profondità del conflitto come allora si rappresentò in tante piazze del mondo.

 

Editoriale
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2/7/2021

Le basi culturali di Genova erano queste; nessun ingenuo, infantile movimentismo. Il loro era, piuttosto, un consapevole naturalismo - e proprio questo ne ha determinato la sconfitta a fronte di un mutamento profondo della cultura dei settori trainanti, decisivi del capitalismo attuale. Da Adam Smith il capitalismo è cultura, etica, visione del mondo opposta a ogni naturalismo, ma non tale da dover ritenere per forza la natura come res extensa a nostra disposizione e sfruttabile a piacere. I movimenti ecologistici grondano, per questi aspetti, di motivi critici sulla Tecnica propri di correnti tradizionaliste o anche reazionarie del pensiero contemporaneo. Motivi che nell’ultimo periodo i grandi Capi delle multinazionali della comunicazione, dell’informatica, della logistica, i padroni dei big data, e poi via via di tutti i settori-chiave del nostro sistema sociale di produzione, hanno assunto, sussunto nelle loro strategie, e finito con l’imporre. Capovolgendone, è ovvio, il senso originario.


La sostenibilità è diventata fattore fondamentale e intrinseco del salto tecnologico. Lo è stato anche in passato, ma nella prospettiva di una disponibilità di risorse naturali che si credevano comunque illimitate. Oggi essa è diventata esigenza imprescindibile, e sulla sua base avviene la selezione naturale. Chi può sopravvivere e chi no verrà sempre più deciso su tale metro: l’impresa incapace, non importa per quali ragioni, a compiere quel salto dovrà morire. Potrà sopravvivere soltanto chi organizza i propri fattori di produzione in modo da certificarne la compatibilità con l’ambiente. Così le imprese-guida del capitalismo globale diventano, per logica intrinseca, le prime avversarie di quelle ideologie e di quelle leadership politiche “conservatrici” che, nel momento della transizione, avevano magari sostenuto. Sono loro oggi le prime a esigere una politica rigorosamente ecologista. E non si tratta affatto di tattica, di convenienze spicciole, di mercato dell’immagine. Anche questa, è chiaro ci vuole: ed ecco che al posto delle manifestazioni di massa di vent’anni fa nascono le Grete. L’ecologismo si fa impolitico e universale, fattore integrante della globalizzazione, e sempre meno potrà caratterizzare una parte politica dall’altra, se non per motivi marginali e occasionali.


In questa, che è forse l’epoca della sua immagine compiuta, del realizzarsi pieno della idea che lo fonda, il capitalismo afferma che la propria potenza tecnico-scientifica non solo non è in contrasto con la Natura, ma ne costituisce quell’Erede che può rappresentarne l’unica, vera difesa. Le imprese che tradiscono tale missione vanno soppresse. E in quest’opera certamente i Google e gli Amazon di tutti i continenti e tutti i regimi sono diecimila volte più efficienti delle Naomi Klein. Marx sapeva benissimo che lo sviluppo capitalistico esige tali rotture e tali salti, e che non si poteva opporre alla sua logica alcun limite naturalistico. La rivoluzione è concepibile soltanto come rovesciamento dei rapporti di potere, rapporti sociali e culturali, al suo interno. L’ecologismo politico di una generazione fa poneva in quasi meccanico rapporto questo rovesciamento con il colossale problema della sostenibilità. Fu un nobile errore teorico, o magari un “non falso errore”, per dirla con Dante. Ma il silenzio che genera “a sinistra” non significa affatto che “a destra” abbiano ragione e che il problema sia risolvibile semplicemente obbedendo al loro Impero.

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