Mondo
1 settembre, 2009

Black America

Il primo presidente afroamericano della storia Usa ha significato certamente una rivoluzione. Ma nel Paese resistono forti pregiudizi e forme di razzismo. E per la comunità nera l'accesso ai posti di comando resta spesso precluso

Aaron Sorkin, l'inventore di 'West Wing', aveva creato un solo personaggio di origine afroamericana: Charlie, l'assistente del presidente degli Stati Uniti. Tutti gli altri caratteri della serie televisiva che si svolgeva dentro l'ala della Casa Bianca dove il presidente vive e lavora, erano bianchi con qualche eccezione di latinos. Eppure 'West Wing' non è stata scritta, prodotta e messa in onda in un'epoca storica lontana: ha avuto sette anni consecutivi di successo su Nbc. E l'ultimo episodio è andato in onda nel 2006, solo due anni prima dell'arrivo nell'Oval Office dell'afroamericano (per parte di padre) Barack Obama.

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Oggi Sorkin dovrebbe rimettere mano alla sceneggiatura se volesse aderire di più alla realtà, con una seconda serie di 'West Wing'. Perché nel via vai nei corridoi della Casa Bianca non c'è solo il nero Reggie Love, l'assistente personale di Obama. Oltre a Reggie, gli afroamericani sono numerosi. Occupano posti importanti nella gerarchia presidenziale, e sono quasi tutte donne. Per i patiti dei numeri, su 36 incarichi il presidente ne ha affidati sette ad afroamericane: ci sono Mona Stuphen, vice capo di Gabinetto ed esperta di politica estera, Desirée Rogers, responsabile degli Eventi sociali, Valerie Jarrett, consigliere anziano e responsabile dei rapporti con sindaci e governatori, Cassandra Butts, viceconsigliere della Casa Bianca, Melody Barnes, a capo del Consiglio per gli affari di politica interna. E subito fuori dal palazzo presidenziale, in posti che rispondono direttamente a Obama, ci sono l'ambasciatrice alle Nazioni Unite Susan Rice, sempre presente nell'ufficio Ovale quando si discutono le relazioni dell'America con il resto del mondo e la sicurezza, Lisa Jackson, oggi al vertice dell'Epa, la protezione civile americana, e Margaret Peggy Hamburg, appena nominata alla direzione della potentissima Food and Drug Administration.

Certo, nel circolo dei consiglieri più vicini a Obama sono tutti bianchi. E anche nel governo c'è un solo afroamericano, il ministro della Giustizia Eric Holder. Ma la composizione del gabinetto (quattro su 15 sono asiatici o latinos) e dello staff presidenziale è lontana anni luce da quella di George W. Bush, dove hanno brillato solo due stelle del firmamento nero: Colin Powell e Condoleezza Rice, e anche da quella di Bill Clinton. È una grande novità, ma non è ancora l'America post razziale che Obama ha immaginato e ha proposto ai suoi concittadini nel lungo viaggio politico verso la Casa Bianca e che per lui significa parità assoluta da una parte e dall'altra, nessuno strumento che faccia andare avanti tenendo conto anche del colore della pelle.

Negli Usa la questione razziale esiste ancora e vede come un secolo fa, da una parte i bianchi e dall'altra gli afroamericani, i latinos, gli asiatici e tutte le altre etnie che negli Stati Uniti formano un melting pot unico. La questione dei black people, però, resta la più visibile per le strade, la più contraddittoria negli avvenimenti che segnano la vita quotidiana del Paese, la più delicata dal punto di vista emozionale. Una spiegazione a tinte forti la si può leggere in uno studio dell'American sociological association dal titolo 'Comprendere la lotta degli afroamericani per il potere politico'. "Quello che distingue gli afroamericani dagli altri gruppi etnici negli Stati Uniti ", scrivono Benedict Ngala e Marie Claude Jipguep, "è l'eredità della schiavitù e la sua base razziale. La schiavitù fu la base economica per lo sviluppo di una ideologia fondata sulla razza che è stata utilizzata in ogni fase dello sviluppo capitalistico... I neri erano stati esclusi dall'arena politica perché i bianchi avevano sfruttato la loro forza lavoro".

Ma qual è lo stato dei rapporti tra bianchi e neri? Ogni anno la National Urban League, organizzazione non profit fondata nel 1910 e che si occupa di favorire l'inserimento degli afroamericani nella società, cerca di fotografare la situazione con un dossier che ha sempre il titolo 'The State of Black America' e nel quale le analisi condotte vengono anche enunciate sotto forma di numeri. Si comincia con l'indice generale di eguaglianza: se i bianchi sono rappresentati dal numero 100, nel 2009 i neri sono fermi a 71,1, segno che la parità è ancora lontana da raggiungere. Ma è significativo confrontare l'indice 2009 con quello del 2004: in questo caso i neri sono a 73, numero che racconta come invece di migliorare, la situazione si sia deteriorata.

