
Proprio lei, che era solita riscaldare l’acqua sul fuoco, insaponarla delicatamente e pettinarle i lunghi capelli neri fino a farli brillare. Ma quel giorno, il 25 agosto del 1996, Isabel era andata al funerale di alcuni parenti morti in seguito a un incidente stradale, e non poteva immaginare quello che stava accadendo a sua figlia.
Sabina Huilca Cóndor di 26 anni, era all’ultimo mese della sua terza gravidanza, e quando fosse arrivato il momento avrebbe contato come sempre sull’aiuto di sua madre e di sua sorella Nelly. In quegli anni, nella piccola comunità di Huayllacocha, incastrata tra le montagne che circondano Cusco, l’antica capitale dell’impero Inca, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di affidarsi a un’equipe di medici, infermiere e ostetriche per qualcosa di tanto naturale e quotidiano come dare alla luce un figlio.
[[ge:rep-locali:espresso:285139439]]Ma le “promotrici di salute” che nella seconda metà degli anni novanta avevano cominciato a girare per i villaggi remoti e le zone rurali del Paese con l’obiettivo di aiutare le contadine e le donne indigene a raggiungere una maggiore coscienza del loro corpo e dei sistemi anticoncezionali, avevano raccomandato a Sabina di fidarsi di loro, perché il nascituro era podalico e un parto in casa avrebbe messo a rischio la vita della madre e del feto. Così, quando a Sabina si ruppero le acque, lei e suo marito Carlos si incamminarono verso il Centro di Salute più vicino.
Quando nacque la piccola Soledad, i medici offrirono a Carlos un brodo caldo in cambio di una sua firma su un foglio che lui, analfabeta, non fu capace di leggere, e lo invitarono ad andare a casa tranquillo, ché sua moglie avrebbe passato lì la notte, per sicurezza.
“Non puoi mangiare, perché domattina ti puliscono la pancia” disse un’infermiera a Sabina quella sera.
Sabina passò la notte con Soledad, la bambina che tanto aveva desiderato dopo aver già avuto due maschi. Ma alle sei della mattina la svegliarono urlando: “Lavati la bocca! Hai fatto la doccia? Lavati il corpo!”
“Mi strapparono mia figlia dalle mani. Presero una pompa dell’acqua per lavarmi. Io cominciai a piangere. Mia mamma non mi aveva mai lavato così, con acqua ghiacciata. Mi misero un camice verde e una flebo al braccio. Poi mi legarono le mani e i piedi alla barella”.
“Tu non hai abbastanza soldi per mantenere così tanti figli. Partorite come maiali…”.
“Poi mi fecero l’anestesia e io mi addomentai. Quando mi svegliai stavano ancora finendo di cucirmi”.
Sabina era stata sterilizzata. Con la forza e l’inganno. Senza nessuna precauzione igienica e senza gli strumenti chirurgici adeguati. Senza che qualcuno si preoccupasse di possibili complicazioni, infezioni o emorragie. Le avevano tagliato la pancia e le tube in tutta fretta, disturbati dalle sue grida e dalle sue richieste di aiuto e spiegazione. E una volta finito l’avevano ributtata in strada, proprio come ciò che l’accusavano di essere: un animale.
Sabina oggi ha 44 anni e vive a Lima. Si è dovuta trasferire perché le è stato diagnosticato un cancro alle ovaie e a Huayllarcocha non ci sono strutture adeguate per curarla.
La incontro in un pomeriggio grigio e umido, come sempre sono i pomeriggi dell’inverno di Lima, nell’ufficio di Hilaria Supa, la parlamentare andina che fece scandalo nel 2006 per aver giurato davanti al Congresso della Repubblica peruviana in quechua, sua lingua originaria.
Hilaria proviene dalla stessa comunità di Sabina, è lì che ha cominciato la sua carriera di dirigente campesina e di coraggiosa attivista in difesa dei diritti delle donne indigene. Ed è stata lei una delle prime a rendersi conto di quello che stava accadendo: “Allenavo la squadra femminile di calcio e a un certo punto le giocatrici iniziarono a smettere di venire, dicevano che stavano male. Così andai a bussare alle loro porte e mi feci dire la verità”. Oggi Hilaria è portavoce di una causa collettiva che riunisce 2.073 donne e non perde occasione per chiedere al Governo giustizia e risarcimenti per le vittime, che sono in realtà molte di più.
Secondo i dati resi pubblici dal Difensore civico, nel 1996 lo Stato peruviano sterilizzò 88.000 donne e nel 1997 più di 110.000. In totale, le cifre del Ministero di Salute parlano di 215.227 operazioni e 16.547 vasectomie eseguite nel periodo 1996-2000, ovvero durante il secondo mandato di Fujimori.
