La vedova dell'ex dittatore delle Filippine Marcos ci ha aperto le porte della sua casa di famiglia e dei suoi ricordi. Tra centinaia di paia di scarpe, Goya e Picasso. E una galleria di potenti. Da Mao a Hirohito. Da Gheddafi a Saddam Hussein

Perdoni, madame, la cercano dal Palazzo. Chiedono se ha un nome da suggerire come nuovo ministro delle Finanze. Pare che il ministro Tavez abbia deciso di candidarsi al Senato e dunque deve dimettersi. Ding Diaz, segretario particolare di Imelda Marcos, si scusa per l'interruzione, e porge un telefonino all'ex first lady, impegnata a cantare 'Che sarà' dei Ricchi e Poveri, accompagnata dall'orchestrina del ristorante italiano 'Opera' a Makati, il centro commerciale di Manila dove ci ha invitato a cena. Le avevamo chiesto un'intervista, ci ha sequestrati per l'intera giornata: "Così potrete scrivere che non ho segreti, che nonostante i miei 77 anni sono ancora in forma e che il popolo mi ama". Imelda alza gli occhi al cielo, come per dire: "Ecco, vedete? Non ho un attimo di respiro". Poi finisce la canzone, allunga una lauta mancia ai suonatori e finalmente prende il telefono e si allontana. Dopo mezz'ora riemerge. "Era Gloria, sì, Gloria Macapagal Arroyo, l'attuale presidente delle Filippine. Sapete, è nei guai, per guidare questo Paese ci vogliono idee chiare e carisma. E lei non ha mai avuto né le une né l'altro. Per questo ora mi chiede consiglio. Ma è troppo tardi, temo. Neanche lei passerà alla storia di questo meraviglioso e sfortunato Paese".

Imelda, invece, la storia l'ha fatta accanto a suo marito, Ferdinand Marcos, presidente delle Filippine dal 1965 che governò da dittatore assoluto fino al 1986, allorché venne costretto all'esilio. Ufficialmente nullatenente, assolta dalla maggior parte dei processi intentati contro di lei negli Stati Uniti e nelle Filippine ("Mi hanno coperto con oltre 900 capi d'accusa", attacca: "L'unica condanna che ho subito è stata per aver costruito un ospedale a Manila, mi hanno dato 41 anni di prigione, poi la Corte Suprema ha trovato il coraggio di assolvermi"), Imelda è tornata alla ribalta delle cronache quando, lo scorso dicembre, ha annunciato che stava prendendo in considerazione l'idea di candidarsi alle prossime elezioni. A parte la presidenza, il cui rinnovo è previsto nel 2008, il prossimo maggio i filippini sono chiamati a rinnovare Camera e una parte del Senato (dove si candiderà il primogenito di Imelda, Ferdinand 'Bongbong' Marcos), e a eleggere governatori, sindaci, e amministratori locali. La sortita di Imelda (che poi ha smentito, sostenendo che si riferiva al nipote Borgy, 26 anni, anche lui già calamitato dalla politica) è stata fragorosa, tanto più che un sondaggio ha rivelato che l'ex first lady risultava di gran lunga il personaggio più popolare, con buone possibilità non solo di confermare il suo seggio in Parlamento, ma di battere qualsiasi altro candidato alla presidenza. Una bella soddisfazione per chi, vent'anni fa, era stata costretta a fuggire dal suo Paese assieme al marito, additata al mondo come esempio di donna arrogante e stravagante, pronta a tutto pur di soddisfare le sue manie di grandezza.