Lo studio di 'The State of Black America' analizza anche i diversi aspetti della vita sociale nel rapporto bianchi-neri. Nell'economia, che vuol dire accesso al lavoro, retribuzioni, qualità degli incarichi, al 100 dei bianchi corrisponde il 57,4 del 2009 e il 56 del 2004 degli afroamericani, un leggero miglioramento. Guardando al rapporto con la salute, ovvero assicurazioni mediche, rapporti con ospedali e dottori, accesso alle cure, c'è stato un arretramento dal 78 del 2004 al 74,4 del 2009. Come anche, e con ancora maggiore evidenza, un passo indietro c'è stato per la giustizia sociale: nel 2004, al 100 dei bianchi, gli afroamericani hanno segnato il 73, mentre nel 2009 sono tornati indietro al 64. Migliorata invece la situazione dell'accesso all'educazione: nel 2004 l'indice era 76, nel 2009 è arrivato al 78,5. Nell'indice di eguaglianza c'era un solo aspetto nel quale i neri superavano i bianchi, ed era la presenza nella comunità dove nel 2004 erano arrivati al 108. Ma anno dopo anno hanno fatto marcia indietro: evidentemente si sono rinchiusi nella vita privata, tanto da arretrare fino a 96 nel 2009.

Quanto questi numeri rappresentano davvero la realtà? Se ne può discutere forse all'infinito, ma il problema resta. E lo ha evidenziato lo stesso Obama giovedì 16 luglio scorso parlando al Naacp (è l'associazione nazionale per lo sviluppo delle persone di colore), la più antica organizzazione per i diritti civili, in occasione del centesimo anno della sua fondazione. Il presidente degli Stati Uniti, sottolineando i progressi compiuti, ha invitato tutti a continuare per i prossimi cento anni lungo la strada già percorsa: "Dobbiamo sradicare i pregiudizi, l'intolleranza e le discriminazioni tra i cittadini americani. Anche se capisco che qualcuno possa avere la tentazione di pensare che la discriminazione non sia più un problema nel 2009. Certo, io penso che in America non ci sia mai stata così poca discriminazione come oggi. Ma attenzione: la paura di essere discriminati c'è ancora".

Non è solo timore di restare ai margini, è anche la vita quotidiana. Basta guardare le cifre della disoccupazione: se quella generale degli Usa è arrivata all'8,7 per cento, quella degli afroamericani è al 14,7 per cento. Altre fotografie della distanza sociale tra bianchi e neri vengono dal censimento del 2007, il quale racconta come il reddito medio di un bianco sia di oltre 52 mila dollari l'anno, mentre quello di un nero non riesce a superare i 40 mila dollari. Ancora: le famiglie bianche che possiedono azioni e fondi sono il 57 per cento mentre le famiglie afroamericane non vanno oltre il 23 per cento. O che il numero di bianchi vittime di omicidi da parte di persone della stessa razza siano 3,7 ogni 100 mila abitanti, mentre per i neri questa percentuale sale al 21,1.

Ma a Obama non piace lamentarsi e non pensa che gridare alla propria condizione disagiata sia la soluzione del problema. Così, alla platea del Naacp ha lanciato questo messaggio: "Noi abbiamo bisogno di una nuova mentalità, perché una delle più devastanti eredità della discriminazione è il modo in cui abbiamo acquisito l'idea di avere un limite in quello che possiamo fare... I nostri figli non possono tutti aspirare a essere James LeBron o Lil Wayne. Devono lavorare per essere scienziati e ingegneri, dottori e insegnanti, non solo campioni nello sport, ballerini o rapper. Devono aspirare alla Corte Suprema o a diventare presidenti".

Niente vie facili al successo, dunque, e niente piagnistei è il messaggio del presidente americano. Ma certo è difficile trasformare le parole in fatti. La questione razziale, poi, non solo esiste, ma è piena di insidie anche per chi, come il presidente Usa, pensa di averla risolta e di essere in grado di maneggiarla senza errori. E invece non è così, tanto è vero che è bastata una parola fuori posto per creare un caso che ha coinvolto la stesso inquilino della Casa Bianca. Obama ha usato l'avverbio 'stupidamente' per giudicare il comportamento di un poliziotto bianco, il sergente James Crowley, nei confronti di un professore universitario afro-americano, Henry Louis Gates junior che aveva arrestato.

Era accaduto che il 21 luglio il professore non riusciva ad aprire la porta della sua casa di Cambridge, in Massachusetts, e qualcuno ha avvertito la polizia pensando a un ladro in azione. Arrivati gli agenti, il professore ha detto che quella era la sua casa. Dopo deve essere accaduto qualcosa che ha fatto scattare il corto circuito, con il professore che seguiva la linea del "lei non sa chi sono io e questa è casa mia" e il sergente Crowley che reclamava la sua autorità di controllore dell'ordine. Risultato: il professore in manette al commissariato per "condotta contraria all'ordine pubblico" con tanto di foto segnaletica e seguente rilascio con accuse ritirate. Incidente a sfondo razziale? L'avverbio 'stupidamente' pronunciato da Obama ha acceso il fuoco, con la polizia di Cambridge (inclusi alcuni agenti afroamericani) alla conferenza stampa per respingere le accuse di razzismo e il presidente Usa che si presenta in sala stampa a correggere il tiro: "Non conoscevo tutti i fatti".

La storia ha un lieto fine, con Obama che ha invitato il professore e il sergente alla casa Bianca a fare due chiacchiere e bere una birra. Ma solo una persona negli Stati Uniti ha il potere di disinnescare un possibile incidente a sfondo razziale con una birra fredda e una stretta di mano. E tutti gli altri?

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