A sua volta, il dossier “Nada Personal” (Niente di personale) redatto dall’avvocato Giulia Tamayo, e pubblicato nel 1999 dopo un minuzioso lavoro di raccolta di prove e testimonianze, riporta centinaia di casi in cui vennero violati diritti fondamentali. Le conclusioni stabiliscono che il più delle volte gli interventi venivano praticati su donne partorienti, in condizioni di stress psicologico, senza autorizzazione esplicita e con la promessa di ricevere qualsa in cambio, come alimenti o cure mediche per il resto della famiglia.
Le vittime erano contadine, indigene, madri di numerosi figli, analfabete e appartenenti agli strati più poveri e marginali della società peruviana che proprio in quegli anni, grazie al suo Presidente, stava cominciando a cambiare, a crescere e sentiva il desiderio di affermarsi come una potenza basata sull’uguaglianza, nella quale le donne sarebbero state finalmente “padrone del loro destino”. Furono infatti queste le parole pronunciate da Fujimori durante la Quarta Conferenza Mondiale della Donna che si tenne a Pechino nel 1995.
"Fu l’unico Capo di Stato uomo che intervenne - ricorda Hilaria - apposta per presentare il suo piano di salute riproduttiva e pianificazione familiare che avrebbe sterminato la povertà in Perù”.
Ma la verità racconta di un progetto preciso e freddamente calcolato che non mirava a eliminare la povertà bensì i poveri. Un programma che prevedeva incentivi per gli operatori sanitari che si dimostravano zelanti ed efficienti e sanzioni per il personale che non rispettava le quote di sterilizzazioni stabilite dal Governo.
Secondo Josefa Ramírez Peña, originaria di Huancabamba e presidente dell’associazione IAMAMC, tra le prime a denunciare le terribili violazioni, “furono le stesse operatrici di salute che operavano nei villaggi a sacrificarsi quando non incontravano nessuna donna disposta a farsi operare o a offrirsi volontarie perché convinte che il piano del Presidente fosse davvero di aiuto per l’emancipazione femminile”.
Victoria Vigo, vittima e rappresentante dell’associazione Demus che lotta in difesa dei diritti delle donne, ammette: “Io stessa quando sentì il discorso di Fujimori applaudì pensando che finalmente avremmo la libertà di decidere, ma mi sbagliavo”. La vita di Victoria infatti, cittadina istruita, donna indipendente e proprietaria di un’impresa di costruzioni a Piura, capoluogo regionale a nord del Perù, nel 1996 scorreva ben lontana dalle regioni sperdute in cui venivano consumate le violenze, e per lei i metodi anticoncezionali rappresentavano davvero il progresso. Fino a che un giorno, incinta di Manuel, non venne ricoverata in ospedale dove si era presentata per un lieve disturbo. “Io sono stata un “errore”. Presi dalla smania di raggiungere le quote stabilite si limitarono a dare un’occhiata veloce alla mia cartella clinica. Videro che avevo vissuto in provincia e diedero per scontato che anch’io fossi una campesina senza voce né diritti.” Mi dissero che il mio bambino era morto solo il giorno dopo, mi bendarono il petto per non far salire il latte e mi lasciarono andare pensando che sarei stata solo “una loca más, un’altra matta”. Ma Victoria, una volta capito assieme al suo medico di fiducia cosa le avevano fatto, si rivolse a un avvocato e ottenne un piccolo risarcimento di 2.500 dollari. “Non è niente rispetto al dolore che ho sofferto - riconosce Victoria - e comunque quello che voglio è che per tutte sia fatta giustizia, non solo per chi come me ha avuto più possibilità”
A dicembre il funzionario Marco Guzmán Baca, incaricato di valutare se il caso dovesse essere riaperto dopo una prima archiviazione avvenuta nel 2009, incluse per la prima volta tra gli accusati il presidente Fujimori e i suoi Ministri di Salute Alejandro Aguinaga, Marino Costa Bauer y Eduardo Yong Motta, ma solo un mese dopo fece marcia indietro suscitando indignazione e sospetti sulla autonomia delle sue indagini. “Abbiamo fatto ricorso alle Nazioni Unite e ci siamo nuovamente rivolte alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, l’unica che fino ad ora ci ha dato ascolto, perché il Governo peruviano continua a ignorarci o a usarci solo come argomento contro i fujimoristi” spiega Mariel Távara di Demus.