Impossibile non cominciare da quel giorno, quando il popolo filippino scoprì, inorridito, la sua leggendaria collezione di scarpe, facendone scempio. "Appunto. Scempio. E pensare che le avevo collezionate con tanto amore, memore del detto confuciano: 'Sono le scarpe che determinano l'eleganza di una persona'. Ho sempre amato la bellezza. E ho cercato di trasmetterla al popolo, che ha bisogno di sognare, di modelli a cui ispirarsi. Ancora oggi, prima di andare in un quartiere povero, e ce ne sono forse più di allora, passo due ore a truccarmi, a scegliere il vestito e le scarpe giuste. È una questione di rispetto, non vi pare?". A giudicare dall'entusiasmo che provoca ovunque vada, si direbbe che Imelda abbia ragione. In un Paese dove 400 famiglie continuano a possedere l'80 per cento delle risorse, dove regnano il malgoverno e la corruzione e dove povertà e degrado raggiungono i livelli più alti del continente asiatico e forse del mondo, al popolo non resta che sognare. Ma torniamo alle scarpe, madame. Dicono che le ha recuperate quasi tutte, e che oggi ne ha più di prima. "Sì e no. Di quelle che possedevo all'epoca se ne sono salvate solo 738, catalogate una per una dalla commissione speciale che il governo di Cory Aquino aveva istituito per recuperare il cosiddetto 'bottino dei Marcos' e che si è dissolta nel nulla dopo aver venduto all'asta per quattro soldi opere di inestimabile valore, come nove tele del Canaletto, che per anni ho inutilmente chiesto che venissero acquisite nei nostri musei. Ci sono riuscita con le scarpe: sono tutte conservate nel museo di Marikina, il distretto calzaturiero alla periferia di Manila. Non avete idea del successo che l'iniziativa ha avuto e della gente che va a visitarlo: oltre 100 mila persone l'anno! I filippini hanno un grande senso estetico e i nostri calzolai passano ore a osservare gli splendidi modelli di Ferragamo, Magli, Beltrami. Quante scarpe posseggo oggi? Forse più di prima: non ci crederete, ma da simbolo della mia stravaganza sono diventate simbolo della mia ricerca del bello. E ogni persona che mi viene a trovare me ne porta sempre un paio".

Giovedì 18 gennaio, il giorno prima del nostro incontro, a far visita all'ex first lady si è presentato il premier cinese Wen Jiabao, al termine della sua visita ufficiale nelle Filippine ai margini del vertice di Asean. Un bell'onore, madame, come mai? "Mio marito è stato il primo leader asiatico a essere invitato in Cina dal presidente Mao. Ricordo ancora il suo elegante baciamano e le sue parole di omaggio a Marcos: grazie per non aver mandato le vostre truppe in Vietnam, è stata un decisione saggia, gli disse. Da allora abbiamo mantenuto sempre ottimi rapporti con la Cina, rapporti che spesso curavo personalmente. Mio marito si fidava molto di me e delle mie capacità diplomatiche. Non dimenticatevelo: sono stata io a salvare le Filippine dalla guerra civile, firmando la tregua con gli indipendentisti islamici. E poi ai tempi di Marcos non c'erano attentati e sequestri, e i turisti potevano venire tranquillamente nel nostro Paese, altro che oggi!". Imelda è un fiume in piena. E con una memoria di ferro. "Ma lo sapete che quando andammo in visita a Cuba, Fidel Castro cacciò l'interprete e volle portarci a fare un giro in macchina per l'Avana? E che dire dell'imperatore del Giappone Hirohito? Venne ad accogliermi di persona all'aeroporto di Tokyo, un onore che non aveva mai riservato a nessuno in precedenza, nemmeno ai presidenti degli Stati Uniti".

Abbandonata ogni reticenza, dopo averci mostrato l'appartamento dove vive oggi, al 34mo piano di un grattacielo ("Ospite di un'amica", dice), la signora ci porta nella sua casa di famiglia, a San Juan. Sospira: "Quando sono tornata dall'esilio, ho trovato tutto devastato, persino gli alberi avevano sradicato...". Ora è una piccola reggia, tra opere d'arte di inestimabile valore (un Goya di qua, un Picasso di là e chissà quante altri capolavori nascosti) e paccottiglia varia. La Marcos ha appena lanciato una linea di vestiti e bigiotteria kitsch, che pare vada a ruba su Internet. Racconta: "È stata un'idea dei miei nipotini: nonna, tu che rendi tutto bello, perché non entri nel mondo della moda?".

