Reportage

Crisi e cocaina, quegli italiani detenuti in Perù

di Mario Magarò   20 agosto 2014

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Il paese andino è il primo produttore mondiale di foglie di coca davanti a Colombia e Bolivia. E la crisi economica ha stravolto il profilo dei corrieri internazionali: esponenti della classe media rimasti disoccupati sono disposti a tutto. "Avevo perso il lavoro: mi hanno preso con tre kg nel manico della valigia".  Le testimonianze degli italiani rinchiusi nel carcere di Lima

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Claudio attende il suo turno davanti agli sportelli dell’Ambasciata italiana a Lima. Deve sostenere degli esami neurologici ed ha fatto richiesta di rimborso spese alle autorità consolari. Si trova in Perù dal 2007, anno in cui è stato arrestato per traffico di stupefacenti: Sono venuto per investire nella lana di vigogna, ma i soldi messi da parte non bastavano. Mi sono innamorato di una ragazza ed ho iniziato a sperperare i miei risparmi per rimanere qui”, racconta all’Espresso. "Un amico mi ha messo in contatto con dei peruviani per trasportare della droga in Europa. Il compenso era di 25 mila euro. Sono stato arrestato in procinto di imbarcarmi per Amsterdam con 8,5 kg di cocaina nascosti nella valigia. Era pura al 95 per cento”. Prima di rimanere incastrato dell'avventura peruviana era un operaio specializzato nella costruzione di parcheggi sotterranei.

Secondo il rapporto annuale dell’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, il Perù è il primo produttore mondiale di foglie di coca davanti a Colombia e Bolivia, con 49.800 ettari di superficie coltivati a coca. Nel 2013 il paese andino ha fatto registrare una produzione di 121 mila tonnellate di foglie, destinando il 95 per cento, circa 113 mila tonnellate, al narcotraffico. La capacità produttiva di cloridrato di cocaina è stimata intorno alle 300 tonnellate annue, rispetto alle 345 della Colombia, nonostante un conflitto di cifre con l’Agenzia anti narcotici statunitense (secondo gli USA il primato spetta al Perù con 325 tonnellate di cocaina prodotte annualmente contro le 195 della Colombia).

Ricardo Soberón, direttore del Centro Investigativo sulle droghe ed i diritti umani, fa luce sull’articolato sistema delle rotte del narcotraffico in Perù: Lungo la via marittima che collega i porti del Callao, Chimbote e Paita col Messico viaggiano grandi quantità di cocaina destinate al mercato nordamericano. Attualmente il 60 per cento della cocaina peruviana è diretto in Europa, passando attraverso la frontiera tra Perù e Bolivia. Una volta trasformata in cloridrato di cocaina nei laboratori clandestini di El Alto, la città satellite di La Paz, la droga raggiunge il Brasile per poi essere imbarcata verso i paesi dell’Africa Occidentale (Guinea, Guinea-Bissau, Ghana...) ultima tappa prima di invadere i mercati europei”, spiega l’esperto, che di professione fa l'avvocato.

“In Perù assistiamo ad una terziarizzazione del business della cocaina: il mercato locale è gestito da piccoli clan familiari che si incaricano della produzione e del trasporto della droga per conto delle organizzazioni internazionali del narcotraffico. Esponenti dei cartelli colombiani e messicani, in primis il Cartello di Sinaloa, sono presenti sul territorio per dirigere gli affari, al pari della ‘ndrangheta italiana”.

L’aeroporto “Jorge Chavez” di Lima, principale scalo internazionale del paese, è il teatro dove i corrieri della droga, o “burriers” come vengono chiamati in Perù, inscenano idealmente una roulette russa per evadere i controlli. Nascosta all’interno di un laptop o in pacchetti attaccati al corpo col nastro adesivo, le modalità per trasportare la cocaina sono innumerevoli. Il sistema più rischioso consiste nell’ingerire degli ovuli per occultarli nello stomaco; la rottura di un involucro può portare in tempi brevi alla morte per overdose. Tradizionalmente i corrieri della droga provengono da aree disagiate come la sterminata periferia di Lima; una manovalanza facile da reclutare a cui si aggiungono, nel caso degli europei, trafficanti di professione e tossicodipendenti.
[[ge:espresso:speciali:1.169363:article:https://espresso.repubblica.it/speciali/2014/06/13/news/droghe-da-dove-arrivano-quelle-dirette-in-italia-1.169363]]
La crisi economica ha però stravolto il profilo dei burriers internazionali, facendo emergere una moltitudine disposta a tutto per sbarcare il lunario: studenti universitari, padri di famiglia col mutuo da pagare, esponenti della classe media europea rimasti disoccupati. In media un corriere guadagna tra i 5 e 10 mila euro per ogni viaggio. Il caso più eclatante è quello degli spagnoli (la disoccupazione in Spagna è al 25,93 per cento) come conferma Giovanni Cavero dell’Ambasciata spagnola in Perù: Ci sono casi di imprenditori dichiarati falliti, soprattutto nel settore immobiliare, che sono entrati nel giro perché hanno debiti da pagare. Le mafie colombiana e nigeriana reclutano i corrieri presso i servizi sociali, in coda per ottenere il sussidio di disoccupazione: chiedono loro se hanno bisogno di soldi e propongono un viaggio in Perù. Un ruolo decisivo nel reclutare i burriers lo giocano anche le comunità di peruviani radicate tra Spagna ed Italia”. Negli ultimi anni, stando alle statistiche della polizia peruviana, il numero di spagnoli arrestati per traffico di stupefacenti risulta in costante aumento, convertendo la tratta Lima-Madrid nella più battuta dai burriers.

