Nel nord del paese il gruppo terrorista ha già fatto 14mila morti. Il primo bersaglio sono i cristiani, ma tutta la popolazione vive sotto continua minaccia (Foto di Marco Gualazzini)
La strada che conduce alla piccola chiesa di Saint Joseph, alla periferia di Jos, è puntellata di posti di blocco. È domenica, giorno di Dio e di terrore. La tensione e l'allerta sono massime. Barriere di cemento a contrastare le autobombe, massi e chiodi a tre punte a sbarrare le strade, soldati dell'esercito e ufficiali della polizia nigeriana a scrutare ogni macchina. Le canne dei mitra e dei Kalashnikov sono sempre ad altezza d'uomo e gli ordini dei militari sono perentori: le vetture vengono fermate, i fedeli perquisiti e le valige svuotate.
Il sospetto, la paura e l'incubo degli attentati pervadono tutta la comunità cristiana della Nigeria, nell'occhio del mirino degli integralisti islamici. La stessa scena infatti si ripresenta anche nel quartiere residenziale di Rayfield, per arrivare alla parrocchia di St. Finbar, dove i credenti vengono controllati con i metal detector e le devote costrette a lasciare le proprie borsette fuori dall'ingresso. Qui un attentato suicida ha già provocato la morte di quindici persone. «Una macchina con a bordo due uomini cercò di entrare nel cortile della parrocchia, l'auto esplose, sventrò il cancello, crollarono i vetri e la gente in preda al panico tentava di fuggire attraverso le finestre», racconta Peter Umoren, il prete che stava celebrando la messa al momento dell'attacco. Gli fa eco Regina Emmanuel: «Un gruppo di boy scout e di volontari riuscì a chiudere il portone, ma la deflagrazione investì i presenti, che persero la vita. Tra loro c'era anche mio marito». Che si chiamava Ndat Kanke ed è una delle oltre 14 mila vittime nigeriane del conflitto religioso che dura da oltre dieci anni e si è incrudelito negli ultimi tempi e sta piegando il centro-nord del Paese. Dove, dal 2009, ha fatto la sua comparsa Boko Haram, il gruppo responsabile di almeno tremila morti.
Boko Haram è nato nei primi anni del 2000 nella città di Maiduguri, dalla predicazione dell'Imam Mohammed Yusuf. Un nome, quello della setta, che in lingua Hausa significa "l'educazione occidentale è proibita": sotto il fuoco dei guerriglieri, che stanno seminando panico nel Paese, dunque, ci sono soprattutto obiettivi governativi, cristiani e occidentali, ma anche il mondo musulmano che non si allinea alla politica del Jihad, la guerra santa e alla creazione di uno Stato in cui imperi una legge islamica radicale. L'organizzazione, che gli analisti dicono avere legami con sigle qaedaiste, ha negli anni generato una rete di cellule e formazioni combattenti. La più recente porta il nome di Ansaru, quella macchiatasi del sangue dei sette lavoratori della compagnia Setraco, tra cui l'ingegnere italiano Silvano Trevisan.
In Nigeria, il paese più popoloso del Continente che, dopo Somalia e Mali, rappresenta l'ultima frontiera del Jihad in Africa, è quindi esploso un microcosmo del terrore, come testimonia lo scontro a fuoco del 19 aprile tra gli estremisti e l'esercito nigeriano: una strage di 185 uomini tra miliziani, lealisti e civili.
È nello Stato del Plateau, di cui Jos è la capitale, che i cristiani, maggioranza della popolazione, sono più colpiti. Nella regione del Middle-belt i guerriglieri islamici si sono infatti inseriti agevolmente, sfruttando il sottobosco generato da un pregresso conflitto civile e interreligioso, nato per il controllo politico del territorio. Da una parte gli agricoltori cristiani Berom, maggioranza nella regione, dall'altra i pastori Fulani e Hausa, di fede musulmana. Mentre i primi godono dello status di indigeni, che permette di aver accesso a cariche pubbliche, alla proprietà della terra, ai servizi sanitari e all'educazione statale, ai secondi tutto ciò viene negato. E questa disparità sociale ha generato un rancore che si acuisce ogni giorno, trovando humus fertile nelle differenti confessioni e appartenenze etniche. A riprova: i massacri di Kuru Karama, dove sono stati trucidati oltre 200 musulmani e quello di Dogo Nahawa, in cui invece sono stati uccisi 450 cristiani in una sola notte.