Nel frattempo continua a tessere le lodi del regime di Marcos: "La verità è che mio marito non ha mai fatto eseguire una sola condanna a morte, nemmeno durante gli anni della legge marziale (fu in quel periodo che il presidente attribuì alla moglie vari poteri pubblici: ministro, ambasciatore... ndr)". E l'assassinio di 'Ninoy', il marito di Cory Aquino, il giorno del suo rientro in patria dall'esilio? La giustizia filippina ha assolto tutti i vari indagati, ma sono in molti a ritenere che l'ordine di ucciderlo sia venuto dal Palazzo, in particolare da lei. "Ma quando mai!", si inalbera l'ex first lady: "Io e Ninoy eravamo amici, gli volevo bene e lo rispettavo. Era un uomo onesto, coraggioso. Fui io a convincere mio marito a liberarlo dalla prigione e a permettergli di farsi curare negli Stati Uniti. Questo la signora Aquino lo sa bene. Ricordo ancora quando ci serviva il tè, in occasione delle mie visite a Ninoy!". Ma allora, chi è stato a ucciderlo? "Chiedetelo a chi ha tratto vantaggio da quell'assassinio. Certo è che da allora per noi le cose sono precipitate, l'opposizione ha usato quell'episodio per farne un martire del regime. È evidente che si trattò di un complotto, e i complotti nel nostro Paese li organizzano i militari". E racconta che un primo avvertimento l'avevano già avuto da parte di Fidel Ramos e Johnny Enrile, all'epoca rispettivamente capo di Stato maggiore e ministro della Difesa. "Ebbene", racconta Imelda, "Ramos ed Enrile, che nel 1986 si sarebbero ammutinati, consegnando il Paese alla borghesia latifondista e alle multinazionali americane, nel 1979, a Tripoli, alla vigilia dello storico accordo che siglai a nome del mio Paese con 29 Stati islamici per mettere fine alla guerra civile, Ramos ed Enrile mi abbandonarono a Tripoli, presero l'aereo governativo e se ne volarono a Roma. Avevano paura di un sequestro da parte di Gheddafi. Figuriamoci!". Il colonnello è stato un suo grande ammiratore, come pure l'ex rais iracheno Saddam Hussein... "Sì. Al punto che entrambi si sono offerti di pagare la cauzione di 5 milioni di dollari, quanto il tribunale di New York mi incriminò per il 'processo del secolo'".

Con Imelda Marcos è impossibile tornare al presente, o strapparle qualche segreto sui suoi tesori. Come la piccola testa di Michelangelo, avuta tramite il famoso antiquario fiorentino Mario Bellini, di recente scomparso, e pagata oltre 3 milioni di dollari. "Sa che accadde nel febbraio 1986?", ci chiede: "Marcos vinse le elezioni con oltre un milione di voti di scarto. Ci telefonò il senatore Paul Laxalt, nostro amico di famiglia e tra i più ascoltati consiglieri del presidente Ronald Reagan. Ci disse di prepararci, che saremmo stati trasferiti nella nostra residenza di Ilocos, la roccaforte elettorale di Marcos, perché c'era il pericolo di un'insurrezione comunista. Non ci fecero prendere nulla, tanto era solo per pochi giorni, ci dissero. Invece, arrivati alla base Usa di Subic, ci trasferirono su un aereo militare e di lì fummo portati alle Hawaii". Marcos, già gravemente ammalato, morì tre anni dopo, nel gennaio 1989. "Non avevamo vestiti, effetti personali, niente, nemmeno il latte per i nipotini. Io ero furibonda: traditi dai nostri alleati!".