Sono 1.715 gli stranieri detenuti in Perù, il 90 per cento condannati per traffico di droga. Il carcere di “Sarita Colonia” a Lima ne ospita 525, tutti uomini. Giorgio, un impiego nel settore edile, è in prigione dal settembre 2010: “Avevo perso il lavoro ed un amico mi ha proposto di andare in Perù; tutto spesato e 15 mila euro in tasca al mio ritorno in Italia. Sono stato arrestato con 3 kg di cocaina celati nel manico della valigia. Qui dentro tutto ha un prezzo: l’ingresso al padiglione costa 500 soles (circa 150 euro) ed altri 150 soles per accedere al corridoio a cui sei assegnato. Se vuoi dormire in cella devi comprare il tuo posto a 1500 dollari. Puoi pagare a rate, ma devi farlo per forza”.

I soldi spettano al Comitato, formato dagli stessi carcerati, che gestisce l’ordine all’interno del padiglione di massima sicurezza, un melting pot (gli italiani sono 16) dove sono rinchiusi tutti i detenuti stranieri. Per sostenere le spese alcuni ricevono un sussidio dalle ambasciate, nel caso degli italiani la somma ammonta a 450 soles ogni 3 mesi. Di spazio a “Sarita Colonia” non ce n’è: in base ai dati dell’Istituto nazionale penitenziario il carcere è omologato per 572 persone, ma ne contiene 3.098, con un sovraffollamento del 442 per cento; la notte si dorme per terra, dividendo un materasso in due. Il senso di smarrimento è brutale e molti si rifugiano nella cocaina, che circola in abbondanza nel padiglione, pagando interessi fino al 50 per cento per comprare la droga.

Carlo, un bergamasco di 47 anni, sta scontando una pena a 6 anni ed 8 mesi di reclusione, come la maggior parte dei detenuti per traffico di droga. I narcos lo hanno venduto alla polizia: “Mia moglie è tailandese. Volevo aprire una birreria nel suo villaggio al confine col Myanmar e mi servivano 30 mila euro. Al mio arrivo a Lima una persona mi ha fermato per scattarmi una foto; quando sono tornato in aeroporto un mese dopo, con 5 kg di cocaina addosso, lo stesso uomo mi aspettava per arrestarmi: era un poliziotto”. Il sacrificio di un corriere, con una soffiata alla polizia, permette di allentare i controlli e far passare indenni il resto dei burriers; in media sono in 5 sullo stesso volo. La perdita del carico di droga viene compensata “tagliando” la cocaina una volta a destinazione, aumentandone così il volume iniziale. La polvere bianca, che in Perù costa 1.310 dollari al kg, si vende in Europa tra i 60 ed i 90 euro al grammo.

“Un giorno ho visto un uomo frugare tra i rifiuti, cercava qualcosa da mangiare. Mi sono avvicinato ed ho riconosciuto un ex detenuto di origine italiana” afferma Tommaso Ziller, assistente sociale presso l’Ambasciata d’Italia in Perù: “Dopo aver scontato la pena in carcere, paradossalmente, la loro condizione peggiora. Sono proiettati in un limbo legale che li rende vulnerabili e ricattabili”.

Gli stranieri condannati per traffico di droga non possono lasciare il Perù finché non saldano le pene pecuniarie accessorie previste dal codice penale; l’ammontare si aggira intorno ai 15 mila soles (circa 4 mila euro), una cifra, per molti, troppo alta da pagare. Per far fronte alle spese, quando manca l’aiuto economico delle famiglie, sono obbligati a trovare un impiego in nero: senza documenti e con precedenti penali a carico, agli ex detenuti viene infatti negata la possibilità di ottenere un permesso di lavoro. Luigi, un ex cocainomane, lavora saltuariamente come muratore: “Dovevo 25 mila euro al mio pusher; sono diventato un corriere per saldare il debito. Sono stato spesso in Perù, una volta ho ingerito 60 ovuli. Mi hanno arrestato in occasione dell’ultimo viaggio che avevo in programma di fare. Uscito dal carcere ho dovuto arrangiarmi; guadagno 20 soles al giorno quando riesco a lavorare”.

Una volta estinta definitivamente la condanna, ad aggravare la condizione degli ex burriers interviene la burocrazia. L’ uscita dal paese viene infatti sancita da un decreto di espulsione, un iter lungo e farraginoso che coinvolge 4 istituzioni diverse, con 22 passaggi burocratici da adempiere. Senza un buon avvocato, molto spesso, la domanda di espulsione rimane impantanata nei meandri della pubblica amministrazione, allungando forzatamente la permanenza in Perù. A molti non rimane altra scelta che tentare la fuga attraverso il confine con l’Ecuador.

NB: per motivi di sicurezza i nomi dei detenuti italiani intervistati sono di fantasia