Il leader della comunità cattolica, l'arcivescovo di Jos, Ignatius Kaigama tuona: «Noi guide spirituali stiamo lavorando per creare un percorso di pace, ma il cammino è molto difficile. Troppo spesso, pure nei bambini, c'è una propensione alla violenza verso chi è di un'altra fede». Ha 23 anni Regina Luka, cristiana e superstite del recente assalto condotto dai pastori islamici nel villaggio di Kogom, ferita dai proiettili a entrambe le gambe. Ora è distesa nel letto dell'ospedale di Vom dove viene curata: «Sono arrivati tutti vestiti di bianco, impugnavano machete e mitra e hanno aperto il fuoco contro di noi. Ho visto morire mio marito e i miei due figli. Poi mi hanno colpita e sono svenuta. Pensavano fossi morta, ma ora è come se lo fossi davvero». Si guarda le bende e si asciuga le lacrime, Regina, vittima di quella guerra dove l'odio viene beatificato, in nome della religione.
Tutto il territorio è pieno di insidie. Il pericolo può nascondersi ovunque. E non sono un deterrente per chi vuole seminare la morte le forze dell'ordine. Da Jos a Kano, 300 chilometri, si contano 14 check point. «Non c'è un fronte e il nemico non ha un volto, bisogna sospettare di chiunque», dichiara il caporale Okon Akpan della Joint Task Force. Così è. Un ultimo posto di blocco e poi l'ingresso in una delle città-roccaforte di Boko Haram, in cui il conflitto è invisibile, ma la violenza e la morte sono evidenti. D'improvviso viene assaltata una scuola elementare: i ribelli sono a bordo di moto, con i volti coperti e gli Ak-47 imbracciati. Una sola la raffica. Poi, sul terreno restano, agonizzanti, il preside e quattro maestri.
Pochi giorni dopo un nuovo attacco, un'azione suicida nella stazione degli autobus; questa volta l' obiettivo è il bagno di sangue. L'esplosione coinvolge un pullman carico di passeggeri e investe centinaia di persone; per terra una distesa di cadaveri.
A Kano, la città più popolosa del Nord, 95 per cento di popolazione musulmana, la paura paralizza ogni attività. L'attentato può avvenire dovunque: nel traffico caotico delle vie cittadine, sotto le secolari mura di fango della porta Kofar Mata Gate, così come tra i banchi di vestiti e alimentari nel mercato di Kurimi. «Ormai niente funziona più. Anche il commercio sta pagando le conseguenze della guerra», racconta Sani Ahamed, macellaio di 45 anni: «La gente preferisce non uscire a far compere. Fuori di casa non sai cosa ti può succedere».
Pattuglie governative presidiano ogni strada, ogni quartiere e pure le moschee, anch'esse sotto il fuoco degli integralisti islamici. È seduto all'ombra dei minareti l'Imam Dauda Mohamed, avvolto da una jalabia e con il tasbih, il rosario musulmano, stretto tra le mani. Tenendo gli occhi fissi sul Corano, racconta le cause del fanatismo e confessa una vita rassegnata alla minaccia jihadista: «Boko Haram è alimentato dalla povertà e dall'ignoranza, piaghe che dilagano in questa parte del Paese. Mancano lavoro e prospettive e le migliaia di bambini che mendicano nei vicoli diventano il serbatoio da cui vengono attinti i futuri miliziani. A questi si aggiungono poi i nuovi combattenti provenienti da altri paesi, entrati in Nigeria dopo essersi ritirati dal Mali. Il problema maggiore, comunque, è che nessuno sa realmente chi siano i terroristi. Tutti ne parlano, ma la loro capacità di mimetizzarsi ed essere invisibili sta facendo implodere questo Stato. L'unica cosa che possiamo fare è pregare».