Fujimoristi, capitanati da Keiko, figlia dell’ex presidente, che sono ben lontani da un mea culpa e che anzi nei giorni scorsi si sono fermamente opposti a una proposta di legge che prevede la depenalizzazione dell’aborto in caso di violenza sessuale.
Nell’agosto 2013, prima di essere messo a tacere, Marco Guzmán Baca fece un viaggio fino a Huancabamba, una cittadina a otto ore di curve e precipizi da Piura, dove ascoltò le testimonianze di decine di donne arrivate appositamente dai loro villaggi. Tra queste c’era Esperanza Aguirre, leader della Associazione delle Donne Lavoratrici Contadine e Indigene.
“Noi dei campi non abbiamo nessuna consapevolezza dei nostri diritti - ammette Esperanza. Venite al centro, ci dicevano, vi daremo cibo e medicine. Io avevo già sette figli e sono andata. Quando sono entrata ho visto le altre signore sulle barelle, volevo andare via, ma hanno chiuso la porta per non farci uscire. Mi hanno fatto le analisi del sangue e io ho detto al dottore che era da un po’ che non avevo il ciclo. Noi lassù non abbiamo modo di sapere se siamo o meno in attesa. Lui mi disse di no, di non preoccuparmi, mi misero a letto e mi anestetizzarono ma non a sufficienza. Potevo sentire tutto e li ascoltai mentre dicevano: Accidenti, questa donna è incinta. Io li supplicai di lasciarmelo, che preferivo morire piuttosto.”
Esperanza però non morì, oggi ha 45 anni e suo figlio, se fosse sopravvissuto, dovrebbe compierne 17. La pancia di questa donna minuta che sembra una bambina già vecchia, è gonfia e non le permette di lavorare come faceva un tempo, china sui campi.
Molte delle signore sterilizzate lamentano malattie molto gravi conseguenti alle operazioni ma nessuno studio ha dimostrato una reale correlazione. Quel che è certo è che la mancanza di cure post operatorie hanno causato infezioni che sono degenerate provocando, almeno in 18 casi, la morte.
Per sopravvivere Esperanza vende al mercato la frutta e la verdura che le passano le sue amiche del villaggio e fa da custode alla sede dell’associazione a Huancabamba, dove c’è un piccolo allevamento di conigli e porcellini d’India di cui si prende cura assieme ad altre donne. Da quando si è trasferita in città ha imparato a leggere e a scrivere e organizza continuamente riunioni e attività per non far perdere la speranza alle altre vittime.
A Vilelapampa, a quaranta minuti di auto da Huancabamba, oltre una montagna che ha la faccia di un diavolo che di notte si trasforma in toro, vivono Marta e Clarisa, due amiche di Esperanza che di lottare sono ormai stanche. “Continuiamo a ricordare e a raccontare quello che ci hanno fatto, ma a che scopo?” Il marito di Marta è morto, mentre quello di Clarissa è malato. I loro campi sono secchi e quest’anno non hanno dato nemmeno il minimo per la sussistenza. Quando chiedo loro quanti figli hanno mi rispondono: “Sette, quattro vivi e tre morti” oppure “Otto, sette vivi e uno morto. Ma me ne mancano quattro” aggiunge Clarissa calcolando quelli che non ha potuto avere per colpa dell’operazione. Ma di queste vite messe al mondo nessuna è rimasta vicino, sono tutte andate via in cerca di lavoro e fortuna. Con Marta c’è solo Nancy, la più piccola, di 15 anni. Vivono insieme in una casa di pietra composta da una sola stanza con un tetto di paglia illuminata da una debole lampadina e possono usare l’acqua solo tre ore al mese perché viene razionata tra tutte le famiglie della comunità.
Forse Marta e Clarisa hanno ragione: probabilmente il passato non si risolverà e non ci sarà altro da fare che dimenticare, ma c’è ancora il futuro a cui pensare ed è ugualmente difficile. Perché la verità è che in questi 18 anni per loro non è cambiato niente, continuano ad essere contadine, lontane e dimenticate. Se vogliono andare avanti, devono farlo da sole.
Nancy osserva in silenzio sua madre che si illumina ascoltando l’ultima idea di Esperanza: una cooperativa di donne che realizzano poncho, coperte e borse da vendere nei mercati della provincia e della capitale. Nancy va a scuola ma da Marta ha imparato a lavorare al telaio, il progetto di Esperanza è anche per lei.
Le chiedo quanti figli vorrà avere da grande e timidamente, ma senza esitazione, risponde: “Nessuno”.
Il suo riscatto e la sua libertà saranno l’unica reale giustizia.